venerdì 28 ottobre 2016

"Le jardin du nord" di Alessio Viola

 
Photo Alessio Viola. Canton

Prima di partire il nome circolò come un sussurro fra clandestini, cospiratori in procinto di imbarcarsi per la Cina. Le jardin du nord. I veterani della Cina te lo trasmettevano con pizzini delicati su carta di riso. Se andavi a Canton ci dovevi passare. Non era per tutti, nell’autunno del 1979. Luogo deputato per dirigenti di partito e per gli amici che arrivavano da lontano, partiti fratelli o associazioni di amicizia: di industriali commercianti trafficanti vari nemmeno l’ombra, al tempo. Arrivavi a Canton su un treno da Hong Kong, ti lasciavi alle spalle grattacieli miliardari e masse brulicanti di miseria, in quella stazione ti accoglievano le guardie con le mostrine rosse senza gradi, e i sorrisi dei contadini accampati per chissà quali viaggi. Jardin du nord, sussurrato subito alla reception di un albergo solo per stranieri, il receptionist ha un sobbalzo, cerca con lo sguardo quello dell’interprete-accompagnatore-commissario politico del gruppo di italiani. Un cenno del capo consente all’uomo del banco dei sogni di avviare le operazioni di prenotazione. Sarà per la prossima sera, la seconda ed ultima a Canton. Il capo dice a bassa voce che ci accompagnano ma non possono fermarsi a cena con noi, il prezzo era oltre ogni misura possibile per loro, ci sarebbero volute almeno due interpeti di italiano oltre lui. Ovviamente fu travolto da una serie di pacche sulle spalle e di cori d’incoraggiamento… lo stipendio di un funzionario equivaleva al costo di un pranzo in un ristorante medio italiano. Sarebbero stati nostri ospiti, chiaro. Il giorno dopo Incontri di partito, visite alle comuni agricole, alle università… va bene sì, ma il pensiero del gruppo era al jardin. La potenza del racconto era a quel tempo ancora l’unico incentivo a scegliere un luogo un percorso un’esperienza. Non potevi confrontare la narrazione con i post sui social, niente foto o gif, ti dovevi fidare di quello che ti trasmetteva il passaparola politico viveur. E i racconti ascoltati a Roma promettevano. Macchinoni scuri ci aspettavano fuori dall’albergo. Al primo interprete se ne erano aggiunte altre due, compagne del partito con il compito di facilitarci la comunicazione. Canton di notte non era quella di oggi. Silenzio, buio, rare automobili, guardie discrete ai crocevia più importanti. Fine novembre, ma a quella latitudine l’autunno è dolce, profumato di pioggia leggera e ancora tiepida, pareva di attraversare strade innaffiate di questi profumi. Stradine strette, lampioni rossi, gialli, bianchi a indicare vicoli e luoghi, specificati da scritte incomprensibili. L’inglese non esisteva come segnaletica bilingue, era una conquista ancora da raggiungere. Traffico quasi zero, erano solo le otto di sera. La certezza assoluta che se ti perdevi eri sparito per sempre. Il piccolo corteo di auto scure si fermò davanti ad una porta in pietra senza targhe o insegne, solo una lanterna rossa, citazione a sua insaputa. Nessuno all’ingresso. All’angolo dell’isolato, una macchina ferma, scura naturalmente, poteva essere vota o piena di poliziotti, vai a sapere. Il nostro capo guida ci fece strada. Come attraversare la porta di Corte Sconta, ti lasci dietro un mondo ed entri in un altro. 

Un giardino brillante di luci piccole, disseminate ovunque, alberi su torrenti leggeri e stretti, ponti di legno laccati di rosso, una musica lontana, voci sussurrate da tavoli semi nascosti sotto padiglioni di legno colorato e tegole rosse, personale silenzioso e delicato, scorrevano lungo i tavoli e sembravano quasi scivolare senza muovere le gambe. Colori. Azzurro intenso, rosso lacca, giallo brillante, verde smeraldo, ogni suppellettile ogni arredo era decorato ed abbellito da piccole sculture in avorio, giada, perfino sughero intagliato e ricamato come merletto. A bocca aperta, tutti, comprese le guide interpeti. Non capita tutti i giorni di prepararsi a cenare in un sogno. 

Seduti, i nostri amici spiegavano cose che non avremmo mai capito, sulla storia e la tradizione di quello che ci veniva presentato, il menu della serata. Non un foglio o una pergamena, ma un cuoco vestito come un principe gentile, delicato, che spiegava e attendeva paziente le traduzioni. Ragazze stupende in giacche ricamate con sorrisi da farti innamorare all’istante ci porgevano vassoi colmi di sete colorate profumate e calde, prima di cena, perché le mani e il viso fossero all’altezza di quello che ci avrebbero servito. Poi si materializzò sui tavoli un mescolio di colori e sapori, le composizioni di piatti che non osavi spezzare con le bacchette di avorio che ti erano state assegnate. Sapori da spazzare via ogni memoria mediterranea e occidentale. 

Spezie e profumi da ortaggi e verdure da far impazzire un vegano integralista per la follia creativa con cui erano state approntate. Sculture policrome di prodotti della terra che facevano apparire i gioielli cosa triste e dozzinale. Avevi paura a toccarle, spezzarne la forma e la magia per mangiarli. Il palato stimolato aggredito accarezzato da sensazioni mai provate. Il solo pensare a questo verbo ti faceva sentire volgare. E un cuoco che arriva al tavolo e da una palla di pasta bianca tira su con le mani con l’abilità di un illusionista degli spaghetti di riso che poi vengono cotti accanto al tavolo. Capisci che sono loro ad averli inventati, nessun altro potrebbe creare gli spaghetti così, dal vivo. E bocconcini croccanti di cane in agrodolce da far impazzire per la delicatezza, nessuno che osasse mandarli indietro, profumo ed aspetto da soli ti facevano diventare un selvaggio; e la zuppa dei tre serpenti piccante come un peccato inconfessabile da commettere in quei giardini, le carni bianche dei rettili ammorbidite e fasciate da un brodo denso e ambrato, inebriante e da far sudare per la forza del piccante; e l’anatra laccata da condire con mille possibili salse, prima la pelle croccante fatta a dadini, poi le carni tinteggiate di rosso scuro da salse alla frutta, agrumi e bosco mescolati; e lumache e pesci di fiume sommersi di frutta cruda da trasformare tutto in una dolcezza ittica impossibile perfino da immaginare; e gamberi di ogni taglia fritti in pastelle profumate, diverse e più delicate di quelle che avvolgevano rane delicatissime, croccanti, da mangiare senza sforzi per la croccantezza, gamberi in coppe azzurre trasparenti e salse di un giallo leggero che davano al tutto un tono smeraldesco di colori mescolati. 

Gli alberi facevano il loro suono da programma, frusciavano e scuotevano profumi nell’aria, muovevano i rami e scuotevano nell’aria fiori e pollini come se ci fosse una regia attenta a quella distribuzione. Le ragazze ai tavoli, e le nostre interpreti, sorridevano di sorrisi che la gioconda sembrava una povera contadina, il the servito per tutto il pasto, insieme a birre profumate e vini decenti, non si può essere perfetti in tutto, girarono velocemente, le porzioni non erano mai abbondanti, ti lasciavano una sensazione di curiosità e stimolo per quello che sarebbe venuto dopo. I dolci poi. Prima del diabete tutto era possibile. Dolci da allucinazione lisergica, scolpiti a forma di animali di dragoni di bestie favolose, ricami miniaturizzati di animali e fiori creati con creme sfoglie dolci di riso miele di ogni tipo, era davvero difficile romperli a mangiarli, ti sentivi in colpa per quel delitto. Erano da ammirare e andare in estasi. Per questo arrivarono in sostegno e conforto i liquori. Di riso e di cereali, di frutta, aspri e di erbe di chissà cosa, che scendevano come vino bianco ghiacciato. E il mau tai, il colpo finale ad ogni grasso depositato, una vera acqua santa che neanche a Lourdes. Profumo che ti assaliva a tradimento e fermava il bicchiere a mezz’aria, un liquore che sembrava estratto di calzini sporchi distillati da farne un digestivo oltre ogni limite della sopportazione. 

Appagati, il senso diffuso tra tutti era questo. Conoscemmo la beatitudine, e gli ovvi raffronti con altre beatitudini del corpo sono dunque evitabili. La guida e le interpreti abbassarono lo sguardo al momento del conto, noi ci sentimmo tutti in colpa per le certezze di quella sera: probabilmente non avremmo mai più cenato in quel luogo. Loro sicuramente. Il mattino dopo dovevamo alzarci presto per il programma del viaggio. I saluti non furono all’altezza della cena, un rimpianto mai sopito. Le ragazze si allontanarono come Shangai Lil alla fine della storia mai vissuta con corto Maltese. Bellissime leggere giovani irreali. Della materia dei sogni. 

Nessuno di noi dormì quella notte, non si interrompe un sogno dormendo. 

 ©AlessioViola

Soundtrack: David Bowie, "China girl"

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