mercoledì 27 dicembre 2017

Il pub chiude


Photo HelenTambo on Instagram

Nel quinto compleanno del mio blog, lo scorso novembre, avrei dovuto abbandonarmi ai festeggiamenti, invece chiudo i battenti. Ci penso da mesi, anzi se devo essere sincera la tentazione l’ho avuta più volte nel corso degli ultimi due anni, ma la decisione l’ho maturata durante l’estate, mentre continuavo a interrogarmi sul perché continuare a parlare di libri qui. Di fatto ho smesso di scrivere con regolarità dallo scorso mese di giugno. 
Nel corso del tempo sono stati tanti i motivi che si sono affacciati alla mia mente in diverse occasioni, magari su sollecitazione casuale esterna, e non è facile districarmi tra i pensieri che spesso si sono affastellati disordinatamente -quando insieme, quando isolati- per provare a dare una spiegazione a voi, miei ventitré lettori fissi. Ci provo comunque, in un elenco che non segue alcun criterio, tanto meno l’ordine di importanza, perché sono tutti motivi meritori di attenzione. 
Non ho più voglia e neanche il tempo per dedicarmi a un’attività che mi pesa, infatti ho capito che 
quando smette il piacere, è ora di finirla: inutile continuare a fare qualcosa che ci trasmette ansia da prestazione invece che piacere. Insomma non mi divertivo più. 
Stava diventando uno stress, soprattutto quando mi rendevo conto che leggevo in funzione del blog, che pensavo solo a ciò che avrei dovuto poi dire, senza abbandonarmi alla lettura per il puro piacere di leggere. 
Mi sono sentita poco libera di gestire i miei tempi e i miei spazi: un po’ per le imposizioni che mi davo da sola, un po’ per la pressione e la responsabilità che sentivo quando mi arrivavano richieste di autori, spesso autopubblicati o pubblicati in EAP, più raramente da editori. Alla fine leggevo per me o per fare promozione? 
Non credo più al blog come strumento di divulgazione: almeno per quel che riguarda me, che non sono mai entrata nell’olimpo dei blogger considerati e incensati. Si tratta di essere nel giro giusto, di avere amici che ti condividono e ti spingono, di editori che linkano i tuoi post nelle loro rassegne stampa. Poiché ho invece molta considerazione di ciò che scrivo e soprattutto di come lo scrivo (detesto la falsa modestia) sono arrivata alla conclusione che 
se anche puoi distinguerti, comunque sei un blogger tra i tanti e spesso i tanti non sono alla tua stessa altezza. Ho una formazione specialistica, provengo da studi di Linguistica e Letteratura, ma questo non è importante, non sembra essere una conditio sine qua non, ed è anche giusto così perché tutti i buoni lettori hanno diritto di esprimersi sui libri che leggono, la rete è democratica assai. Io molto meno, perciò preferisco scendere dalla giostra. 

Non smetto di leggere ovviamente, perché i libri fanno parte della mia vita da quando ero una bambina, e non smetto di parlarne. 
Continuerò a farlo attraverso la pagina Facebook nata originariamente per l condivisione dei post del blog. Continua per conto suo: ha buona visibilità (migliore di quella che può avere il blog), è più immediata, mi consente di scrivere in modo più estemporaneo, davvero quando mi va, se mi va e non sempre di tutto quello che leggo. 
Continuerò a scrivere solo dei libri che mi sono piaciuti, perché ho capito anche che le critiche non piacciono agli scrittori. Puoi essere circostanziato quanto vuoi, argomentare le tue critiche, essere preciso, cortese ma fermo, eppure le stroncature non piacciono, soprattutto se provengono da un blogger tra i tanti. Le critiche non le gradiscono gli scrittori e ancor meno le gradiscono i loro fan, pronti a scatenarsi sui social come veri e propri paladini della lesa maestà (spesso istigati dalla stessa “maestà”). 
Sono tempi brutti, la buona educazione social latita (una volta aveva un nome e si chiamava netiquette), il bullismo colto impazza: onestamente preferisco vivere. Quindi, solo libri belli. Continuate, se vi va, a seguire il mio gatto Pepe e me qui. Qualche buon consiglio lo troverete. 
Chissà poi cosa altro succederà, quale altra avventura mi aspetta, se mi inventerò altro. 
Per ora, grazie di avermi letto fin qui.
Elena ExLibris


PS. Il titolo del post è una citazione. Tra la fine degli anni Settanta e gli anni Ottanta, nel luogo dove vivo, esisteva un locale dove si faceva musica jazz e in generale intrattenimento. Lucio, il proprietario, a fine serata, per incoraggiare gli avventori ad andarsene, al microfono annunciava "il pabba chiudeee!". Bei tempi.

martedì 27 giugno 2017

"Il mistero di Paradise Road" di Pietro De Angelis

Vi siete mai domandati, signori, quando comincia una storia? 
[…] 
Ci ho riflettuto a lungo, signori, e ormai posso dirvi con certezza che questa storia, la storia di come Lionel Morpher si è trasformato in un assassino, 
comincia esattamente quattro mesi prima della strage di Paradise Road. 
Il 12 settembre 1874. 
Un lunedì. 

Questo è un giallo atipico, o almeno sfugge dal canone che vuole l’assassino scoperto solo alla fine, dopo che il lettore è stato aiutato a fare le sue congetture, sulla base di indizi che -nei casi meglio riusciti e meno prevedibili- in conclusione risultano fuorvianti. 
Qui viceversa il nome dell’assassino viene reso noto subito, fin dalle prime pagine del romanzo, quindi quello che spontaneamente ci si chiede è in cosa consista il mistero di Paradise Road. 
In un quartiere residenziale della Londra vittoriana, si consuma il dramma della follia di un uomo comune, schiacciato tra metodico stile di vita e imprevisti della natura umana, e l’arcano di dodici morti che avvengono contemporaneamente in un'alba fredda e nebbiosa, anticipatrice di forti cambiamenti nell'esistenza di Lionel Morpher, il protagonista. 
In realtà quindi non è tanto scoprire chi è l’assassino, ma capire come sia potuto succedere che dodici persone, tra uomini, donne e bambini, siano morte contemporaneamente una fredda mattina d’inverno, senza presentare visibili segni di violenza, ma tutti con le mani strette intorno alla gola e gli occhi fuori dalle orbite, come se fossero stati tutti presi da un colpo apoplettico, e come di queste morti si possa accusare una sola persona. 
La ricostruzione degli avvenimenti che portano Lionel Morpher a diventare maniaco cronico dall’impiegato modello dell’Ufficio Brevetti di Londra che era, viene fatta nel corso di trascrizioni fonografiche raccolte in quattro sedute, circa dieci anni dopo i fatti, presso l’Asylum dove l’uomo era stato rinchiuso dopo i fatti di cui si era reso responsabile e dove muore per arresto cardiaco. 
La vita di Morpher e di sua moglie Alphonsine, giovane istitutrice che rinchiude la sua esistenza nelle mura della graziosa villetta a schiera di Paradise Road, completamente soggiogata dal marito, è passata al setaccio nei quattro mesi che precedono la strage, a partire dal giorno in cui l’uomo accetta una promozione sul lavoro e decide che è arrivato il momento di fare un figlio. 
Lionel è ossessivamente sistematico, in tutti gli aspetti della vita, compreso quello coniugale e più strettamente sessuale, dove tutto è programmato al minimo dettaglio per potersi realizzare socialmente e dove la nascita di un figlio non potrebbe che coronare un’esistenza perfetta; Alphonsine, remissiva e silenziosa, sembra incarnare l’ideale di moglie devota e sottomessa, mentre continua a coltivare la passione per la poesia che ha fin da quando viveva nella casa della zia paterna Miss Lucinda Crowne, apprezzata istitutrice in pensione che si era fatta carico dell’educazione della ragazza. 
I sogni e i desideri repressi della giovane, uniti al malinconico trasporto per i sonetti di Keats e all’amore per un uomo misterioso, sono la chiave di volta per comprendere il delirio di Lionel, che cerca di “guarire” la moglie da queste distrazioni che la allontanano dai suoi doveri. 
Il mezzo saranno le rivelazioni scientifiche a cui lo inizia il direttore dell’Ufficio Brevetti, Mr. Woodcroft, coinvolgendo Lionel nell’ambizioso progetto di recuperare le scoperte e gli apparecchi inventati da James Watt, matematico e ingegnere scozzese, inventore della macchina a vapore, vissuto nel Settecento. Quale sia il nesso tra i due elementi, la “guarigione” dalla malinconia di Alphonsine e le invenzioni di Watt, è alla base della soluzione del mistero, per cui lascio al lettore il piacere di scoprirlo. 
Pietro De Angelis ricostruisce ambienti e situazioni con dovizia di particolari, riuscendo a far vivere al lettore una precisa atmosfera che richiama alcuni grandi autori come Stevenson, Mary Shelley e Wilde, che però appartengono a un’epoca ben lontana da questa in cui scrive l’Autore. 
Entrare e rendere con tanta precisione l’età vittoriana in cui si svolge la storia, in una narrazione che si snoda puntuale e che forse risente di qualche lentezza, è frutto di una documentazione storica rigorosa che De Angelis non omette di esplicitare nella nota finale al volume: molte e variegate sono state le fonti a cui ha attinto, dai classici saggi sullo stile di vita nell’Inghilterra tardo ottocentesca ai siti web che documentano l’epoca dominata dalla figura della regina Vittoria, dalle ricostruzioni storiche dell’attività dell’Ufficio Brevetti di Londra ai saggi sulla poesia che lo hanno aiutato a chiarire il dibattito culturale che nel momento storico in cui è ambientato il romanzo vedeva contrapposte poesia e prosa. 
Il tempo che Pietro De Angelis ha impiegato per scrivere questo romanzo, dalla prima idea alla pubblicazione, è di quasi dieci anni: segno evidente di un impegno e di una convinzione che lo hanno sostenuto in un’impresa non semplice. 


Photo HelenTambo on Instagram


Il mistero di Paradise Road 
Autore: Pietro De Angelis 
Dati: 2016, 313 p., brossura; 
Editore: Eliot (collana Scatti); 
Prezzo: € 17,50 
Giudizio su Goodreads: 3 stelle

lunedì 12 giugno 2017

"Pastorale americana" di Philip Roth

Riattaccò sopra la scrivania il ritratto senza vetro di Conte e poi, 
come se ascoltare persone che ciarlavano di questo o di quello 
fosse il compito assegnatoli dalle forze del destino, 
lasciò l’inferno in cui si era avventurato 
per tornare alla solida e metodica buffonata della cena. 
Era tutto ciò che gli restava per non perdere il controllo: una cena. 
L’unica cosa cui poteva aggrapparsi 
mentre la grande impresa che era stata la sua vita 
continuava a sfrecciare verso la distruzione: una cena. 
E alla terrazza illuminata dalle candele fece doverosamente ritorno, 
sempre portando con sé tutto ciò che non riusciva a capire. 

Per IBS, questo è il romanzo più venduto di Philip Roth, seguito da "Lamento di Portnoy" e “La macchia umana”: non so se questo è vero, di sicuro credo che sia arrivato il tempo di riprendere “La macchia umana”, interrotto non ricordo per quale motivo anni fa, forse solo perché facevo fatica a leggerlo. 
Quel che ho capito, anche da quest’ultima lettura, è che leggere Roth non è proprio una passeggiata di salute e forse è in questo che risiede la resistenza ad affrontarne anche i titoli più celebrati. So anche però che leggere Roth è esperienza fortemente coinvolgente, che costringe a fare i conti con il proprio modo di vivere alcune situazioni emotive, che non hanno nulla di eccezionale perché magari sono comuni, ma che nel modo in cui sono descritte e narrate diventano uniche e riconoscibili come nostre. 
Insomma, credo che leggere certi romanzi, ad esempio questo, getti una luce sulla vita -sulla propria e su quella degli altri- che poi costringe a riflettere su alcuni temi in particolare: qui direi, sul senso del dovere e sull’essenza dell’amore paterno. 
Questo romanzo, pubblicato nel 1997 (in Italia, da Einaudi nei Supercoralli, l’anno successivo) è il primo della cosiddetta trilogia di Nathan Zuckerman, il narratore alter ego di Roth, che apparirà anche in “Ho sposato un comunista” (1998) e nel già citato “La macchia umana” (2000). 
Il protagonista è Seymour Levov, detto lo Svedese, uomo apparentemente incrollabile, la cui vita perfetta fatta di successo nel lavoro, bellezza, ricchezza, virtù e amore, si sgretola davanti al disastro causato dalla sedicenne figlia Merry, grassottella e balbuziente, che mette una bomba nell’ufficio postale di Newark, avendo sposato la causa di un’associazione terroristica di estrema sinistra, negli anni in cui gli Stati Uniti sono impegnati nella guerra del Vietnam. L’attentato dinamitardo compiuto da Merry diventa la cerniera che divide il tempo dello Svedese e di sua moglie Dawn, ex reginetta di bellezza del New Jersey, perché dopo la bomba e la fuga della ragazza, nulla sarà più come prima e da quel momento in poi sarà un susseguirsi di “dopo”. 
L’attività imprenditoriale di Seymour, la produzione di guanti in pelle della Newark Maid, piccola fabbrica in rapida espansione fondata da suo padre, è la metafora della perfezione e del dovere, del sentimento di responsabilità: ogni piccolo dettaglio di un guanto, dal tipo di pellame scelto, dal taglio dei pezzi e dalle sfumature di colore che devono armonizzarsi, da ogni minima cucitura, dalla misura e dalla morbidezza, rappresenta un tassello imprescindibile che porta alla massima realizzazione nel lavoro, come nella vita. Nessuna imperfezione è concessa, ogni coppia di guanti è un gioiello di accuratezza, l’aspirazione agli obiettivi più alti è il faro che guida ogni azione dello Svedese, intriso di senso del dovere fino al midollo, “naturalmente rispettoso”, che precipita nell’abisso del dolore più cupo lì, dove l’azione criminale di Merry incontra il suo amore incondizionato. Tutto il romanzo ruota sulle domande che lo Svedese si fa, sul tentativo di comprendere cosa sia successo a Merry, e quindi alla loro famiglia, con dolore e con rabbia. Dietro la vita perfetta di Seymour si accumulano scorie: la figlia “imperfetta”, ma anche -e forse proprio per questo- amatissima, così diversa dai suoi bellissimi e seducenti genitori, e gli inciampi della vita che portano Dawn, così tenace e capace di tenere testa a quello che sarebbe diventato suo suocero (che aveva contrastato la relazione tra suo figlio e quella ragazza cattolica che “non era mai stata così testarda come quando voleva far dimenticare il suo ruolo di ex regina di bellezza” e si era poi messa in testa di allevare mucche e tori), a scegliersi un amante che è l’opposto del suo affascinante marito. Succede anche a lui, a Seymour di prendersi un’amante, e sarà anche questa faccenda una macchia che si andrà ad aggiungere al resto delle disfatte e che però non intaccherà la forza del suo desiderio di essere coppia ancora con Dawn, nonostante tutto e perché per lui la vita senza di lei è inconcepibile. 
L’altro grande tema che io vedo in “Pastorale americana” è quello dell’amore paterno, che per me resta un mistero. Riferendomi alla genitorialità naturale, non adottiva, mi sono sempre chiesta di cosa è fatto l’amore di un padre; se è quasi scontato capire di cosa è fatto fisicamente, visceralmente, quello di una madre che ha portato in grembo un figlio e quindi lo sente per legge di natura parte della propria carne, in cosa si sostanzia quello di un padre? Di cosa è fatto, come un uomo riconosce un figlio, a parte le possibili somiglianze? Roth, attraverso la figura di Seymour Levov si avvicina a farlo capire: lo Svedese sente che Merry ha bisogno di lui, soprattutto nella latitanza, la vuole riportare a casa, forse più di quanto lo desideri sua moglie Dawn e in questo risiede la straordinaria figura di padre che ha fallito, pur amando la propria figlia alla disperazione e sentendola parte di sé. 
Ho trovato questo romanzo molto toccante, ho sofferto per quella richiesta di perfezione che la vita rivolge a Seymour, per il quale mi sono commossa, riconoscendo i limiti imposti dalle convenzioni sociali, che poi sono la prigione, spesso dorata, di molti di noi. 

 
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Pastorale americana 
Autore: Philip Roth 
Traduzione: Vincenzo Mantovani 
Dati: 2013, 458 p., brossura; 
Editore: Einaudi (collana Super ET); 
Prezzo: € 14,00 
Giudizio su Goodreads: 5 stelle

lunedì 22 maggio 2017

#MaggiodeiLibri: una #recensione impossibile per Salvatore Toma

Un grande poeta 
si riconosce anche 
dalla vita che fa 
da come si veste 
e non dagli errori 
che produce. 
Se capisce d'esser fatto 
di trachea di bronchi 
di ossa e di grassi 
e ride della sua 
fragilità. 
Un grande poeta 
si riconosce soprattutto 
dalla paura che si fa.

Mi sembra quasi un paradosso che nel Maggio dei Libri mi sia ritrovata a leggere in modo disordinato (iniziare, lasciare, riprendere, leggere in contemporanea) e soprattutto che non abbia avuto modo di parlare dei libri incontrati via via in questo mese. Paradossale anche perché all’inizio di maggio mi sono detta che in fondo a me non serve un mese speciale per leggere di più o meglio, leggo sempre e comunque: poi, a smentirmi, è arrivato un momento talmente carico di impegni che a risentirne è stato il blog per primo, decisamente trascurato, insieme ai libri che ho letto, così che si sono disperse un po’ di possibilità. 
Per superare questa impasse ho pensato di aderire all’iniziativa promossa da un gruppo di blogger, guidato da Simona Scravaglieri di Letture Sconclusionate per il #MaggioDeiLibri e di parlare, in questa settimana che ha per tema le #recensioni, di una recensione impossibile da fare, per una serie di motivi che si possono riassumere in pochi punti: 
• non sono brava a parlare di poesia, non è un genere che frequento abitualmente, leggo poca poesia e quella poca non me la spiego, non la spiego, non voglio farmela spiegare perché la poesia si legge e basta;
• il poeta di cui vorrei parlare è Salvatore Toma, salentino –anzi, magliese- radicato al territorio e allo stesso tempo in grado con i suoi versi di raccontare l’universale, impossibile per sua natura da commentare, incasellare, categorizzare se non in una definizione che Valeria Nicoletti del blog Stanze- Storie dal Salento ha ricordato, quello di poeta “appartato” (definizione che gli aveva ritagliato addosso già Maria Corti), a suo modo scapigliato; 
• Toma è prematuramente scomparso all’età di 35 anni, si dice suicida ma più facilmente per mancata possibilità (capacità?) di salvarlo, portandosi dietro le risposte -che forse lui aveva ben chiare- a domande esistenziali che per chi è rimasto restano insolute, quindi noi chi siamo per cercare di decifrare, di comprendere, di spiegare? 
• i libri di Toma sono fuori catalogo, introvabili, veri e propri tesori per chi ha la fortuna di averne una copia, quindi certamente questa non potrà essere che una recensione che inviterà a cercare la poesia del Great Poet, come lui stesso soleva definirsi, nelle biblioteche più che nelle librerie. 

Nonostante questi motivi, scelgo oggi di scrivere di Toma perché è maggio, è il Maggio dei Libri, e in maggio lui nacque, nel 1951. Quest’anno sono trent’anni che Salvatore Toma non c’è più e forse è arrivato il momento in cui leggerlo e rileggerlo è il tributo più importante che possiamo fargli, al di là di qualunque celebrazione che probabilmente lui non avrebbe apprezzato. 
Prima di tutto, il “Canzoniere della morte”, uscito per Einaudi 12 anni dopo la morte dell’autore su iniziativa di Maria Corti, che ne curò l’edizione scegliendo i componimenti che ne avrebbero fatto parte, suddividendoli in tre sezioni, come già aveva suggerito Donato Valli -che forse per primo aveva compreso verso quali direzioni si andava incanalando la poesia di Toma-, e scrivendo l’introduzione che ben racconta i motivi ispiratori, lo stile ribelle che si rifletteva in una vita disordinata e libera, la “deriva esistenziale” del poeta. È il libro che ha fatto uscire Toma fuori dalla sua provincia, così angusta per uno spirito anticonvenzionale come il suo, che lo ha portato in giro per l’Italia, dove i suoi concittadini mai avrebbero pensato potesse arrivare. 
 
Photo HelenTambo on Instagram

Canzoniere della morte” è il titolo della prima delle tre sezioni dell’antologia, poi esteso a tutta la raccolta che comprende anche “Bestiario salentino del XX secolo” e “I sogni della sera”: se molti dei versi di Salvatore Toma richiamano forte l’idea della morte come attesa, rimedio e soluzione (credo che le parole ‘morte’ e ‘morti’ abbiano la più alta occorrenza rispetto ad altre), sarebbe ingannevole pensare che proprio la morte sia il tema centrale della poesia di Toma: anche quando ne parla, lo fa con una vitalità eccezionale, quasi come un ossimoro, la vita e la morte sono la stessa cosa, si compenetrano e si intrecciano, i toni sono spesso polemici, beffardi, ironici, la voce è alta, quasi grida quando sarò morto/che non vi venga in mente/di mettere manifesti:/è morto serenamente/o dopo lunga sofferenza/o peggio ancora in grazia di dio./Io sono morto/per la vostra presenza (“Testamento”). 
La vita è invece celebrata nella Natura, negli animali che vivono nei versi del Bestiario e che ci avvicinano a quel mondo solitario (dagli uomini) e contemplativo, che solo nel bosco delle Ciàncole vedeva il poeta nel suo essere più libero, con i suoi amici cani e gli uccelli: nei versi del Bestiario ci sono le creature della Terra, dell’Aria e del Mare, lombrichi e bruchi, bisonti, cani, antilopi e leoni, giraffe, tigri e farfalle, cicale, falchi, aironi e civette, rondoni, merli e nibbi, delfini, squali e capodogli, tutti in intima solidarietà con il poeta, che si fa sfondo e li accoglie. Leggendo i versi di questa sezione del Canzoniere non posso non pensare a certi quadri di Antonio Ligabue
La terza sezione, quella della dimensione onirica e privata, svela un uomo che coltiva la sua energia anche nell’ambito delle passioni, dell’amore, dei rimpianti. È il Toma più intimo, verso il quale anche da lettrice ho maggiore pudore. 

Oltre al “Canzoniere della morte”, pubblicato da Einaudi del 1999 e andato esaurito alla sua terza ristampa, oggi è possibile ritrovare i versi di Toma, desunti da precedenti raccolte curate da lui stesso e pubblicate da editori locali sensibili alla sua arte, in una pubblicazione fuori commercio, intitolata “Il Tomaverso. Di anime animali creature senzienti”. Il volume, curato dalla Fondazione Capece e dall’Amministrazione comunale- Assessorato alla Cultura di Maglie, con la collaborazione preziosa di Paola Antonucci Toma (la “donna favolosa” di Toma), è distribuita al pubblico dietro offerta devoluta alla sezione locale dell’associazione ZampaLibera onlus
Qui le scelte operate da Angela Leucci, che ha materialmente allestito l’antologia con il consenso della famiglia del poeta, sono svincolate da ordini tematici e tendenzialmente privilegiano la vita, nella dimensione più primitiva forse, più istintuale: c’è il mestiere del poeta, l’essere poeta, ci sono i baci che il padre dà al figlio bambino, c’è l’amore per gli alberi, gli ulivi e le querce, c’è la passione per gli animali e gli ideali animalisti e antivivisezionisti, ci sono le stagioni e il naturale svolgersi del tempo. 

Io davvero non lo so. Non so se basta la premura che oggi, a trent’anni di distanza dalla sua morte, utilizziamo quando ci avviciniamo alla poesia di Salvatore Toma, non so se basta per risarcire la distrazione con la quale in vita il Great Poet è stato considerato: mi piacerebbe che sì, che anche i più giovani potessero leggere la poesia di Toma senza pregiudizi provinciali, che si tornasse a cercare e riconoscere quella voce che, inascoltata allora, oggi può acquistare un valore nuovo, se riusciamo a farla nostra. Ci sta provando la Fondazione Capece, che con l’aiuto di TwLetteratura ha organizzato a marzo un workshop dedicato a quattro componimenti poetici di Salvatore Toma,  in cui lettori di tutte le età hanno provato a giocare con i suoi versi e le sue storie; a questa prima iniziativa si è affiancata una serie di eventi promossi a Maglie dalla stessa Fondazione Capece, dal Comune di Maglie e dalla Biblioteca di Sarajevo: la proiezione, destinata agli studenti della scuola secondaria di secondo grado, del docufilm “Il bosco delle parole” di Elio Scarciglia e il recital “Canzoniere della vita” di Renato Grilli con Rachele Andrioli e Rocco Nigro. 
Quello che per certo so -e che credo indispensabile- è semplicemente tornare a leggere Toma, senza cercare inutili sovrastrutture, fiduciosi di trovare invece la semplicità dell’istinto e della parola nuda. 

Per chiudere, il calendario della settimana che inizia oggi per seguire i nuovi post nuovi e recuperare quelli passati: 
• Martedì 23 pomeriggio Simona di Letture Sconclusionate
• Mercoledì 24 pomeriggio Marianna di Sulle ali della fantasia 
• Giovedì 25 mattina Paola ospite di Letture Sconclusionate 
• Giovedì 25 pomeriggio Angela del canale Angela Cannucciari
• Venerdì 26 pomeriggio Daniela di Appunti di una lettrice
• Sabato 27 pomeriggio Baba di  Librinvaligia
• Domenica 28 mattina Giada del canale Dada Who?

mercoledì 17 maggio 2017

#MattiaTw e #AusterTw, letture e riletture con TwLetteratura

Parte domani il Salone del Libro di Torino e anche quest’anno TwLetteratura avrà il suo spazio di confronto con chi nel corso dell’anno (intendendo per anno quello scolastico) ha partecipato ai progetti dedicati alle scuole e anche con tutti gli utenti che dal loro account cinguettano sulle proposte dei giochi letterari della comunità fondata da Paolo Costa, Edoardo Montenegro e Pierluigi Vaccaneo. 
Nemmeno quest’anno riuscirò a essere a Torino in questo scorcio di settimana che si preannuncia davvero ricca di appuntamenti interessanti al Lingotto, un po’ perché i collegamenti con la Puglia non sono né semplici né economici (ma questo lo dico sempre) e un po’ perché questo è un periodo davvero molto intenso, fatto principalmente di incombenze che riguardano il lavoro. 
Nonostante ciò, approfitto degli appuntamenti che TwLetteratura ha fissato con i suoi followers per raccontare a distanza delle letture e delle riscritture da me portate a termine nella stagione invernale, poche rispetto ai progetti che sono stati proposti in quantità e varietà. Quelle che ho operato io sono scelte fatte nel ventaglio di più proposte che la comunità di TwLetteratura ha presentato alle scuole e agli altri utenti di Twitter: un progetto legato a Il fu Mattia Pascal di Luigi Pirandello, con la partecipazione di Fondazione Cariplo, e la lettura social in contemporanea di In the Country of Last Things di Paul Auster e de Il deserto dei Tartari di Dino Buzzati, il primo dei quali da leggere e commentare in lingua originale, in collaborazione con Bocconi Arts Campus. Gli hashtag seguiti sono stati rispettivamente #MattiaTw e #AusterTw. 
Per quanto riguarda Pirandello, per me è stata una rilettura a distanza di oltre trent'anni (l’edizione è sempre quella, Oscar Mondadori -ristampa dell’aprile 1982, ero studentessa liceale-) per ritrovare il gioco delle parti, le maschere, ciò che siamo e ciò che vorremmo essere, "la goffa, incerta metafora di noi". Nell'Avvertenza sugli scrupoli della fantasia, la nota a conclusione del romanzo, troviamo la sintesi del pensiero pirandelliano, ancora presente e attuale. Un piacere che si rinnova ogni volta che incontro Pirandello, che continuo a trovare moderno, capace di insinuare dubbi e suggerire riflessioni sulla condizione dell’uomo nella società, in famiglia, nel rapporto con gli altri. 
Photo Elena Tamborrino
 La lettura condivisa di uno dei primi romanzi di Pirandello, certamente tra i più letti di sempre, è rientrata in un progetto che TwLetteratura ha proposto alle scuole in collaborazione con Fondazione Cariplo, interessata a studiare l’impatto che il metodo ha sulla didattica laboratoriale, innovativa, che tanti docenti applicano da qualche anno in molte scuole italiane -e non solo- di ogni ordine e grado. 
Non so quanto i lettori più giovani abbiano apprezzato questa lettura e in genere amino i romanzi di Pirandello, a differenza delle novelle che hanno effetto più immediato e piacciono molto: i miei alunni hanno decisamente faticato, forse anche per un calendario dettato da specifiche esigenze di ricerca da parte della Fondazione Cariplo, che ha dilatato una lettura che invece, a mio modesto parere, doveva essere compressa in un periodo molto più breve di quello previsto dal progetto. Tuttavia non sono mancati momenti di scambio e di confronto sulla personalità del protagonista, sulle occorrenze della vita, sulla necessità di essere riconoscibili agli altri, qualunque posto si occupi nella società. 
Photo HelenTambo on Instagram
La seconda proposta di TwLetteratura, svincolata dalla scuola, mi ha visto fare la scelta di leggere In the Country of Last Things nella traduzione di Monica Sperandini, (Il paese delle ultime cose, Guanda 1996): in realtà volevo solo l'occasione, per una forma di curiosità verso Paul Auster, del quale non avevo mai letto nulla in precedenza. 
Si tratta di un romanzo distopico che racconta, come in una lunga lettera, un viaggio ai limiti dell'umanità nel "paese delle ultime cose", dove è impresa titanica conservare integri la capacità di provare sentimenti e di tenere lontana la natura ferina che emerge nei momenti di disperazione. Nonostante la scrittura fluida, molto scorrevole, ho faticato a entrare nella storia e a penetrare nei suoi significati allegorici, non ho provato empatia nei confronti di alcun personaggio, men che meno verso la voce narrante, Anna, che descrive il periodo trascorso in questo mondo ai limiti, alla ricerca del fratello giornalista scomparso. Il limite è senz’altro mio, questo libro in realtà è considerato uno dei capolavori di Auster –al quale però non so se offrirò un’altra opportunità con me- e la traduzione di Sperandini è estremamente curata e capace di suggerire impressioni potenti. 
Sarebbe stato interessante seguire anche la lettura parallela del romanzo di Dino Buzzati, che però ho letto poco tempo fa (ne ho parlato qui), troppo poco per avere voglia di rileggerlo a così breve distanza: le riletture hanno senso se, come si è trattato con Pirandello, il nuovo incontro ci trova cambiati, cresciuti, con occhi che sanno vedere ciò che magari da più giovani non si potevano scorgere. 
A distanza seguirò gli eventi del SalTo2017 legati a TwLetteratura, in attesa di nuovi progetti e nuove idee. Nel frattempo medito di riorganizzare le mie abitudini di lettrice compulsiva.

venerdì 28 aprile 2017

"Nascosti davanti a tutti" di Fabrizio Manzetti

Non avrebbe mai pensato che avere dei figli 
avesse potuto significare imparare più di quanto fosse necessario insegnare, 
e da lui e Michele aveva imparato a non cercare la pace, 
ma crearla con piume, foglie e mani. 

È un bell’esordio questo di Fabrizio Manzetti, scrittore emergente che ci regala sedici bozzetti di vita quotidiana, sedici squarci, vedute su esistenze ordinarie colte in momenti a loro modo speciali, unici.
Nella vita di tutti i giorni le azioni si ripetono, incanalandosi in routine che sembrano distrarre dalle esigenze interiori più nascoste e che presentano, a un certo punto, uno scarto dall'ordinario che conclude piccole storie di microcosmi umani. Eppure siamo tutti davanti a tutti, uguali a tanti, in storie comuni in cui riconoscersi è facile. 
Manzetti esplora i temi più vari dell’esistenza umana, narrando di un incontro fortuito su un treno di pendolari, che si vuol credere combinato dal destino e forse lo è, oppure di un amore che non muore, nonostante tutto, perché non si riesce a far andar via l’altro quando in fondo un equilibrio c’è. Oppure ancora di un gatto che diventa il lasciapassare per una nuova vita, l’unico motivo per ricominciare altrove; e poi del dolore silenzioso di Rieger, colto tipografo successivamente correttore di bozze e scopritore di talenti letterari, poi “invisibile” che vive nel mondo parallelo dei barboni, per caso o per scelta “tutti uguali davanti alla miseria”. 
In “Nascosti davanti a tutti” c’è il dolore muto che non emerge dai gesti quotidiani, ma esplode in un ultimo inaspettato ed eclatante gesto, perché a certe ingiustizie della vita, come è sopravvivere a un figlio, non si fa mai l’abitudine. E senza pensare alle sofferenze più tremende che possono attraversarci la vita, basterà volgere lo sguardo verso la ragazzina che decide di smettere con le lezioni di musica, perché un crack dentro ha spaccato tutto. 
Tra i tanti temi che l’A. indaga, c’è quello della riscoperta dei legami familiari, anche dove si pensa che siano scontati: un genitore anziano e solo, la gestione di un rapporto filiale a distanza che si distrae dalle necessità autentiche che un anziano può avere, prima tra tutte l’amore dei figli, più che l’assistenza nelle piccole pratiche quotidiane curate da una badante; sarà l’imprevisto a rendere la giusta dimensione a tutto e a fare recuperare il battito del cuore che si sintonizza tra una figlia e un padre sofferente, nel racconto “Mi batte il cuore di mio padre” che chiude la raccolta. 
In mezzo, ancora, i ritorni senza gloria a paesi abbandonati nel tempo dei sogni a venire, e i tradimenti lunghi anni, dove alla fine vince la realtà scelta per comodità e per mancanza di coraggio, e ancora quadretti familiari incapsulati in stanche routine –due pensionati, sposati da oltre cinquant’anni, stessa casa da sempre, vita immobile- salvo tardive recriminazioni («Mi hai sempre detto “andrà tutto bene, vedrai”. E dove siamo andati? Rispondimi!» dice lei a lui). 
Sono belli i racconti di Fabrizio Manzetti: vividi, sentiti, raccontati in una prosa piana, senza inutili virtuosismi, eppure con cenni di vera poesia, nelle descrizioni dei gesti e dei sentimenti. In queste sedici immagini ordinarie ci si specchia e ci si consola, riconoscendo il tratto delicato con cui l’Autore si è accostato alla vita qualunque di chiunque di noi. La raccolta partecipa al Premio Augusta: fino al 18 maggio è possibile votarla qui , quindi leggetela e cliccate!


Photo Elena Tamborrino




Nascosti davanti a tutti 
Autore: Fabrizio Manzetti 
Dati: 2016, 118 p., brossura 
Editore: Augh! (collana Frecce) 
Prezzo: € 12,00 
Giudizio su Goodreads: 3 stelline

martedì 18 aprile 2017

"Orfani bianchi" di Antonio Manzini

Lame di luce tagliavano le tende di broccato, 
i quadri antichi alle pareti, i tappeti orientali a terra. 
Ebbe timore di camminarci sopra, di sporcarli. 
Si sentiva fuori luogo, un brufolo sulla schiena di Dio. 

Sarà che siamo tutti uguali, ma c’è qualcuno che è più uguale degli altri e qualcun altro che è sempre e comunque tagliato fuori, un’escrescenza fastidiosa, un inciampo nella società. Eppure, nella solitudine e nella povertà, queste persone cercano la forza per andare avanti, accettano lavori spesso umilianti, in attesa del riscatto, sperando di riprendersi la vita, anche se non sarà sfavillante come quella dei più fortunati, dei ricchi. 
A Mirta, giovane moldava trasferita a Roma a pulire prima androni e scale dei condomini e poi a fare da badante in una famiglia che di lei e di quelli come lei ha solo disprezzo, basta un lavoro dignitoso e sicuro che le consenta di mettere da parte un gruzzoletto e andarsi a riprendere Ilie, il suo bambino rimasto al paese con la nonna anziana. Un incidente tragico costringerà la donna a sistemare Ilie in un Internat, un orfanotrofio in Moldavia, in attesa che qualcosa cambi e con la speranza tenuta fervidamente accesa che il ricongiungimento con il figlio possa non tardare. 
Ilie non è orfano, no: ha la sua mamma lontana che manda i soldi e i giocattoli e i libri, e un padre che è sparito nel nulla quando lui è nato, ma deve stare lo stesso nell’orfanotrofio puzzolente di cavolo e disinfettante, insieme agli orfani veri, lui orfano “bianco”, uno di quelli che hanno i genitori troppo poveri per tenerli con sé. 
Messo da parte per ora Rocco Schiavone, Antonio Manzini ci regala un altro personaggio straordinario, Mirta Mitea, forte e disperata, determinata e coraggiosa, una mater dolorosa che ostinatamente è disposta a sopportare una quotidianità umiliante, avendo l’obiettivo di una rinascita possibile. Mirta crede nell’amicizia, nell’amore e nel lavoro e si scontra continuamente con un mondo che invece è cattivo e incomprensibile. 
Manzini racconta una storia molto triste, probabilmente non dissimile da tante altre vissute quotidianamente da donne che dall'est europeo arrivano in Italia in cerca di un lavoro che conceda loro una svolta: una storia di solitudine e di fatica, il cui epilogo arriva improvviso a colpire come un pugno allo stomaco. 
Alla voce della protagonista si contrappone il silenzio del figlio adolescente, rimasto in Moldavia: i silenzi degli adolescenti spesso dicono più delle parole, quello di Ilie sarà un silenzio che squarcerà il cielo instabile e precario, eppure denso di aspettative, di Mirta. 
Anche lontano dal personaggio che gli ha dato il successo, Manzini fornisce una bella prova narrativa che lo svincola dal vicequestore Schiavone, che quasi vive di vita propria. La prosa di Manzini la conosciamo: scorrevole e piana, stringata e ricca di dialoghi, descrittiva come una sceneggiatura che sia prossima a una messa in scena, prende il lettore e non lo abbandona finché le vicende narrate non si sciolgono, in qualunque modo. 

 
Photo HelenTambo on Instagram


Orfani bianchi 
Autore: Antonio Manzini 
Dati: 2016, 240 p., rilegato 
Editore: Chiarelettere (collana Narrazioni) 
Prezzo: € 16,00 
Giudizio su Goodreads: 5 stelline