venerdì 24 febbraio 2017

"Il vecchio frantoio" di Lucio Causo

 
Photo Mauro Minutello

A mezzogiorno, Luca e Antonella presero il pranzo per il nonno Vito che stava lavorando nel frantoio di famiglia nei pressi dell’oliveto. La giornata era bella. Anche se faceva freddo, il cielo era sereno e tutt’intorno regnava la tranquillità. 
Oltrepassata la strada provinciale, s’inoltrarono lungo i sentieri umidi della campagna, tra gli arbusti e l’erba alta che coprivano i muretti a secco. 
Dopo avere percorso un breve tratto di strada in terra battuta, si trovarono in un grande spiazzo, in mezzo a secolari alberi d’ulivo. 
Videro il portone del vecchio frantoio ed entrarono. Era un locale grande e scuro, con una vasca di pietra al centro e, sopra, una possente macina. Un somaro, docile e paziente, girava intorno alla vasca legato ad una trave che faceva girare la mola senza fermarsi. La macina lenta e sicura frantumava le olive gonfie e nere, e preparava la spremitura dell’olio… 
Un grande camino, rosso di carboni ardenti, scaldava l’aria fredda di dicembre. Luca e Antonella, dopo aver salutato, porsero al nonno una gamella piena di verdura con pasta e fagioli. Vito mangiò con gusto e bevve generosamente il suo vino rosso. 
Dopo essersi saziato, tagliò due fette di pane dalla grossa pagnotta; l’abbrustolì sul fuoco, ci passò sopra uno spicchio di aglio tagliato a metà e poi versò dell’olio da un pentolino. Era verde, denso e profumato. 
- Mangiate il pane caldo con l’olio delle nostre olive. Vi riscalderà! - disse. 
Luca prese la fetta di pane gocciolante di olio. L’addentò… Disse che non aveva mai mangiato del cibo così buono. Aveva l’odore dei campi e degli ulivi, il colore del fuoco che ardeva. Aveva il sapore pieno del lavoro paziente dell’uomo e del docile somaro che spingeva la mola per schiacciare le olive. 
Era saporito, dolce e amaro. 
- Grazie, nonno, il tuo olio è sempre più buono! - disse Antonella dopo aver mangiato la grossa fetta di pane abbrustolito condita con l’aglio e l’olio appena spremuto. 
Vito accese la sua pipa con un tizzone della brace e si mise a chiacchierare con i giovani e con il nachiro presente. 
Parlarono del tempo, del vecchio frantoio ancora funzionante, delle nuove tecniche in uso nel settore e della purezza dell’olio. 
Poi Luca e la fidanzata, dopo aver salutato il nonno e i contadini intenti a svuotare i sacchi pieni di olive nel deposito, uscirono dall’oscurità del frantoio all’aria aperta, abbagliati dalla luce viva del sole dicembrino e dal colore dei campi. 
Respirarono a pieni polmoni l’aria fresca e profumata di terra rossa ed erba bagnata, di fiori, di alberi e di piante che emanavano odori freschi e particolari che solo in campagna si potevano sentire. 
Si presero sottobraccio avviandosi felici verso casa godendo di quella pace, quel profumo e quel sapore di cose buone. 

©Lucio Causo
Soundtrack: AllaBua, "Lucernaru"

giovedì 16 febbraio 2017

"Il nido" di Tim Winton

Ti amo, mormorò lui. 
Smettila! 
Scusa. 
Dio, sei proprio un tipo strano. 
Immagino di sì. 
E l’amore non aiuta. Credimi. 
Ma Keely non poteva crederle. Anche se i fatti le davano ragione, non poteva rinunciare a quell’ultimo brandello di fiducia. L’amore, da qualche parte, doveva servire a qualcosa, altrimenti davvero si sarebbe buttato dalla finestra. 

Un incontro casuale cambia la vita a Tom Keely, attivista ambientalista che, perso il lavoro e divorziato dalla moglie, trascina un'esistenza senza scopi. Gemma e suo nipote Kai lo costringeranno a diventare di nuovo protagonista, nel tentativo di risolvere la vita sbagliata della donna e di salvare il futuro del bambino. 
Eppure all’inizio non sono altro che “una donna sola. Un bambino senza amici. E un uomo allo sbando”, le cui esistenze però finiranno con l’intrecciarsi fino a farli diventare necessari gli uni agli altri, nonostante le intenzioni vadano altrove. Soprattutto Tom da subito è contrariato (“Pensò a quanto si era impegnato, negli ultimi mesi, per garantire la sua privacy, in modo che nessuno, amico o nemico che fosse, potesse venire a commiserarlo, a sfotterlo, ad accusarlo, a fargli la predica, a provocarlo o a metterlo sotto interrogatorio. Era l’unica cosa, tra tutte, che non lo deprimeva fino alla nausea. E adesso si ritrovava in cucina quella donna, quella persona quasi sconosciuta, che si mangiava la sua cena e gli dava pure dello snob. Era arrabbiato con se stesso, furioso per aver commesso un errore così gigantesco, consentendole di entrare nel suo appartamento, nella sua testa, nella sua vita del cazzo.”), lui così chiuso, nascosto dietro l’odio verso se stesso, in attesa di assolversi, considerando un errore, un grande errore, la sua stessa vita. 
Abituato alla logica della sconfitta, a rischio di una deriva di autocompatimento, mantiene pochi contatti con la sorella e la madre, nel ricordo di un padre la cui personalità ingombrante ha in qualche modo condizionato il suo esserne diverso, discosto da quel modello a suo modo irraggiungibile (“Malgrado tutti i trionfi di Keely come attivista, le foreste che era riuscito a salvare, gli scarichi abusivi che aveva denunciato e le specie che aveva protetto, di lì a trent’anni nessuno avrebbe più parlato di lui. Mentre suo padre aveva varcato i confini della propria classe di appartenenza, rifiutando di adeguarsi allo stampo della sua generazione”). 
A smuovere Tom dall’apatia e dalla rassegnazione arrivano quindi Kai, bambino con il quale la comunicazione è difficoltosa, a meno che non gli si parli di pennuti, e sua nonna Gemma, bellezza sfiorita di poco più di quarant’anni che ha in custodia il nipotino, mentre la sua giovanissima figlia si trova in carcere. Il pericolo di perdere il bambino costringe Gemma a una serie di iniziative che coinvolgeranno Tom, a cui lo legano i ricordi di un’infanzia infelice che nella famiglia di lui aveva trovato conforto e un’attrazione ondivaga, fatta di desiderio che si accende repentinamente, per trasformarsi altrettanto rapidamente in avversione. 
Diviso in tre parti, la prima più lunga delle altre, il romanzo va in crescendo: ha un inizio lento, in linea con il ritmo delle giornate del protagonista principale, e una buona metà si concentra sulla descrizione del tempo che quest’uomo trascorre, in mezzo ai piatti sporchi che accumula nel lavandino, indolente al punto da vivere in una specie di limbo sudicio e soffocante, uscendo lo stretto necessario, per arrivare al massimo al caffè di Bub vicino casa; il ritmo si fa incalzante nelle due parti successive, quando il ruolo di Gemma e delle vicende in cui trascina Tom si fa preminente e fino alla fine coinvolge il lettore in una girandola di disavventure che si fanno sempre più inquietanti. 
Lo stile dello scrittore australiano è serrato, il linguaggio essenziale, i caratteri dei personaggi, delineati precisamente, si stagliano in un paesaggio squallido come solo certi complessi residenziali di scarso valore urbanistico possono essere e la voce di chi è ai margini si erge prepotente, chiedendo attenzione. 
La capacità mimetica dell’Autore consente al lettore di immergersi totalmente nelle vicende narrate, tanto che restare indifferente alla potenza di personaggi diventa impossibile, nonostante nulla abbiano di eroico e nulla solletichino dell’immaginario. 
Non stupisce che The Times abbia definito “Il nido” un grande romanzo e Tim Winton un grande romanziere. 
Photo HelenTambo on Instagram




Il nido 
Autore: Tim Winton 
Traduttore: Stefano Tummolini 
Dati: 2017, 442 p., brossura 
Editore: Fazi (collana Le strade) 
Prezzo: € 19,50 
Giudizio su Goodreads: 5 stelline

giovedì 9 febbraio 2017

"Occhio di capra" di Leonardo Sciascia

SAPIDDRU (ma dai più pronunciato «sopiddru»). 
Sapi iddru: sa lui. 
Tra il «non lo so» e il «lo sa Iddio». 
E «iddru» è forse Lui, che tutto sa. 
Noi nulla sappiamo. 

Il mio primo libro di Sciascia, letto da ragazzina, è stato “A ciascuno il suo”, in un’edizione Einaudi, collana Letture per la scuola media, che non so nemmeno se esista ancora. A seguire lessi “Il giorno della civetta”, sempre Einaudi, per la stessa collana che negli anni Settanta ha avuto il merito di far leggere opere fondamentali a tanti adolescenti, in virtù anche di quella “ora di narrativa” che, alle scuole medie, regalava uno spazio settimanale importante: per molti della mia generazione, che aveva molti meno stimoli rispetto a quelli che hanno oggi i ragazzi, è stata un trampolino considerevole verso la conoscenza di tanti autori della nostra letteratura contemporanea e quella collana di Einaudi ha svolto un ruolo importante, con proposte editoriali efficaci, molte delle quali rappresentano i primi esemplari di quella che nel tempo sarebbe diventata la mia ricca biblioteca personale. 
Oggi le occasioni per leggere a scuola autori contemporanei si riducono alle scelte antologiche operate dagli insegnanti e dall’editoria scolastica (un racconto che si incontra spesso nelle antologie di primo biennio è “Il lungo viaggio”, tratto dalla raccolta “Il mare colore del vino”, che narra del viaggio pieno di speranza di un gruppo di contadini che sperano di poter emigrare in America, a Nuovaiorche, ai primi del Novecento, e pagano un individuo equivoco per un trasporto che durerà undici notti e che li vedrà sbarcare a Gela, dopo aver praticamente girato a vuoto nel mare), oppure a progetti particolari: scomparsa in pratica l’ora di narrativa, per una contrazione del tempo che si concentra quindi su attività di analisi testuale gradatamente sempre più complesse, piuttosto che alla lettura per il piacere della lettura, le opportunità di incontrare romanzi importanti del secondo Novecento si riducono al nulla, quasi, con l’aggravante che, anche negli anni successivi, lo studio della storia letteraria esclude gli autori più vicini alla nostra epoca, relegandoli a letture episodiche. Posso dunque affermare, con buona pace dei legislatori e dei pedagogisti che nel corso dei decenni hanno lavorato affinché il tempo dedicato allo studio dell’Italiano fosse sempre più ridotto, di aver avuto la buona fortuna di aver frequentato “le medie” nel pieno degli anni Settanta, prima che iniziasse l’opera di smantellamento della scuola pubblica. 
I miei primi approcci con Leonardo Sciascia sono quindi da attribuire alle sue opere più importanti, o almeno alle più note, e prendono origine dall’esperienza scolastica. Nel frattempo le storie e lo stile dello scrittore di Racalmuto mi avevano conquistato e negli anni mi sono trovata spesso ad acquistarne i libri, che sono andati a incrementare il mio “palchetto Sciascia”. Pensavo di averne letti tanti, di essere una buona conoscitrice della narrativa di Sciascia, ma mi sono resa conto che la sua produzione in realtà conta molti titoli che mi erano del tutto sconosciuti, non avendoli mai sentiti nemmeno citare. Così mi sono data il compito, per questo 2017, di acquistare i libri che non possiedo ancora e di leggerne uno al mese, proprio come dovere civile, considerando i temi che Sciascia ha trattato nei suoi romanzi, la mafia in primis, le sue collusioni con la politica, la corruzione, spesso scegliendo la struttura narrativa tipica del romanzo giallo, e senza dimenticare la sua produzione saggistica. 
Il primo dei libri che ho scelto di leggere nel mese di gennaio, scelto assolutamente a caso senza avere la minima idea di cosa trattasse, non è un romanzo e anche come saggio diventa difficile etichettarlo. Direi che “Occhio di capra” è un omaggio, un atto d’amore che Leonardo Sciascia ha fatto alla sua terra e più precisamente al luogo in cui è nato, quella Racalmuto dell’entroterra agrigentino, tanto vicina ai luoghi di Pirandello e di Rosso di San Secondo, della quale esplora la lingua nei suoi detti popolari. 
“Isola nell’isola” è Racalmuto (l’antico villaggio arabo Rahal-maut), al pari di altre “isole” dentro l’isola Sicilia, lontana dal mare, desolata e allo stesso tempo sorgente di notizie, coacervo di esperienze umane, centro di varia umanità che rappresenta, agli occhi del suo forse più illustre figlio, la fonte delle storie che egli racconta nello spiegare l’origine di alcune parole dialettali o di certi modi di dire popolari. 
Sciascia afferma, nella “notizia” che apre il volumetto, di conoscere il suo paese da prima di sempre, un po’ come dice di se stesso -e di Buenos Aires- lo scrittore e poeta argentino Jorge Luis Borges: “Ho l’impressione che la mia nascita sia alquanto posteriore alla mia residenza qui. Risiedevo già qui, e poi vi sono nato”. E alla “storia minima” di Racalmuto, Sciascia dedica la sua attenzione (“Forse è a questa storia minima che io debbo l’attenzione che ho sempre avuto per la grande”, scriveva a proposito di “Occhio di capra”).
In ordine alfabetico, l’Autore riporta la traduzione e l’origine -a volte anche strettamente etimologica più spesso da ravvisare in un episodio, un personaggio, un’arguzia- di parole e unità fraseologiche dialettali: tra lessico e etnografia, Sciascia delinea ipotesi strettamente linguistiche, ricostruisce e attribuisce alla cultura popolare il radicarsi di espressioni tipiche in epoche diverse, e lontane nel tempo tanto da perdersi forse nella memoria collettiva, così da esigere che qualcuno le restituisca al patrimonio di ricordi che identificano una comunità di parlanti. 
Divertente e acuto, “Occhio di capra” è un viaggio nella lingua, anzi in una delle lingue della Sicilia. Di particolare interesse per i linguisti, a titolo di mera curiosità, è la nota finale sulla grafia, spesso insufficiente a rappresentare certi suoni come la cacuminalizzazione della laterale intensa in nessi come –ll- > -dd-, ma dice Sciascia solo perché manca il segno a rappresentare una “remora della glottide”. 
Una buona idea è acquistare adesso questo libro, approfittando dello sconto del 25% che Adelphi applica in questo periodo per i tascabili: in questo caso il prezzo scende a soli 9 euro, davvero ben spesi. 

Photo HelenTambo on Instagram



Occhio di capra 
Autore: Leonardo Sciascia 
Dati: 1990, 150 p., brossura 
Editore: Adelphi (collana Piccola Biblioteca) 
Prezzo: € 12,00 
Giudizio su Goodreads: 4 stelline

venerdì 3 febbraio 2017

"Ore 10, lezione di Fedez (e Rovazzi)" di Elvio Calderoni

 
Photo Vanity Fair

Parlare ai ragazzi, risultare credibili. 
Accoglienti per poi entrare, con loro, nei fenomeni della contemporaneità, al centro. 
Entrare, quindi, nelle loro stanze, accomodarsi sui loro sogni, migliorarli, migliorarli, migliorarli. 
Inserire nel programma, accanto a Dante, Leopardi e all'analisi logica, l'analisi del testo di VORREI MA NON POSTO è una necessità complessa, un imperativo di antipurismo, atto non a consacrare nessuno o ad abbassare ogni livello, ma una sorta di captatio benevolentiae più eversiva del contenuto stesso dei brani di Fedez (e Rovazzi ) che sono assai più eversivi di quanto un orecchio superficiale potrebbe credere. 
E tra le orecchie superficiali potremmo inserire, a buon diritto, quelle dei ragazzi non opportunamente guidati. 
Fedez non è un nemico da abbattere, ma un idolo con cui fare i conti. 
Se analizzassimo in classe (seconda media ) Caparezza non sortiremmo lo stesso effetto. Dobbiamo invece analizzare chi popola i sogni dei ragazzi, non chi parla a un pubblico già coltivato, smontare, pezzo per pezzo, frase per frase, contenuto e forma (ricca, dichiariamolo subito, ricca ) del pezzo. Trattarlo come nell'ora precedente abbiamo trattato Dante: struttura, rime, metro, lessico, area semantica, figure retoriche, contenuto, extratesto. Fedez (ok, non solo lui, tutto il mondo rap ma il primo interesse è arrivare velocemente al risultato!) gioca con le figure retoriche di suono mostrando una vena compositiva non sciocca: calembour, paronomasie, allitterazioni, figure etimologiche, nuove locuzioni ( potremmo azzardare gli hapax!), e fin qui nulla di particolarmente riflessivo in senso eversivo. La vera partita si giocherà con il contenuto! “Ogni ricordo è più importante condividerlo che viverlo” è la frase chiave che fotografa, sintetizzandolo, il vuoto filtrato dallo schermo che dimora questi tempi, li velocizza, li consuma, provocando mostri e nevrosi, vizi e incapacità relazionali. Forse l'hanno detto in molti, anzi certamente, ma nessuno così e nessuno così “dentro” questo sistema, tanto da rischiare la scarsa credibilità. Ma l'ambiguità di Fedez (e di Rovazzi) è la sua forza, molta autoironia e una buona dose di incoerenza tali da non allontanare le contraddizioni adolescenziali. Il linguaggio è il loro: selfie, porno, i phone, blog, post, e passaggi portatori di una qualche densità: 
“E se lei t'attacca un virus 

Basta prendersi il Norton 

Tutto questo navigare senza trovare un porto 

Tutto questo sbattimento per far foto al tramonto 

Che poi sullo schermo piatto non vedi quanto è profondo"
Dunque? Demonizzare questi contenuti ? Ignorarli? Parliamone, invece. Smontiamoli se è il caso, approfondiamoli, sfondiamo cover e schermi piatti, dimostrando ai ragazzi che sotto il tatuaggio può esserci un mondo. Non sempre. 
Ma la possibilità concediamogliela. 
E concediamocela, senza perdere il treno della contemporaneità. 
La cattedra ha l'obbligo morale della puntualità e chi fosse preoccupato di Fedez che invade la scuola, ebbene, è l'esatto contrario: è la scuola che, armi e bagagli, invade Fedez. 
Una rivoluzione copernicana? 

©Elvio Calderoni

Soundtrack: "Vorrei ma non posto" di J-AX & Fedez