mercoledì 27 dicembre 2017

Il pub chiude


Photo HelenTambo on Instagram

Nel quinto compleanno del mio blog, lo scorso novembre, avrei dovuto abbandonarmi ai festeggiamenti, invece chiudo i battenti. Ci penso da mesi, anzi se devo essere sincera la tentazione l’ho avuta più volte nel corso degli ultimi due anni, ma la decisione l’ho maturata durante l’estate, mentre continuavo a interrogarmi sul perché continuare a parlare di libri qui. Di fatto ho smesso di scrivere con regolarità dallo scorso mese di giugno. 
Nel corso del tempo sono stati tanti i motivi che si sono affacciati alla mia mente in diverse occasioni, magari su sollecitazione casuale esterna, e non è facile districarmi tra i pensieri che spesso si sono affastellati disordinatamente -quando insieme, quando isolati- per provare a dare una spiegazione a voi, miei ventitré lettori fissi. Ci provo comunque, in un elenco che non segue alcun criterio, tanto meno l’ordine di importanza, perché sono tutti motivi meritori di attenzione. 
Non ho più voglia e neanche il tempo per dedicarmi a un’attività che mi pesa, infatti ho capito che 
quando smette il piacere, è ora di finirla: inutile continuare a fare qualcosa che ci trasmette ansia da prestazione invece che piacere. Insomma non mi divertivo più. 
Stava diventando uno stress, soprattutto quando mi rendevo conto che leggevo in funzione del blog, che pensavo solo a ciò che avrei dovuto poi dire, senza abbandonarmi alla lettura per il puro piacere di leggere. 
Mi sono sentita poco libera di gestire i miei tempi e i miei spazi: un po’ per le imposizioni che mi davo da sola, un po’ per la pressione e la responsabilità che sentivo quando mi arrivavano richieste di autori, spesso autopubblicati o pubblicati in EAP, più raramente da editori. Alla fine leggevo per me o per fare promozione? 
Non credo più al blog come strumento di divulgazione: almeno per quel che riguarda me, che non sono mai entrata nell’olimpo dei blogger considerati e incensati. Si tratta di essere nel giro giusto, di avere amici che ti condividono e ti spingono, di editori che linkano i tuoi post nelle loro rassegne stampa. Poiché ho invece molta considerazione di ciò che scrivo e soprattutto di come lo scrivo (detesto la falsa modestia) sono arrivata alla conclusione che 
se anche puoi distinguerti, comunque sei un blogger tra i tanti e spesso i tanti non sono alla tua stessa altezza. Ho una formazione specialistica, provengo da studi di Linguistica e Letteratura, ma questo non è importante, non sembra essere una conditio sine qua non, ed è anche giusto così perché tutti i buoni lettori hanno diritto di esprimersi sui libri che leggono, la rete è democratica assai. Io molto meno, perciò preferisco scendere dalla giostra. 

Non smetto di leggere ovviamente, perché i libri fanno parte della mia vita da quando ero una bambina, e non smetto di parlarne. 
Continuerò a farlo attraverso la pagina Facebook nata originariamente per l condivisione dei post del blog. Continua per conto suo: ha buona visibilità (migliore di quella che può avere il blog), è più immediata, mi consente di scrivere in modo più estemporaneo, davvero quando mi va, se mi va e non sempre di tutto quello che leggo. 
Continuerò a scrivere solo dei libri che mi sono piaciuti, perché ho capito anche che le critiche non piacciono agli scrittori. Puoi essere circostanziato quanto vuoi, argomentare le tue critiche, essere preciso, cortese ma fermo, eppure le stroncature non piacciono, soprattutto se provengono da un blogger tra i tanti. Le critiche non le gradiscono gli scrittori e ancor meno le gradiscono i loro fan, pronti a scatenarsi sui social come veri e propri paladini della lesa maestà (spesso istigati dalla stessa “maestà”). 
Sono tempi brutti, la buona educazione social latita (una volta aveva un nome e si chiamava netiquette), il bullismo colto impazza: onestamente preferisco vivere. Quindi, solo libri belli. Continuate, se vi va, a seguire il mio gatto Pepe e me qui. Qualche buon consiglio lo troverete. 
Chissà poi cosa altro succederà, quale altra avventura mi aspetta, se mi inventerò altro. 
Per ora, grazie di avermi letto fin qui.
Elena ExLibris


PS. Il titolo del post è una citazione. Tra la fine degli anni Settanta e gli anni Ottanta, nel luogo dove vivo, esisteva un locale dove si faceva musica jazz e in generale intrattenimento. Lucio, il proprietario, a fine serata, per incoraggiare gli avventori ad andarsene, al microfono annunciava "il pabba chiudeee!". Bei tempi.

martedì 27 giugno 2017

"Il mistero di Paradise Road" di Pietro De Angelis

Vi siete mai domandati, signori, quando comincia una storia? 
[…] 
Ci ho riflettuto a lungo, signori, e ormai posso dirvi con certezza che questa storia, la storia di come Lionel Morpher si è trasformato in un assassino, 
comincia esattamente quattro mesi prima della strage di Paradise Road. 
Il 12 settembre 1874. 
Un lunedì. 

Questo è un giallo atipico, o almeno sfugge dal canone che vuole l’assassino scoperto solo alla fine, dopo che il lettore è stato aiutato a fare le sue congetture, sulla base di indizi che -nei casi meglio riusciti e meno prevedibili- in conclusione risultano fuorvianti. 
Qui viceversa il nome dell’assassino viene reso noto subito, fin dalle prime pagine del romanzo, quindi quello che spontaneamente ci si chiede è in cosa consista il mistero di Paradise Road. 
In un quartiere residenziale della Londra vittoriana, si consuma il dramma della follia di un uomo comune, schiacciato tra metodico stile di vita e imprevisti della natura umana, e l’arcano di dodici morti che avvengono contemporaneamente in un'alba fredda e nebbiosa, anticipatrice di forti cambiamenti nell'esistenza di Lionel Morpher, il protagonista. 
In realtà quindi non è tanto scoprire chi è l’assassino, ma capire come sia potuto succedere che dodici persone, tra uomini, donne e bambini, siano morte contemporaneamente una fredda mattina d’inverno, senza presentare visibili segni di violenza, ma tutti con le mani strette intorno alla gola e gli occhi fuori dalle orbite, come se fossero stati tutti presi da un colpo apoplettico, e come di queste morti si possa accusare una sola persona. 
La ricostruzione degli avvenimenti che portano Lionel Morpher a diventare maniaco cronico dall’impiegato modello dell’Ufficio Brevetti di Londra che era, viene fatta nel corso di trascrizioni fonografiche raccolte in quattro sedute, circa dieci anni dopo i fatti, presso l’Asylum dove l’uomo era stato rinchiuso dopo i fatti di cui si era reso responsabile e dove muore per arresto cardiaco. 
La vita di Morpher e di sua moglie Alphonsine, giovane istitutrice che rinchiude la sua esistenza nelle mura della graziosa villetta a schiera di Paradise Road, completamente soggiogata dal marito, è passata al setaccio nei quattro mesi che precedono la strage, a partire dal giorno in cui l’uomo accetta una promozione sul lavoro e decide che è arrivato il momento di fare un figlio. 
Lionel è ossessivamente sistematico, in tutti gli aspetti della vita, compreso quello coniugale e più strettamente sessuale, dove tutto è programmato al minimo dettaglio per potersi realizzare socialmente e dove la nascita di un figlio non potrebbe che coronare un’esistenza perfetta; Alphonsine, remissiva e silenziosa, sembra incarnare l’ideale di moglie devota e sottomessa, mentre continua a coltivare la passione per la poesia che ha fin da quando viveva nella casa della zia paterna Miss Lucinda Crowne, apprezzata istitutrice in pensione che si era fatta carico dell’educazione della ragazza. 
I sogni e i desideri repressi della giovane, uniti al malinconico trasporto per i sonetti di Keats e all’amore per un uomo misterioso, sono la chiave di volta per comprendere il delirio di Lionel, che cerca di “guarire” la moglie da queste distrazioni che la allontanano dai suoi doveri. 
Il mezzo saranno le rivelazioni scientifiche a cui lo inizia il direttore dell’Ufficio Brevetti, Mr. Woodcroft, coinvolgendo Lionel nell’ambizioso progetto di recuperare le scoperte e gli apparecchi inventati da James Watt, matematico e ingegnere scozzese, inventore della macchina a vapore, vissuto nel Settecento. Quale sia il nesso tra i due elementi, la “guarigione” dalla malinconia di Alphonsine e le invenzioni di Watt, è alla base della soluzione del mistero, per cui lascio al lettore il piacere di scoprirlo. 
Pietro De Angelis ricostruisce ambienti e situazioni con dovizia di particolari, riuscendo a far vivere al lettore una precisa atmosfera che richiama alcuni grandi autori come Stevenson, Mary Shelley e Wilde, che però appartengono a un’epoca ben lontana da questa in cui scrive l’Autore. 
Entrare e rendere con tanta precisione l’età vittoriana in cui si svolge la storia, in una narrazione che si snoda puntuale e che forse risente di qualche lentezza, è frutto di una documentazione storica rigorosa che De Angelis non omette di esplicitare nella nota finale al volume: molte e variegate sono state le fonti a cui ha attinto, dai classici saggi sullo stile di vita nell’Inghilterra tardo ottocentesca ai siti web che documentano l’epoca dominata dalla figura della regina Vittoria, dalle ricostruzioni storiche dell’attività dell’Ufficio Brevetti di Londra ai saggi sulla poesia che lo hanno aiutato a chiarire il dibattito culturale che nel momento storico in cui è ambientato il romanzo vedeva contrapposte poesia e prosa. 
Il tempo che Pietro De Angelis ha impiegato per scrivere questo romanzo, dalla prima idea alla pubblicazione, è di quasi dieci anni: segno evidente di un impegno e di una convinzione che lo hanno sostenuto in un’impresa non semplice. 


Photo HelenTambo on Instagram


Il mistero di Paradise Road 
Autore: Pietro De Angelis 
Dati: 2016, 313 p., brossura; 
Editore: Eliot (collana Scatti); 
Prezzo: € 17,50 
Giudizio su Goodreads: 3 stelle

lunedì 12 giugno 2017

"Pastorale americana" di Philip Roth

Riattaccò sopra la scrivania il ritratto senza vetro di Conte e poi, 
come se ascoltare persone che ciarlavano di questo o di quello 
fosse il compito assegnatoli dalle forze del destino, 
lasciò l’inferno in cui si era avventurato 
per tornare alla solida e metodica buffonata della cena. 
Era tutto ciò che gli restava per non perdere il controllo: una cena. 
L’unica cosa cui poteva aggrapparsi 
mentre la grande impresa che era stata la sua vita 
continuava a sfrecciare verso la distruzione: una cena. 
E alla terrazza illuminata dalle candele fece doverosamente ritorno, 
sempre portando con sé tutto ciò che non riusciva a capire. 

Per IBS, questo è il romanzo più venduto di Philip Roth, seguito da "Lamento di Portnoy" e “La macchia umana”: non so se questo è vero, di sicuro credo che sia arrivato il tempo di riprendere “La macchia umana”, interrotto non ricordo per quale motivo anni fa, forse solo perché facevo fatica a leggerlo. 
Quel che ho capito, anche da quest’ultima lettura, è che leggere Roth non è proprio una passeggiata di salute e forse è in questo che risiede la resistenza ad affrontarne anche i titoli più celebrati. So anche però che leggere Roth è esperienza fortemente coinvolgente, che costringe a fare i conti con il proprio modo di vivere alcune situazioni emotive, che non hanno nulla di eccezionale perché magari sono comuni, ma che nel modo in cui sono descritte e narrate diventano uniche e riconoscibili come nostre. 
Insomma, credo che leggere certi romanzi, ad esempio questo, getti una luce sulla vita -sulla propria e su quella degli altri- che poi costringe a riflettere su alcuni temi in particolare: qui direi, sul senso del dovere e sull’essenza dell’amore paterno. 
Questo romanzo, pubblicato nel 1997 (in Italia, da Einaudi nei Supercoralli, l’anno successivo) è il primo della cosiddetta trilogia di Nathan Zuckerman, il narratore alter ego di Roth, che apparirà anche in “Ho sposato un comunista” (1998) e nel già citato “La macchia umana” (2000). 
Il protagonista è Seymour Levov, detto lo Svedese, uomo apparentemente incrollabile, la cui vita perfetta fatta di successo nel lavoro, bellezza, ricchezza, virtù e amore, si sgretola davanti al disastro causato dalla sedicenne figlia Merry, grassottella e balbuziente, che mette una bomba nell’ufficio postale di Newark, avendo sposato la causa di un’associazione terroristica di estrema sinistra, negli anni in cui gli Stati Uniti sono impegnati nella guerra del Vietnam. L’attentato dinamitardo compiuto da Merry diventa la cerniera che divide il tempo dello Svedese e di sua moglie Dawn, ex reginetta di bellezza del New Jersey, perché dopo la bomba e la fuga della ragazza, nulla sarà più come prima e da quel momento in poi sarà un susseguirsi di “dopo”. 
L’attività imprenditoriale di Seymour, la produzione di guanti in pelle della Newark Maid, piccola fabbrica in rapida espansione fondata da suo padre, è la metafora della perfezione e del dovere, del sentimento di responsabilità: ogni piccolo dettaglio di un guanto, dal tipo di pellame scelto, dal taglio dei pezzi e dalle sfumature di colore che devono armonizzarsi, da ogni minima cucitura, dalla misura e dalla morbidezza, rappresenta un tassello imprescindibile che porta alla massima realizzazione nel lavoro, come nella vita. Nessuna imperfezione è concessa, ogni coppia di guanti è un gioiello di accuratezza, l’aspirazione agli obiettivi più alti è il faro che guida ogni azione dello Svedese, intriso di senso del dovere fino al midollo, “naturalmente rispettoso”, che precipita nell’abisso del dolore più cupo lì, dove l’azione criminale di Merry incontra il suo amore incondizionato. Tutto il romanzo ruota sulle domande che lo Svedese si fa, sul tentativo di comprendere cosa sia successo a Merry, e quindi alla loro famiglia, con dolore e con rabbia. Dietro la vita perfetta di Seymour si accumulano scorie: la figlia “imperfetta”, ma anche -e forse proprio per questo- amatissima, così diversa dai suoi bellissimi e seducenti genitori, e gli inciampi della vita che portano Dawn, così tenace e capace di tenere testa a quello che sarebbe diventato suo suocero (che aveva contrastato la relazione tra suo figlio e quella ragazza cattolica che “non era mai stata così testarda come quando voleva far dimenticare il suo ruolo di ex regina di bellezza” e si era poi messa in testa di allevare mucche e tori), a scegliersi un amante che è l’opposto del suo affascinante marito. Succede anche a lui, a Seymour di prendersi un’amante, e sarà anche questa faccenda una macchia che si andrà ad aggiungere al resto delle disfatte e che però non intaccherà la forza del suo desiderio di essere coppia ancora con Dawn, nonostante tutto e perché per lui la vita senza di lei è inconcepibile. 
L’altro grande tema che io vedo in “Pastorale americana” è quello dell’amore paterno, che per me resta un mistero. Riferendomi alla genitorialità naturale, non adottiva, mi sono sempre chiesta di cosa è fatto l’amore di un padre; se è quasi scontato capire di cosa è fatto fisicamente, visceralmente, quello di una madre che ha portato in grembo un figlio e quindi lo sente per legge di natura parte della propria carne, in cosa si sostanzia quello di un padre? Di cosa è fatto, come un uomo riconosce un figlio, a parte le possibili somiglianze? Roth, attraverso la figura di Seymour Levov si avvicina a farlo capire: lo Svedese sente che Merry ha bisogno di lui, soprattutto nella latitanza, la vuole riportare a casa, forse più di quanto lo desideri sua moglie Dawn e in questo risiede la straordinaria figura di padre che ha fallito, pur amando la propria figlia alla disperazione e sentendola parte di sé. 
Ho trovato questo romanzo molto toccante, ho sofferto per quella richiesta di perfezione che la vita rivolge a Seymour, per il quale mi sono commossa, riconoscendo i limiti imposti dalle convenzioni sociali, che poi sono la prigione, spesso dorata, di molti di noi. 

 
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Pastorale americana 
Autore: Philip Roth 
Traduzione: Vincenzo Mantovani 
Dati: 2013, 458 p., brossura; 
Editore: Einaudi (collana Super ET); 
Prezzo: € 14,00 
Giudizio su Goodreads: 5 stelle

lunedì 22 maggio 2017

#MaggiodeiLibri: una #recensione impossibile per Salvatore Toma

Un grande poeta 
si riconosce anche 
dalla vita che fa 
da come si veste 
e non dagli errori 
che produce. 
Se capisce d'esser fatto 
di trachea di bronchi 
di ossa e di grassi 
e ride della sua 
fragilità. 
Un grande poeta 
si riconosce soprattutto 
dalla paura che si fa.

Mi sembra quasi un paradosso che nel Maggio dei Libri mi sia ritrovata a leggere in modo disordinato (iniziare, lasciare, riprendere, leggere in contemporanea) e soprattutto che non abbia avuto modo di parlare dei libri incontrati via via in questo mese. Paradossale anche perché all’inizio di maggio mi sono detta che in fondo a me non serve un mese speciale per leggere di più o meglio, leggo sempre e comunque: poi, a smentirmi, è arrivato un momento talmente carico di impegni che a risentirne è stato il blog per primo, decisamente trascurato, insieme ai libri che ho letto, così che si sono disperse un po’ di possibilità. 
Per superare questa impasse ho pensato di aderire all’iniziativa promossa da un gruppo di blogger, guidato da Simona Scravaglieri di Letture Sconclusionate per il #MaggioDeiLibri e di parlare, in questa settimana che ha per tema le #recensioni, di una recensione impossibile da fare, per una serie di motivi che si possono riassumere in pochi punti: 
• non sono brava a parlare di poesia, non è un genere che frequento abitualmente, leggo poca poesia e quella poca non me la spiego, non la spiego, non voglio farmela spiegare perché la poesia si legge e basta;
• il poeta di cui vorrei parlare è Salvatore Toma, salentino –anzi, magliese- radicato al territorio e allo stesso tempo in grado con i suoi versi di raccontare l’universale, impossibile per sua natura da commentare, incasellare, categorizzare se non in una definizione che Valeria Nicoletti del blog Stanze- Storie dal Salento ha ricordato, quello di poeta “appartato” (definizione che gli aveva ritagliato addosso già Maria Corti), a suo modo scapigliato; 
• Toma è prematuramente scomparso all’età di 35 anni, si dice suicida ma più facilmente per mancata possibilità (capacità?) di salvarlo, portandosi dietro le risposte -che forse lui aveva ben chiare- a domande esistenziali che per chi è rimasto restano insolute, quindi noi chi siamo per cercare di decifrare, di comprendere, di spiegare? 
• i libri di Toma sono fuori catalogo, introvabili, veri e propri tesori per chi ha la fortuna di averne una copia, quindi certamente questa non potrà essere che una recensione che inviterà a cercare la poesia del Great Poet, come lui stesso soleva definirsi, nelle biblioteche più che nelle librerie. 

Nonostante questi motivi, scelgo oggi di scrivere di Toma perché è maggio, è il Maggio dei Libri, e in maggio lui nacque, nel 1951. Quest’anno sono trent’anni che Salvatore Toma non c’è più e forse è arrivato il momento in cui leggerlo e rileggerlo è il tributo più importante che possiamo fargli, al di là di qualunque celebrazione che probabilmente lui non avrebbe apprezzato. 
Prima di tutto, il “Canzoniere della morte”, uscito per Einaudi 12 anni dopo la morte dell’autore su iniziativa di Maria Corti, che ne curò l’edizione scegliendo i componimenti che ne avrebbero fatto parte, suddividendoli in tre sezioni, come già aveva suggerito Donato Valli -che forse per primo aveva compreso verso quali direzioni si andava incanalando la poesia di Toma-, e scrivendo l’introduzione che ben racconta i motivi ispiratori, lo stile ribelle che si rifletteva in una vita disordinata e libera, la “deriva esistenziale” del poeta. È il libro che ha fatto uscire Toma fuori dalla sua provincia, così angusta per uno spirito anticonvenzionale come il suo, che lo ha portato in giro per l’Italia, dove i suoi concittadini mai avrebbero pensato potesse arrivare. 
 
Photo HelenTambo on Instagram

Canzoniere della morte” è il titolo della prima delle tre sezioni dell’antologia, poi esteso a tutta la raccolta che comprende anche “Bestiario salentino del XX secolo” e “I sogni della sera”: se molti dei versi di Salvatore Toma richiamano forte l’idea della morte come attesa, rimedio e soluzione (credo che le parole ‘morte’ e ‘morti’ abbiano la più alta occorrenza rispetto ad altre), sarebbe ingannevole pensare che proprio la morte sia il tema centrale della poesia di Toma: anche quando ne parla, lo fa con una vitalità eccezionale, quasi come un ossimoro, la vita e la morte sono la stessa cosa, si compenetrano e si intrecciano, i toni sono spesso polemici, beffardi, ironici, la voce è alta, quasi grida quando sarò morto/che non vi venga in mente/di mettere manifesti:/è morto serenamente/o dopo lunga sofferenza/o peggio ancora in grazia di dio./Io sono morto/per la vostra presenza (“Testamento”). 
La vita è invece celebrata nella Natura, negli animali che vivono nei versi del Bestiario e che ci avvicinano a quel mondo solitario (dagli uomini) e contemplativo, che solo nel bosco delle Ciàncole vedeva il poeta nel suo essere più libero, con i suoi amici cani e gli uccelli: nei versi del Bestiario ci sono le creature della Terra, dell’Aria e del Mare, lombrichi e bruchi, bisonti, cani, antilopi e leoni, giraffe, tigri e farfalle, cicale, falchi, aironi e civette, rondoni, merli e nibbi, delfini, squali e capodogli, tutti in intima solidarietà con il poeta, che si fa sfondo e li accoglie. Leggendo i versi di questa sezione del Canzoniere non posso non pensare a certi quadri di Antonio Ligabue
La terza sezione, quella della dimensione onirica e privata, svela un uomo che coltiva la sua energia anche nell’ambito delle passioni, dell’amore, dei rimpianti. È il Toma più intimo, verso il quale anche da lettrice ho maggiore pudore. 

Oltre al “Canzoniere della morte”, pubblicato da Einaudi del 1999 e andato esaurito alla sua terza ristampa, oggi è possibile ritrovare i versi di Toma, desunti da precedenti raccolte curate da lui stesso e pubblicate da editori locali sensibili alla sua arte, in una pubblicazione fuori commercio, intitolata “Il Tomaverso. Di anime animali creature senzienti”. Il volume, curato dalla Fondazione Capece e dall’Amministrazione comunale- Assessorato alla Cultura di Maglie, con la collaborazione preziosa di Paola Antonucci Toma (la “donna favolosa” di Toma), è distribuita al pubblico dietro offerta devoluta alla sezione locale dell’associazione ZampaLibera onlus
Qui le scelte operate da Angela Leucci, che ha materialmente allestito l’antologia con il consenso della famiglia del poeta, sono svincolate da ordini tematici e tendenzialmente privilegiano la vita, nella dimensione più primitiva forse, più istintuale: c’è il mestiere del poeta, l’essere poeta, ci sono i baci che il padre dà al figlio bambino, c’è l’amore per gli alberi, gli ulivi e le querce, c’è la passione per gli animali e gli ideali animalisti e antivivisezionisti, ci sono le stagioni e il naturale svolgersi del tempo. 

Io davvero non lo so. Non so se basta la premura che oggi, a trent’anni di distanza dalla sua morte, utilizziamo quando ci avviciniamo alla poesia di Salvatore Toma, non so se basta per risarcire la distrazione con la quale in vita il Great Poet è stato considerato: mi piacerebbe che sì, che anche i più giovani potessero leggere la poesia di Toma senza pregiudizi provinciali, che si tornasse a cercare e riconoscere quella voce che, inascoltata allora, oggi può acquistare un valore nuovo, se riusciamo a farla nostra. Ci sta provando la Fondazione Capece, che con l’aiuto di TwLetteratura ha organizzato a marzo un workshop dedicato a quattro componimenti poetici di Salvatore Toma,  in cui lettori di tutte le età hanno provato a giocare con i suoi versi e le sue storie; a questa prima iniziativa si è affiancata una serie di eventi promossi a Maglie dalla stessa Fondazione Capece, dal Comune di Maglie e dalla Biblioteca di Sarajevo: la proiezione, destinata agli studenti della scuola secondaria di secondo grado, del docufilm “Il bosco delle parole” di Elio Scarciglia e il recital “Canzoniere della vita” di Renato Grilli con Rachele Andrioli e Rocco Nigro. 
Quello che per certo so -e che credo indispensabile- è semplicemente tornare a leggere Toma, senza cercare inutili sovrastrutture, fiduciosi di trovare invece la semplicità dell’istinto e della parola nuda. 

Per chiudere, il calendario della settimana che inizia oggi per seguire i nuovi post nuovi e recuperare quelli passati: 
• Martedì 23 pomeriggio Simona di Letture Sconclusionate
• Mercoledì 24 pomeriggio Marianna di Sulle ali della fantasia 
• Giovedì 25 mattina Paola ospite di Letture Sconclusionate 
• Giovedì 25 pomeriggio Angela del canale Angela Cannucciari
• Venerdì 26 pomeriggio Daniela di Appunti di una lettrice
• Sabato 27 pomeriggio Baba di  Librinvaligia
• Domenica 28 mattina Giada del canale Dada Who?

mercoledì 17 maggio 2017

#MattiaTw e #AusterTw, letture e riletture con TwLetteratura

Parte domani il Salone del Libro di Torino e anche quest’anno TwLetteratura avrà il suo spazio di confronto con chi nel corso dell’anno (intendendo per anno quello scolastico) ha partecipato ai progetti dedicati alle scuole e anche con tutti gli utenti che dal loro account cinguettano sulle proposte dei giochi letterari della comunità fondata da Paolo Costa, Edoardo Montenegro e Pierluigi Vaccaneo. 
Nemmeno quest’anno riuscirò a essere a Torino in questo scorcio di settimana che si preannuncia davvero ricca di appuntamenti interessanti al Lingotto, un po’ perché i collegamenti con la Puglia non sono né semplici né economici (ma questo lo dico sempre) e un po’ perché questo è un periodo davvero molto intenso, fatto principalmente di incombenze che riguardano il lavoro. 
Nonostante ciò, approfitto degli appuntamenti che TwLetteratura ha fissato con i suoi followers per raccontare a distanza delle letture e delle riscritture da me portate a termine nella stagione invernale, poche rispetto ai progetti che sono stati proposti in quantità e varietà. Quelle che ho operato io sono scelte fatte nel ventaglio di più proposte che la comunità di TwLetteratura ha presentato alle scuole e agli altri utenti di Twitter: un progetto legato a Il fu Mattia Pascal di Luigi Pirandello, con la partecipazione di Fondazione Cariplo, e la lettura social in contemporanea di In the Country of Last Things di Paul Auster e de Il deserto dei Tartari di Dino Buzzati, il primo dei quali da leggere e commentare in lingua originale, in collaborazione con Bocconi Arts Campus. Gli hashtag seguiti sono stati rispettivamente #MattiaTw e #AusterTw. 
Per quanto riguarda Pirandello, per me è stata una rilettura a distanza di oltre trent'anni (l’edizione è sempre quella, Oscar Mondadori -ristampa dell’aprile 1982, ero studentessa liceale-) per ritrovare il gioco delle parti, le maschere, ciò che siamo e ciò che vorremmo essere, "la goffa, incerta metafora di noi". Nell'Avvertenza sugli scrupoli della fantasia, la nota a conclusione del romanzo, troviamo la sintesi del pensiero pirandelliano, ancora presente e attuale. Un piacere che si rinnova ogni volta che incontro Pirandello, che continuo a trovare moderno, capace di insinuare dubbi e suggerire riflessioni sulla condizione dell’uomo nella società, in famiglia, nel rapporto con gli altri. 
Photo Elena Tamborrino
 La lettura condivisa di uno dei primi romanzi di Pirandello, certamente tra i più letti di sempre, è rientrata in un progetto che TwLetteratura ha proposto alle scuole in collaborazione con Fondazione Cariplo, interessata a studiare l’impatto che il metodo ha sulla didattica laboratoriale, innovativa, che tanti docenti applicano da qualche anno in molte scuole italiane -e non solo- di ogni ordine e grado. 
Non so quanto i lettori più giovani abbiano apprezzato questa lettura e in genere amino i romanzi di Pirandello, a differenza delle novelle che hanno effetto più immediato e piacciono molto: i miei alunni hanno decisamente faticato, forse anche per un calendario dettato da specifiche esigenze di ricerca da parte della Fondazione Cariplo, che ha dilatato una lettura che invece, a mio modesto parere, doveva essere compressa in un periodo molto più breve di quello previsto dal progetto. Tuttavia non sono mancati momenti di scambio e di confronto sulla personalità del protagonista, sulle occorrenze della vita, sulla necessità di essere riconoscibili agli altri, qualunque posto si occupi nella società. 
Photo HelenTambo on Instagram
La seconda proposta di TwLetteratura, svincolata dalla scuola, mi ha visto fare la scelta di leggere In the Country of Last Things nella traduzione di Monica Sperandini, (Il paese delle ultime cose, Guanda 1996): in realtà volevo solo l'occasione, per una forma di curiosità verso Paul Auster, del quale non avevo mai letto nulla in precedenza. 
Si tratta di un romanzo distopico che racconta, come in una lunga lettera, un viaggio ai limiti dell'umanità nel "paese delle ultime cose", dove è impresa titanica conservare integri la capacità di provare sentimenti e di tenere lontana la natura ferina che emerge nei momenti di disperazione. Nonostante la scrittura fluida, molto scorrevole, ho faticato a entrare nella storia e a penetrare nei suoi significati allegorici, non ho provato empatia nei confronti di alcun personaggio, men che meno verso la voce narrante, Anna, che descrive il periodo trascorso in questo mondo ai limiti, alla ricerca del fratello giornalista scomparso. Il limite è senz’altro mio, questo libro in realtà è considerato uno dei capolavori di Auster –al quale però non so se offrirò un’altra opportunità con me- e la traduzione di Sperandini è estremamente curata e capace di suggerire impressioni potenti. 
Sarebbe stato interessante seguire anche la lettura parallela del romanzo di Dino Buzzati, che però ho letto poco tempo fa (ne ho parlato qui), troppo poco per avere voglia di rileggerlo a così breve distanza: le riletture hanno senso se, come si è trattato con Pirandello, il nuovo incontro ci trova cambiati, cresciuti, con occhi che sanno vedere ciò che magari da più giovani non si potevano scorgere. 
A distanza seguirò gli eventi del SalTo2017 legati a TwLetteratura, in attesa di nuovi progetti e nuove idee. Nel frattempo medito di riorganizzare le mie abitudini di lettrice compulsiva.

venerdì 28 aprile 2017

"Nascosti davanti a tutti" di Fabrizio Manzetti

Non avrebbe mai pensato che avere dei figli 
avesse potuto significare imparare più di quanto fosse necessario insegnare, 
e da lui e Michele aveva imparato a non cercare la pace, 
ma crearla con piume, foglie e mani. 

È un bell’esordio questo di Fabrizio Manzetti, scrittore emergente che ci regala sedici bozzetti di vita quotidiana, sedici squarci, vedute su esistenze ordinarie colte in momenti a loro modo speciali, unici.
Nella vita di tutti i giorni le azioni si ripetono, incanalandosi in routine che sembrano distrarre dalle esigenze interiori più nascoste e che presentano, a un certo punto, uno scarto dall'ordinario che conclude piccole storie di microcosmi umani. Eppure siamo tutti davanti a tutti, uguali a tanti, in storie comuni in cui riconoscersi è facile. 
Manzetti esplora i temi più vari dell’esistenza umana, narrando di un incontro fortuito su un treno di pendolari, che si vuol credere combinato dal destino e forse lo è, oppure di un amore che non muore, nonostante tutto, perché non si riesce a far andar via l’altro quando in fondo un equilibrio c’è. Oppure ancora di un gatto che diventa il lasciapassare per una nuova vita, l’unico motivo per ricominciare altrove; e poi del dolore silenzioso di Rieger, colto tipografo successivamente correttore di bozze e scopritore di talenti letterari, poi “invisibile” che vive nel mondo parallelo dei barboni, per caso o per scelta “tutti uguali davanti alla miseria”. 
In “Nascosti davanti a tutti” c’è il dolore muto che non emerge dai gesti quotidiani, ma esplode in un ultimo inaspettato ed eclatante gesto, perché a certe ingiustizie della vita, come è sopravvivere a un figlio, non si fa mai l’abitudine. E senza pensare alle sofferenze più tremende che possono attraversarci la vita, basterà volgere lo sguardo verso la ragazzina che decide di smettere con le lezioni di musica, perché un crack dentro ha spaccato tutto. 
Tra i tanti temi che l’A. indaga, c’è quello della riscoperta dei legami familiari, anche dove si pensa che siano scontati: un genitore anziano e solo, la gestione di un rapporto filiale a distanza che si distrae dalle necessità autentiche che un anziano può avere, prima tra tutte l’amore dei figli, più che l’assistenza nelle piccole pratiche quotidiane curate da una badante; sarà l’imprevisto a rendere la giusta dimensione a tutto e a fare recuperare il battito del cuore che si sintonizza tra una figlia e un padre sofferente, nel racconto “Mi batte il cuore di mio padre” che chiude la raccolta. 
In mezzo, ancora, i ritorni senza gloria a paesi abbandonati nel tempo dei sogni a venire, e i tradimenti lunghi anni, dove alla fine vince la realtà scelta per comodità e per mancanza di coraggio, e ancora quadretti familiari incapsulati in stanche routine –due pensionati, sposati da oltre cinquant’anni, stessa casa da sempre, vita immobile- salvo tardive recriminazioni («Mi hai sempre detto “andrà tutto bene, vedrai”. E dove siamo andati? Rispondimi!» dice lei a lui). 
Sono belli i racconti di Fabrizio Manzetti: vividi, sentiti, raccontati in una prosa piana, senza inutili virtuosismi, eppure con cenni di vera poesia, nelle descrizioni dei gesti e dei sentimenti. In queste sedici immagini ordinarie ci si specchia e ci si consola, riconoscendo il tratto delicato con cui l’Autore si è accostato alla vita qualunque di chiunque di noi. La raccolta partecipa al Premio Augusta: fino al 18 maggio è possibile votarla qui , quindi leggetela e cliccate!


Photo Elena Tamborrino




Nascosti davanti a tutti 
Autore: Fabrizio Manzetti 
Dati: 2016, 118 p., brossura 
Editore: Augh! (collana Frecce) 
Prezzo: € 12,00 
Giudizio su Goodreads: 3 stelline

martedì 18 aprile 2017

"Orfani bianchi" di Antonio Manzini

Lame di luce tagliavano le tende di broccato, 
i quadri antichi alle pareti, i tappeti orientali a terra. 
Ebbe timore di camminarci sopra, di sporcarli. 
Si sentiva fuori luogo, un brufolo sulla schiena di Dio. 

Sarà che siamo tutti uguali, ma c’è qualcuno che è più uguale degli altri e qualcun altro che è sempre e comunque tagliato fuori, un’escrescenza fastidiosa, un inciampo nella società. Eppure, nella solitudine e nella povertà, queste persone cercano la forza per andare avanti, accettano lavori spesso umilianti, in attesa del riscatto, sperando di riprendersi la vita, anche se non sarà sfavillante come quella dei più fortunati, dei ricchi. 
A Mirta, giovane moldava trasferita a Roma a pulire prima androni e scale dei condomini e poi a fare da badante in una famiglia che di lei e di quelli come lei ha solo disprezzo, basta un lavoro dignitoso e sicuro che le consenta di mettere da parte un gruzzoletto e andarsi a riprendere Ilie, il suo bambino rimasto al paese con la nonna anziana. Un incidente tragico costringerà la donna a sistemare Ilie in un Internat, un orfanotrofio in Moldavia, in attesa che qualcosa cambi e con la speranza tenuta fervidamente accesa che il ricongiungimento con il figlio possa non tardare. 
Ilie non è orfano, no: ha la sua mamma lontana che manda i soldi e i giocattoli e i libri, e un padre che è sparito nel nulla quando lui è nato, ma deve stare lo stesso nell’orfanotrofio puzzolente di cavolo e disinfettante, insieme agli orfani veri, lui orfano “bianco”, uno di quelli che hanno i genitori troppo poveri per tenerli con sé. 
Messo da parte per ora Rocco Schiavone, Antonio Manzini ci regala un altro personaggio straordinario, Mirta Mitea, forte e disperata, determinata e coraggiosa, una mater dolorosa che ostinatamente è disposta a sopportare una quotidianità umiliante, avendo l’obiettivo di una rinascita possibile. Mirta crede nell’amicizia, nell’amore e nel lavoro e si scontra continuamente con un mondo che invece è cattivo e incomprensibile. 
Manzini racconta una storia molto triste, probabilmente non dissimile da tante altre vissute quotidianamente da donne che dall'est europeo arrivano in Italia in cerca di un lavoro che conceda loro una svolta: una storia di solitudine e di fatica, il cui epilogo arriva improvviso a colpire come un pugno allo stomaco. 
Alla voce della protagonista si contrappone il silenzio del figlio adolescente, rimasto in Moldavia: i silenzi degli adolescenti spesso dicono più delle parole, quello di Ilie sarà un silenzio che squarcerà il cielo instabile e precario, eppure denso di aspettative, di Mirta. 
Anche lontano dal personaggio che gli ha dato il successo, Manzini fornisce una bella prova narrativa che lo svincola dal vicequestore Schiavone, che quasi vive di vita propria. La prosa di Manzini la conosciamo: scorrevole e piana, stringata e ricca di dialoghi, descrittiva come una sceneggiatura che sia prossima a una messa in scena, prende il lettore e non lo abbandona finché le vicende narrate non si sciolgono, in qualunque modo. 

 
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Orfani bianchi 
Autore: Antonio Manzini 
Dati: 2016, 240 p., rilegato 
Editore: Chiarelettere (collana Narrazioni) 
Prezzo: € 16,00 
Giudizio su Goodreads: 5 stelline

venerdì 14 aprile 2017

"La vita sconosciuta" di Crocifisso Dentello

Una delle lezioni spaventose che si sperimentano dopo un lutto
è che il dolore non è sempre un grumo nero 
che il tempo riesce a diluire. 

Quel dolore, quel grumo nero, dice Crocifisso Dentello nel suo “La vita sconosciuta”, “può restare intatto e semmai lievitare, occupare sempre più spazio e irrompere improvviso proprio quando ci si illude di averlo tenuto a bada”; è ciò che succede a Ernesto, che si accompagna a uno strazio senza soluzione dopo la morte della moglie Agata: non è solo il dolore per una morte improvvisa, imprevedibile, ma per il protagonista è la pietra tombale sulla sua solitudine, che era tale anche prima della scomparsa della moglie, una donna inaridita dalla fatica e dalla delusione. 
Il romanzo racconta la doppia vita dell’uomo e il suo malcelato equilibrismo tra omosessualità vissuta con famelica frenesia e frustrato legame matrimoniale con Agata: la vicenda, racchiusa in pochi giorni, si sposta su più piani temporali, alla continua ricerca di un passato che possa spiegare le ragioni dell'oggi. 
In quel passato si addensa una passione politica, sfociata per una stagione nei contatti con il terrorismo che aveva infiammato l’Italia degli anni di piombo, quella della lotta armata e delle Brigate Rosse; il periodo dell’impegno politico clandestino è da tempo sepolto nella coscienza di Ernesto, ma non lo era stato in quella di Agata, che in quel credo politico si era spesa totalmente e che per anni aveva alimentato il rancore e la rabbia di non aver visto compiersi la rivoluzione così come tra compagni l’avevano immaginata, desiderata, criminalmente perseguita. 
La divisione e le incomprensioni tra moglie e marito erano passate anche da questo, ma ciononostante Ernesto continua a tenere presente il legame forte con la compagna di una vita, che già da molto prima che lei morisse mal si conciliava con il sesso mercenario consumato dall’uomo nei parchi periferici di Milano e che ancora di più alimenta il senso di colpa, dopo che lei muore. 
Ho letto questo romanzo appena uscito, in un giorno e mezzo, e ne avrei potuto parlare immediatamente, dimostrando di saper stare sul pezzo; le cose non sono andate così, anche per una mia tendenza al non inseguire per forza l’onda mediatica -che pure è lunga e persiste ancora-, tuttavia da quando l’ho chiuso sull’ultima pagina ho sempre rimuginato sulla storia che Dentello narra in questo romanzo duro e spietato, una storia raccontata senza sconti, con un linguaggio crudo e realista, testimonianza di un dolore infinito e senza redenzione. 
Pensavo, tra l’altro, che avrei dovuto scriverne e che sarebbe stato un peccato lasciar passare troppo tempo, com’è successo con il romanzo di Elena Stancanelli, “La femmina nuda”, di cui ho parlato frettolosamente alla fine dell'anno scorso. Non è un caso se associo il romanzo di Dentello a quello di Elena Stancanelli, che a sua volta ho definito vicino a “La separazione del maschio” di Francesco Piccolo, perché entrambi colgono spaccati di vita, narrati nella più confidenziale quotidianità, accomunati dallo stesso senso dell’intendere il sesso, l’amore, il dolore. Quei due romanzi sono in qualche modo fratelli (ricordo che a candidare allo Strega “La femmina nuda” lo scorso anno è stato proprio Piccolo); il romanzo di Dentello si avvicina a loro (“La vita sconosciuta” e il romanzo della Stancanelli sono entrambi editi da La nave di Teseo, il che mi ha fatto pensare a una certa sensibilità dell’editore verso gli argomenti che i due Autori nei loro libri indagano), raccontando un ulteriore aspetto, ancora una sfaccettatura di un modo di vivere le relazioni intime e anche quelle estranee, quelle che ci rendono sconosciuti a noi stessi. 
Per questo motivo, non mi sorprende che l’autore sia incappato in un incidente di percorso, peraltro da lui stesso denunciato dopo che il critico Stefano Gallerani aveva riscontrato una sospetta coincidenza in un brano de “La vita sconosciuta”, fin troppo somigliante –quasi identico- ad uno stralcio de “La separazione del maschio”. Se errore ha fatto Dentello, è stato quello di non annotarsi la fonte di questo brano che tanto lo aveva colpito leggendo il romanzo di Piccolo: il tempo poi ha fatto il suo lavoro, consultando gli appunti di pensieri sparsi, citazioni raccolte, non se n’è ricordata più l’origine e se non se n’è ricordata più l’origine, significa che quel sentire, già scritto e già letto, è identico al suo. Un incidente, sul quale non vale la pena dilungarsi, ma che nemmeno si può far finta che non sia accaduto. 
Piuttosto mi sembra importante rilevare altro: la capacità di spogliare totalmente il personaggio principale della pelle, renderlo così intimamente scoperto e vulnerabile tanto da provocare nel lettore il moto di pietà destinato ai perdenti, o il disprezzo che si riserva ai rinunciatari, agli inetti. 
In ogni caso, qualunque sia il sentimento che si agita nel lettore, l’importante è che un’emozione si manifesti, che una domanda ce la si ponga, che si chiuda il libro con una sensazione, qualunque. Finché un romanzo è capace di smuovere qualcosa dentro chi lo legge (e prima in chi lo scrive), per quel poco che il mio parere può contare -non sono certo un influencer!-, per me è un buon romanzo. 

 
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La vita sconosciuta 
Autore: Crocifisso Dentello 
Dati: 2017, 120 p., brossura 
Editore: La nave di Teseo (collana Oceani) 
Prezzo: € 16,00 
Giudizio su Goodreads: 4 stelline

sabato 8 aprile 2017

"La più amata" di Teresa Ciabatti

Mi chiamo Teresa Ciabatti, ho quarantaquattro anni e non trovo pace. 
Voglio scoprire perché sono questo tipo di adulto, 
deve esserci un’origine, ricordo, collego. 

Non conoscevo Teresa Ciabatti finché non mi sono imbattuta su un suo pezzo di qualche mese fa su La Lettura, inserto settimanale del Corriere della Sera, in cui raccontava di come qualcuno –non ricordo chi- l’avesse bollata come la peggiore scrittrice italiana (l’episodio è ricordato da Antonio D’Orrico su Sette del 10 marzo 2017). La faccenda mi mise in curiosità, ho cominciato a seguire Teresa Ciabatti su Facebook, dove è molto attiva, e ho iniziato a provare simpatia per la sua ostentata, voluta antipatia –falsa, falsissima, ma bisogna essere un po’ cinici per capirlo-, lontana com’ero dall’immaginare che di lì a poco sarebbe uscito il suo ultimo romanzo, “La più amata”, che poi mi sono affrettata a comprare. Una volta reso pubblico l’elenco dei candidati allo Strega, leggerlo è stato conseguenziale nell’immediato, non sia mai che vada a vincere il Premio più ambito in Italia e poi finisce che non lo leggo perché il gran parlare me ne allontana, com’è successo ad esempio con “La ferocia” di Nicola Lagioia o “Il desiderio di essere come tutti” di Francesco Piccolo, comprati e non ancora letti. 
Detto ciò, non è che di questo libro non si stia già tanto parlando: un po’ credo sia marketing –e quindi interviste, articoli, recensioni a tambur battente-, un po’ semplicemente discussioni, specie sui social, perché questo è un romanzo che sta facendo molto polemizzare e che mi sembra stia dividendo l’opinione dei lettori che lo stanno molto apprezzando o, viceversa, lo stanno detestando: insomma non sembrano esserci vie di mezzo. 
Leggo, seguo il dibattito, cerco di capire le ragioni di chi trova questa storia noiosa e inutile, ma non mi muovo dall’opinione che invece me ne sono fatta io, scevra da pregiudizi. 
A me questo libro è piaciuto e un indicatore di gradimento è il tempo che ho impiegato a leggerlo, sicuramente anche perché in fondo si tratta di poco più di duecento pagine, ma soprattutto perché mi incuriosiva sapere in che direzione si andava e dove l’Autrice mi avrebbe alla fine condotto: ci ho messo un giorno e mezzo, da cui sottrarre le ore dedicate al lavoro e al sonno. 
In breve, si tratta della ricostruzione della storia della famiglia che il Professore Lorenzo Ciabatti, primario ospedaliero, costruisce con Francesca, mettendo al mondo due gemelli, Gianni (ma il nome vero non è questo, il fratello di Teresa ha chiesto che venisse cambiato) e appunto Teresa, nella provincia toscana, a Orbetello, dove il professore è una personalità in vista, potente e temuta. 
Il racconto, che parte in medias res, è diviso in tre parti, dedicate ciascuna alle tre figure di riferimento della storia, Lorenzo Ciabatti - “il prescelto”, Teresa Ciabatti - “la più amata”, Francesca Fabiani - “la reietta”, a cui si aggiunge una quarta parte dedicata ai “sopravvissuti”. La narrazione procede in disordine, i piani del tempo si intersecano, dando una visione frammentata dell’insieme che però ha una sua unitarietà, proprio in quel suo andare avanti e indietro sulla linea del tempo. 
Si tratta di uno scritto autobiografico dove quello che conta sono le domande, anche se le risposte non sempre arrivano. E se le risposte non arrivano, a un certo punto non importano più, perché ciò che conta è aver fatto un viaggio a ritroso fino a un tempo felice, rotondo e perfetto, pieno di imperfezioni, spigoli e infelicità soffocate, che gli occhi dei bambini non vedono, ma quelli degli adulti sì. 
Al centro di tutto, nonostante quel tutto parta da lui, non c’è il Professore -massone, potente, tirchio, millantatore anche, non attraente ma capace di affascinare-, ma la piccola Teresa che con il padre ha un rapporto di privilegio: è lei la più amata che si sentirà la meno amata quando lui, dopo che la moglie lo lascia per tornare a Roma da dove era partita, piena di speranze e ambizioni -anche lei medico che abbandona la carriera per la famiglia-, svende quasi tutto il patrimonio immobiliare, compresa la stupenda villa al mare con undici bagni, biancheria in tinta per ogni ambiente e piscina in giardino, quando erano in pochi a potersela permettere. 
Anche i ricchi piangono e parecchio e in particolare lo fa Teresa che si accorge che quei privilegi che le sembravano naturali, dovuti e necessari si possono perdere da un momento all’altro, perché a volte le persone cambiano, si ribellano, si oppongono a ciò che non possono capire, cosa che succede a sua madre Francesca, moglie piegata senza che ne abbia consapevolezza, costretta a rinunciare alla sua affermazione personale, curata dall’inevitabile depressione con un sonno lungo un anno, un anno di oblio in cui non vede crescere i suoi figli. Dalle stelle alle stalle è difficile, ma ciò che è più difficile è guardarsi con gli occhi degli altri, per i quali essere una Ciabatti non significa nulla, fuori da Orbetello. 
Cosa mi è piaciuto di questo romanzo? Intanto lo stile, quel raccontare e raccontare anche a se stessa, l'ammiccare al lettore, il dialogarci quasi, il disordine del ricordo in una sintassi ritmata, e poi lo scopo: ho interpretato questa storia come una catarsi, un’analisi finalizzata a far pace con un passato scomodo e con i suoi protagonisti, un modo per mettersi a nudo, per poter vivere un rapporto migliore con il proprio presente. Non so se questa specie di seduta psicanalitica su carta (cosa ricordi, Teresa? Stenditi sul lettino, parti da dove vuoi, prova a pensare alle cose più lontane che rammenti, parla a ruota libera, non importa se non vai in ordine, basta che tiri fuori tutto) sia servita all’Autrice, non so perché non credo che basti. Penso però che serva ai lettori: non occorre riconoscersi nei protagonisti di una storia, lo si fa anche con le figure di contorno le cui personalità, che si svelano in gesti e parole comuni, dicono molto anche di noi.
Photo Elena Tamborrino on CameraBag




La più amata 
Autore: Teresa Ciabatti 
Dati: 2017, 218 p., brossura 
Editore: Mondadori (collana Scrittori italiani e stranieri) 
Prezzo: € 18,00 
Giudizio su Goodreads: 5 stelline

domenica 2 aprile 2017

"Quando Teresa si arrabbiò con Dio" di Alejandro Jodorowsky

“A-les-san-dro Jo-do-row-sky, per colpa tua siamo dove siamo. 
La follia del Rabbi ci ha condotti alla miseria. 
Qui i consigli del tuo fantasma non valgono niente. 
E io non voglio che continuiamo a vivere come parassiti della colonia ebraica. 
Il passato è passato! Mondo nuovo, vita nuova! 
È l’ultima volta che accetto l’aiuto del mostro. 
Ci schiereremo come vuoi, e saliremo sul colle. 
Vediamo se lassù l’Altissima Canaglia ci dà l’aiuto di cui abbiamo bisogno
in cambio di mezzo copeco. ma ti giuro che se non succede niente 
ti lascio Giacomo e Beniamino, prendo le bambine 
e andiamo in una taverna del porto a fare le puttane per il resto dei nostri giorni!” 

A questo romanzo che mi ha accompagnato per una ventina di giorni non posso che dedicare un post brevissimo, non perché non abbia nulla da dire su questa storia incredibile, ma perché non so proprio da che parte iniziare a parlarne, sentendo forte invece la necessità di comunicare coram populo tutto il mio entusiasmo per la fantasmagorica, surreale epopea familiare che Alejandro Jodorowsky ha immaginato, a partire dall'origine del suo albero genealogico. 
Lo stesso Jodorowsky - artista versatile, direttore di teatro, regista e autore di pièce teatrali, romanzi e film, fumettista, attore, mimo, clown e marionettista- avverte che "Tutti i personaggi, luoghi ed eventi sono reali. Ma questa realtà è trasformata ed esaltata fino a trasformarsi in mito. Il nostro albero genealogico da un lato è un recinto che limita i nostri pensieri, emozioni, desideri e vita materiale, ma dall'altro è il tesoro che racchiude la maggior parte dei nostri valori"; tuttavia un forte ruolo nel racconto della storia dei Prullansky-Jodorowsky, lo svolge la fantasia irrefrenabile dell’Autore, capace di trasfigurare l’atto della lettura in un momento di assoluta estraniazione, per un pubblico che resta tramortito da tanta vitalità. 
Comica, dissacrante, emozionante e commovente, la lettura di questa saga familiare, popolata da personaggi indimenticabili, mitici, bizzarri e tragici, fa attraversare al lettore tutti i sentimenti possibili, dalla repulsione alla partecipazione, dal divertimento alla meraviglia. 
Per me si è trattato di una scoperta, per cui devo un grazie enorme alla mia amica Carla che a Natale mi ha regalato questo volume, ormai alla diciassettesima edizione in Italia (è stato pubblicato la prima volta nel 1992, in Italia nel 1996): all’inizio ho avuto la sensazione di trovarmi in una nuova Macondo, mi risuonava lo stile di García Márquez respirato in “Cent’anni di solitudine”, ma subito mi sono resa conto che con Jodorowsky non si trattava solo di entrare in un mondo sospeso tra mito e fiaba, ma di salire su un’altalena o di farsi sbatacchiare dalle fruste di un frullatore a immersione. 
Qui c’è tutto: l’interesse, la scaltrezza, la passione, il sesso raccontato senza tabù e con una generosa dose di allegria, l’amore, il desiderio, il sogno, il senso di appartenenza, la mancanza di scrupoli, la pietà, la vita e la morte. 
Una lettura estrema e totalizzante che raccomando fortemente a chi ama le atmosfere oniriche, sperando che il mio trasporto risulti contagioso, consapevole che molto si deve al traduttore, Gianni Guadalupi, per il quale non sarà stata semplice la mimesi dell’arte di Jodorowsky. 
 
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Quando Teresa si arrabbiò con Dio 
Autore: Alejandro Jodorowsky 
Traduttore: Gianni Guadalupi 
Dati: 2013, 331 p., brossura 
Editore: Feltrinelli (collana Universale economica) 
Prezzo: € 9,90 
Giudizio su Goodreads: 5 stelline

mercoledì 29 marzo 2017

"I signori della cenere" di Tersite Rossi

“Affacciatevi alle vostre finestre, adesso, e guardate in strada. 
Lì fuori già marciano uniti uomini e donne 
pronti a prendere in mano il loro destino 
per sottrarlo al piano di morte e devastazione dei Signori della Cenere. 
Sono gli uomini e le donne della Grande Madre. 
Ascoltate il loro messaggio. E unitevi a loro. 
 Perché loro sono come voi. Loro siete voi” 

Non conoscevo il collettivo di scrittura Tersite Rossi, composto da Mattia Maistri e Marco Niro e scoperto da Massimo Carlotto, che nel 2012 ha inserito nella collana Sabot/age delle edizioni e/o il romanzo “Sinistri”, e questa terza prova del suo percorso di scrittura si è inserita in un periodo molto convulso e concentrato di libri, tra blog e gruppi di lettura; tuttavia, nonostante la difficoltà nel districarmi tra tanti impegni, è stata la piacevole occasione per leggere un romanzo che rientra nel genere della narrativa d’inchiesta e che però attraversa e mescola anche altri generi come il romanzo di azione, il mistero, la fantascienza e la fantastoria, e tratta di alta finanza e antiche divinità, con uno stile incalzante e cruento che rasenta la pulp fiction. 
Il tema centrale è imperniato su un grande crimine finalizzato alla globalizzazione, che vedrà nel mercato dell’acqua il principale strumento di potere da parte di un gruppo ristretto di oligarchi, decisi a prendersi il mondo. Tutto questo affonda le radici in un passato molto lontano che risale al XII secolo a.C. a Creta, dove due modelli di civiltà, quello pacifico, femminile o “gilanico”, legato al culto della Dea Madre, e quello guerriero, “maschile”, legato agli Dei Padri, entrano in conflitto. La sconfitta della civiltà di stampo matriarcale ha determinato la storia dell’umanità, che ha visto il prevalere di gerarchie riservate, plasmate sul modello maschile, che hanno nei secoli inseguito il mito della potenza divina a cui si sentono elevati, tanto da non poter accettare il fatto di essere invece inseriti in un ciclo di vita e di morte, in quanto esseri “naturali”. 
Il delirio di onnipotenza che caratterizza l’élite che governa il mondo, si sviluppa nel corso dei secoli fino ai giorni nostri, grazie alle forze occulte che gestiscono i principali centri del potere finanziario e politico: a questo strapotere economico, cercano di opporsi Petra, giovane ricercatrice universitaria che parte delle scoperte sulla società gilanica fatte dalla sua amica Sonia, misteriosamente scomparsa, Lorenzo, trader “pentito”, e il ragionier Colombo, rimasto schiacciato dai meccanismi di profitto che lo escludono dalla vita lavorativa, non considerandolo più utile. 
Il rischio di banalizzare la trama, sintetizzandola brutalmente come ho appena fatto, è molto alto perché in realtà il romanzo è ricco di personaggi, luoghi e situazioni che si intrecciano continuamente, spostando l’attenzione del lettore da una scena all’altra, senza avvertire cesure drastiche che non siano annunciate, ove necessario, perché corrispondenti a passaggi temporali di una certa entità: nel prologo, dal passato lontanissimo nella storia della civiltà umana, ci si sposta rapidamente agli anni cruciali, il 1973 e il 1989, tra Washington e i Pirenei francesi, in cui si prepara il grande complotto che con il tempo consentirà ai potenti di decidere della vita e della morte di tutti gli abitanti del pianeta. Poi l’azione si sposta nei dieci anni tra il 2006 e il 2016 e sono scanditi da capitoli che fluidamente raccontano il procedere nervoso degli eventi. 
Il lungo respiro che attraversa la storia dell’esercizio occulto del potere, si snoda coerentemente fino a rappresentare bene l’idea di un grande mosaico, i cui tasselli trovano posto man mano che la lettura scorre, e concorre a spiegare forse, o meglio a immaginare, la crisi economica che attraversa quest’ultimo decennio: sarà forse un pensiero ardito, forse a Tersite Rossi piace giocare con la fantapolitica, ma anche i pensieri più audaci, quando si tratta di potere e denaro, hanno un loro fondo di verità. 
Bisogna che ci sia grande affinità di stile e immaginazione per lavorare in tandem, disegnando trame complesse e avendo bene in mente cosa si vuole rappresentare, alla fine: sembra che Mattia Maistri e Marco Niro abbiano questa sintonia, che consente loro di presentarsi come un tutt’uno, coeso e con una forte personalità, che li ha fatti diventare Tersite Rossi e apprezzare come tale. 
Consiglio questo romanzo, raccomandando di dedicargli una lettura attenta, per non privarsi dell’inevitabile coinvolgimento emotivo: la vicenda è complessa e intrigante, la narrazione segue fili che si intrecciano in una trama strutturata in modo da caricare il lettore di attese, in un climax che trova scioglimento graduale nelle ultime pagine, dense di tensione. 

 
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I signori della cenere 
Autore: Tersite Rossi 
Dati: 2016, 397 p., brossura 
Editore: Pendragon 
Prezzo: € 16,00 
Giudizio su Goodreads: 4 stelline

mercoledì 22 marzo 2017

"La vegetariana" di Han Kang

«Forse questo è tutto una specie di sogno» 

È proprio un sogno a dare inizio e fine a questo dramma in tre atti, che vede al centro la vicenda di Yeong-hye, la sua caduta nell’abisso dell’autodistruzione che comincia con il rifiuto di mangiare carne a seguito di una visione di sangue, in un bosco oscuro, con le foglie aguzze sugli alberi e i piedi scalzi e feriti. 
Sembra una stranezza innocua, magari transitoria, non più grave del rifiuto di indossare il reggiseno. Invece diventa una scelta integralista, che il marito di Yeong-hye racconta in prima persona in “La vegetariana” titolo della prima parte e di tutto il romanzo, non nascondendo lo sconcerto e l’irritazione per i comportamenti di questa moglie insignificante e ostinata: quella del marito della giovane è una stizza che lievita e che è supportata dalla famiglia di lei, in particolare dal padre, che tenta di affermare la sua autorità tra preoccupazione genitoriale e reazioni violente di fronte al categorico rifiuto della figlia di mangiare carne. Yeong-hye intende far rispettare a tutti quelli che la circondano la sua scelta verso il vegetarianesimo, a costo di allontanarsi da tutti. 
Nel secondo atto, intitolato “La macchia mongolica”, la parola passa al cognato della vegetariana: l’uomo, sposato con la sorella maggiore di Yeong-hye, è un artista che attraversa un periodo di inattività, risvegliato dall’ispirazione che gli viene dalla vista sul corpo di Yeong-hye di una macchia mongolica, detta anche "macchia blu della Mongolia", una voglia di colore bluastro che in genere compare nella zona lombosacrale: quella macchia diventa pistillo di un fiore che l’uomo disegnerà sul corpo nudo della cognata, facendo di lei un’istallazione vivente. Nello stesso tempo l’uomo subisce una forma di attrazione fatale per la donna, che appare ai suoi occhi profondamente diversa da come la descrive il marito, ormai ex. I due parlano un linguaggio loro, veicolato dalla body art, che li vede uniti in amplessi famelici, quando anche l’uomo si sarà fatto dipingere il corpo per potersi unire a lei. 
La terza parte, “Fiamme verdi”, alla quale si arriva con il precipitare degli eventi narrati nella seconda parte, ha come voce narrante quella di In-hye, la sorella della protagonista, che si fa carico, con rassegnazione, della malattia psichiatrica che ormai ha ridotto Yeong-hye a un vegetale, convinto di poter essere una pianta che ha bisogno dell’acqua e di null’altro. 
Immagini crude accompagnano il racconto di In-hye, in un crescendo di disperazione che stringe il lettore in una spirale di dolore per cui è impossibile restare indifferenti. 
L’Autrice seziona i legami familiari, che sembrano all’origine del malessere della vegetariana, che soffre della brutalità del mondo, quella durezza che consiste anche nell’autoritarismo del padre e nell’indifferenza del marito. La protagonista passa dalla presa di coscienza della natura umana, istintivamente violenta e sanguigna, al volersi estraniare fino a diventare pianta e aria, inconsistente e senza sangue, attraverso il rifiuto della carne, fino a qualunque tipo di cibo, in un vortice devastante. 
È un libro molto duro, che tratta un argomento che Han Kang aveva già iniziato a esplorare nel 1997 in una storia, “Il frutto della mia donna”, che racconta di una donna che si trasforma in una pianta di cui il marito sceglie di prendersi cura: sentendo di non aver esaurito il tema, l’Autrice lo affronta nuovamente con questo romanzo, uscito in Corea nel 2007 e pubblicato lo scorso anno da Adelphi, in Italia, tornando alla ribalta come caso letterario, insignito del Man Booker International Prize per la narrativa 2016. 
Lo stile di Han Kang è lineare, ricco di dialoghi e descrizioni. A parlare, anche dei propri pensieri in lunghe sequenze introspettive, sono i personaggi che circondano la protagonista, la cui voce è riservata alle parti in corsivo nel primo atto, in cui Yeong-hye parla delle circostanze in cui le sue scelte -che appaiono alla sua famiglia tanto stravaganti- sono maturate, dei sogni angosciosi, della sua incapacità di comprendere l’incapacità di comprendere del marito. 
Per conoscere meglio l’Autrice e la storia di questo romanzo, consiglio questa videointervista dal portale letteratura.rai.it.  


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La vegetariana 
Autore: Han Kang 
Traduttore: Milena Zemira Ciccimarra 
Dati: 2016, 177 p., brossura 
Editore: Adelphi 
Prezzo: € 18,00 
Giudizio su Goodreads: 5 stelline

martedì 14 marzo 2017

Ultime letture con #LeggoNobel

È decisamente un periodo strano questo, denso senz’altro di letture delle quali non ho il tempo di parlare. Lo faccio per i libri letti con #LeggoNobel in un post collettivo, come ho fatto altre volte in cui ho riunito le impressioni tratte da più letture che si sono avvicendate – anche in contemporanea- in un lasso di tempo relativamente breve. 
Mi riservo invece di scrivere prossimamente in maniera più approfondita di due letture in particolare che mi hanno colpito nel profondo, La vegetariana della scrittrice coreana Han Kang (Adelphi, 2016) e La vita sconosciuta di Crocifisso Dentello (La nave di Teseo, 2017), mentre di Sono cose da grandi, lunga lettera che Simona Sparaco scrive al figlio di quattro anni, indagando le ragioni dei propri timori di mamma e delle speranze per il futuro del piccolo Diego (Einaudi, 2017) spero di parlare presto su lostruzzoascuola.it

Con il gruppo #LeggoNobel negli ultimi mesi abbiamo incontrato due autori, molto distanti nel tempo e nello spazio. La lettura che, in social condivisione con gli Scratchreaders su Facebook, ci ha impegnato tra gennaio e febbraio è stata Furore di John Steinbeck. 
La storia della famiglia Joad, costretta a lasciare la propria terra per raggiungere un paradiso più immaginato e sognato che effettivamente incontrato, in California, è la stessa di altri disperati, vittime di quella particolare congiuntura economica e sociale che vide tante famiglie americane precipitare nell’indigenza più nera, negli anni della Grande Depressione. 
Ai capitoli dove i Joad e le loro disavventure sono assoluti protagonisti, si alternano i passi corali, dove il paesaggio diventa personaggio e la varia umanità parla con voce unanime. In modo particolare sono stata colpita dal capitolo 15, dove quasi è possibile visualizzare il tipico locale americano dove ci si ferma per il breakfast: la lunga parentesi all'interno di un locale della Route 66, con Mae, o Minnie, o Susy, che serve caffè e torta alla crema di banane, mi ha conquistato, facendomi tornare in mente la Holt della trilogia della pianura di Kent Haruf. Ma potrei ricordare molti altri passaggi che hanno reso la lettura appassionante. 
I personaggi disegnati da Steinbeck sono potenti, soprattutto Ma' e forse un po' tutte le donne che, anche quando piagnucolanti come sua figlia Roseharn, poi sono capaci di grandi gesti coraggiosi, fino ad arrivare a finali inaspettati che lasciano il lettore spiazzato. 
Anche in questo caso è stato un felice ritrovare lo scrittore già apprezzato da ragazza quando lessi La valle dell’Eden, scovato nella ricca biblioteca di mia zia e letto nei lunghi pomeriggi roventi dell’estate salentina, molti anni fa. 

Il secondo autore letto con gli amici che seguono il gruppo di lettura dedicato ai premi Nobel per la Letteratura è stato Dario Fo, primo tra i Nobel italiani che abbiamo scelto, anche per omaggiarlo a pochi mesi dalla scomparsa. Per scelta di Valentina Accardi e mia, il progetto #LeggoNobel previlegia gli scrittori in prosa, lasciando quindi da parte quelli che si sono distinti per la poesia, il teatro e la saggistica (motivo per il quale sono esclusi, almeno per ora, Giosuè Carducci, Eugenio Montale e Salvatore Quasimodo, tra gli italiani); tuttavia Dario Fo, pur essendo conosciuto soprattutto per aver scritto e portato in scena testi teatrali, ha scritto anche romanzi. Tra questi la preferenza è caduta su Razza di zingaro (Chiarelettere, 2016), la storia di Johann Trollmann, pugile sinti nella Germania nazista, campione del mondo dei mediomassimi a cui verrà negato il titolo perché è uno zingaro. Il titolo sarà poi restituito ai suoi familiari sopravvissuti, molti anni dopo la sua morte in un campo di concentramento, ma di questo epilogo non c’è traccia nel romanzo di Fo, come di tanti altri aspetti rigorosamente storici. Viceversa il racconto è molto immaginato nei dialoghi, che occupano sequenze importanti per la maggior parte del testo, molto sceneggiato in uno stile fin troppo semplice. Dario Fo racconta come se stesse sul palco e in questa sua caratteristica mi ha fatto tornare in mente la biografia umana e artistica di Maria Callas, portata in scena con Paola Cortellesi in quello che credo sia stato il suo ultimo spettacolo, Callas scritto con Franca Rame; ma a teatro è un'altra cosa, c’è la presenza scenica, la mimica, la voce in tutte le sue variazioni. Forse il mio giudizio, non particolarmente entusiasta, è influenzato dalla lettura di Alla fine di ogni cosa di Mauro Garofalo, ricostruzione fedele della drammatica storia di Rukeli. Ho apprezzato molto invece le tavole, i dipinti di Fo, e l'edizione Chiarelettere particolarmente pregiata.
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Razza di zingaro
Autore: Dario Fo
Dati: 2016, 160 p., brossura 
Editore: Chiarelettere
a c. di Chiara Porro e Jacopo Zerbo
Prezzo: € 16,90 
Giudizio su Goodreads: 3 stelline 

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Furore
Autore: John Steinback
Traduttore: Sergio C. Perroni
Dati: 1940/2016, 637 p., brossura 
Editore: Bompiani (collana Classici Contemporanei Bompiani) 
Prezzo: € 14,00 
Giudizio su Goodreads: 5 stelline