venerdì 28 ottobre 2016

"Le jardin du nord" di Alessio Viola

 
Photo Alessio Viola. Canton

Prima di partire il nome circolò come un sussurro fra clandestini, cospiratori in procinto di imbarcarsi per la Cina. Le jardin du nord. I veterani della Cina te lo trasmettevano con pizzini delicati su carta di riso. Se andavi a Canton ci dovevi passare. Non era per tutti, nell’autunno del 1979. Luogo deputato per dirigenti di partito e per gli amici che arrivavano da lontano, partiti fratelli o associazioni di amicizia: di industriali commercianti trafficanti vari nemmeno l’ombra, al tempo. Arrivavi a Canton su un treno da Hong Kong, ti lasciavi alle spalle grattacieli miliardari e masse brulicanti di miseria, in quella stazione ti accoglievano le guardie con le mostrine rosse senza gradi, e i sorrisi dei contadini accampati per chissà quali viaggi. Jardin du nord, sussurrato subito alla reception di un albergo solo per stranieri, il receptionist ha un sobbalzo, cerca con lo sguardo quello dell’interprete-accompagnatore-commissario politico del gruppo di italiani. Un cenno del capo consente all’uomo del banco dei sogni di avviare le operazioni di prenotazione. Sarà per la prossima sera, la seconda ed ultima a Canton. Il capo dice a bassa voce che ci accompagnano ma non possono fermarsi a cena con noi, il prezzo era oltre ogni misura possibile per loro, ci sarebbero volute almeno due interpeti di italiano oltre lui. Ovviamente fu travolto da una serie di pacche sulle spalle e di cori d’incoraggiamento… lo stipendio di un funzionario equivaleva al costo di un pranzo in un ristorante medio italiano. Sarebbero stati nostri ospiti, chiaro. Il giorno dopo Incontri di partito, visite alle comuni agricole, alle università… va bene sì, ma il pensiero del gruppo era al jardin. La potenza del racconto era a quel tempo ancora l’unico incentivo a scegliere un luogo un percorso un’esperienza. Non potevi confrontare la narrazione con i post sui social, niente foto o gif, ti dovevi fidare di quello che ti trasmetteva il passaparola politico viveur. E i racconti ascoltati a Roma promettevano. Macchinoni scuri ci aspettavano fuori dall’albergo. Al primo interprete se ne erano aggiunte altre due, compagne del partito con il compito di facilitarci la comunicazione. Canton di notte non era quella di oggi. Silenzio, buio, rare automobili, guardie discrete ai crocevia più importanti. Fine novembre, ma a quella latitudine l’autunno è dolce, profumato di pioggia leggera e ancora tiepida, pareva di attraversare strade innaffiate di questi profumi. Stradine strette, lampioni rossi, gialli, bianchi a indicare vicoli e luoghi, specificati da scritte incomprensibili. L’inglese non esisteva come segnaletica bilingue, era una conquista ancora da raggiungere. Traffico quasi zero, erano solo le otto di sera. La certezza assoluta che se ti perdevi eri sparito per sempre. Il piccolo corteo di auto scure si fermò davanti ad una porta in pietra senza targhe o insegne, solo una lanterna rossa, citazione a sua insaputa. Nessuno all’ingresso. All’angolo dell’isolato, una macchina ferma, scura naturalmente, poteva essere vota o piena di poliziotti, vai a sapere. Il nostro capo guida ci fece strada. Come attraversare la porta di Corte Sconta, ti lasci dietro un mondo ed entri in un altro. 

Un giardino brillante di luci piccole, disseminate ovunque, alberi su torrenti leggeri e stretti, ponti di legno laccati di rosso, una musica lontana, voci sussurrate da tavoli semi nascosti sotto padiglioni di legno colorato e tegole rosse, personale silenzioso e delicato, scorrevano lungo i tavoli e sembravano quasi scivolare senza muovere le gambe. Colori. Azzurro intenso, rosso lacca, giallo brillante, verde smeraldo, ogni suppellettile ogni arredo era decorato ed abbellito da piccole sculture in avorio, giada, perfino sughero intagliato e ricamato come merletto. A bocca aperta, tutti, comprese le guide interpeti. Non capita tutti i giorni di prepararsi a cenare in un sogno. 

Seduti, i nostri amici spiegavano cose che non avremmo mai capito, sulla storia e la tradizione di quello che ci veniva presentato, il menu della serata. Non un foglio o una pergamena, ma un cuoco vestito come un principe gentile, delicato, che spiegava e attendeva paziente le traduzioni. Ragazze stupende in giacche ricamate con sorrisi da farti innamorare all’istante ci porgevano vassoi colmi di sete colorate profumate e calde, prima di cena, perché le mani e il viso fossero all’altezza di quello che ci avrebbero servito. Poi si materializzò sui tavoli un mescolio di colori e sapori, le composizioni di piatti che non osavi spezzare con le bacchette di avorio che ti erano state assegnate. Sapori da spazzare via ogni memoria mediterranea e occidentale. 

Spezie e profumi da ortaggi e verdure da far impazzire un vegano integralista per la follia creativa con cui erano state approntate. Sculture policrome di prodotti della terra che facevano apparire i gioielli cosa triste e dozzinale. Avevi paura a toccarle, spezzarne la forma e la magia per mangiarli. Il palato stimolato aggredito accarezzato da sensazioni mai provate. Il solo pensare a questo verbo ti faceva sentire volgare. E un cuoco che arriva al tavolo e da una palla di pasta bianca tira su con le mani con l’abilità di un illusionista degli spaghetti di riso che poi vengono cotti accanto al tavolo. Capisci che sono loro ad averli inventati, nessun altro potrebbe creare gli spaghetti così, dal vivo. E bocconcini croccanti di cane in agrodolce da far impazzire per la delicatezza, nessuno che osasse mandarli indietro, profumo ed aspetto da soli ti facevano diventare un selvaggio; e la zuppa dei tre serpenti piccante come un peccato inconfessabile da commettere in quei giardini, le carni bianche dei rettili ammorbidite e fasciate da un brodo denso e ambrato, inebriante e da far sudare per la forza del piccante; e l’anatra laccata da condire con mille possibili salse, prima la pelle croccante fatta a dadini, poi le carni tinteggiate di rosso scuro da salse alla frutta, agrumi e bosco mescolati; e lumache e pesci di fiume sommersi di frutta cruda da trasformare tutto in una dolcezza ittica impossibile perfino da immaginare; e gamberi di ogni taglia fritti in pastelle profumate, diverse e più delicate di quelle che avvolgevano rane delicatissime, croccanti, da mangiare senza sforzi per la croccantezza, gamberi in coppe azzurre trasparenti e salse di un giallo leggero che davano al tutto un tono smeraldesco di colori mescolati. 

Gli alberi facevano il loro suono da programma, frusciavano e scuotevano profumi nell’aria, muovevano i rami e scuotevano nell’aria fiori e pollini come se ci fosse una regia attenta a quella distribuzione. Le ragazze ai tavoli, e le nostre interpreti, sorridevano di sorrisi che la gioconda sembrava una povera contadina, il the servito per tutto il pasto, insieme a birre profumate e vini decenti, non si può essere perfetti in tutto, girarono velocemente, le porzioni non erano mai abbondanti, ti lasciavano una sensazione di curiosità e stimolo per quello che sarebbe venuto dopo. I dolci poi. Prima del diabete tutto era possibile. Dolci da allucinazione lisergica, scolpiti a forma di animali di dragoni di bestie favolose, ricami miniaturizzati di animali e fiori creati con creme sfoglie dolci di riso miele di ogni tipo, era davvero difficile romperli a mangiarli, ti sentivi in colpa per quel delitto. Erano da ammirare e andare in estasi. Per questo arrivarono in sostegno e conforto i liquori. Di riso e di cereali, di frutta, aspri e di erbe di chissà cosa, che scendevano come vino bianco ghiacciato. E il mau tai, il colpo finale ad ogni grasso depositato, una vera acqua santa che neanche a Lourdes. Profumo che ti assaliva a tradimento e fermava il bicchiere a mezz’aria, un liquore che sembrava estratto di calzini sporchi distillati da farne un digestivo oltre ogni limite della sopportazione. 

Appagati, il senso diffuso tra tutti era questo. Conoscemmo la beatitudine, e gli ovvi raffronti con altre beatitudini del corpo sono dunque evitabili. La guida e le interpreti abbassarono lo sguardo al momento del conto, noi ci sentimmo tutti in colpa per le certezze di quella sera: probabilmente non avremmo mai più cenato in quel luogo. Loro sicuramente. Il mattino dopo dovevamo alzarci presto per il programma del viaggio. I saluti non furono all’altezza della cena, un rimpianto mai sopito. Le ragazze si allontanarono come Shangai Lil alla fine della storia mai vissuta con corto Maltese. Bellissime leggere giovani irreali. Della materia dei sogni. 

Nessuno di noi dormì quella notte, non si interrompe un sogno dormendo. 

 ©AlessioViola

Soundtrack: David Bowie, "China girl"

mercoledì 19 ottobre 2016

"Rayuela. Il gioco del mondo" di Julio Cortázar

Non può essere che siamo qui per non poter essere 
[…] 
Sono io, sono lui. 
Siamo, però sono io, 
prima di tutto sono io, 
difenderò il mio essere io fino a che non ne potrò più. 

 «Cortázar è il migliore», ha detto Roberto Bolaño. Così è riportato sulla quarta di copertina dell’edizione Einaudi di “Rayuela. Il gioco del mondo”, definito anche «contro-romanzo», «cronaca di una follia», «il buco nero di un enorme imbuto», «un grido di allerta”, «una specie di bomba atomica», «un appello al disordine necessario», al suo apparire nel 1963. 
Leggere questo romanzo (o contro-romanzo, visto che qualunque distinzione tra un prima e un dopo, una fabula vs un intreccio, qualsiasi connessione logica di causa-effetto saltano, quindi non ha senso una definizione tradizionale che incaselli quest’opera in un genere letterario) è stata una sfida, lanciata dal gruppo degli Scratchreaders di Maria Di Biase. 
In che modo avremmo potuto leggere “Rayuela”? A suggerirlo è lo stesso Cortázar, nella tavola di orientamento in apertura, ed è in parte la strada che abbiamo seguito nel gruppo: potevamo scegliere la lettura tradizionale (gruppo #famolotradizionale) che prevedeva di arrivare al cap. 56 per fermarsi quindi poco oltre la metà, ai tre asterischi che ne delimitano la fine, oppure scegliere l’ordine indicato dall’Autore (gruppo #famolospeciale), a partire dal cap. 73 e poi saltando e seguendo le indicazioni numeriche alla fine di ogni capitolo, come in un gioco dell’oca dove tiri i dadi e non sai di volta in volta a che casella finirai. Infine una terza strada era quella che a Cortázar sarebbe piaciuta moltissimo, la lettura assolutamente anarchica, sotto la sola responsabilità del lettore che poteva ordinare i capitoli secondo l’estro del momento (gruppo #famolocomecepare).
Inutile dire che ho scelto la lettura tradizionale, forse per la paura di andare incontro a qualcosa di troppo grande, in cui facilmente mi sarei persa, e mi è sembrato che optare per la strada apparentemente più semplice fosse in qualche modo rassicurante. Ovviamente mi sbagliavo, nel senso che non so se scegliere qualunque altro percorso avrebbe reso tanto più difficile l’orientarsi in una storia che è indefinibile, impossibile da sintetizzare, complessa e affascinante allo stesso tempo. Ho fatto fatica in certi momenti, per la storia, per la lingua, le parole, lo stile (paradigmatico il cap. 34, che ho capito come leggere solo alla fine della prima pagina, quando ho capito che Cortázar ha giocato continuamente con il lettore): una menzione speciale va a chi ha tradotto il testo, Flaviarosa Nicoletti Rossini, perfettamente entrata nel gioco del mondo, portavoce sensibile e preparata a intercettare i sentimenti dell’autore e a renderli vividi e incisivi per il piacere del lettore, soprattutto in certi brani da brivido, come quello che occupa tutto il cap. 7, quello del bacio,  "Toco tu boca"

Photo Elena Tamborrino
Purtroppo la lettura di “Rayuela” è partita in concomitanza con l’inizio del terzo volume della Recherche di Proust (iniziativa curata da un sottogruppo, nato da una costola dello stesso gruppo Scratchreaders) e questo si è rivelato deleterio per chi ha voluto cimentarsi in entrambe le imprese, almeno si è rivelato tale per me. Come a volte succede, leggere contemporaneamente volumi di peso -non solo fisico, ma anche-, ha come conseguenza che si leggano male tutti. E nello specifico i due volumi in questione non aiutavano, essendo “La parte di Guermantes” forse il libro più noioso della monumentale opera di Proust, e “Rayuela” il libro più strano che possa capitare di leggere, quello che ti fa desiderare di leggere al suo posto una bella storia lineare, dove accadono fatti comprensibili ai comuni mortali, dove il sistema dei personaggi è chiaro, dove la voce narrante si distingue.
Invece sono entrata in una centrifuga, mi sono fatta sballottolare nel cestello della lavatrice, mi sono fatta sbattere dalle fruste elettriche, neanche fossi una maionese impazzita. Ecco. Mi sono fermata al cap.56, secondo l’indicazione di Cortázar che definisce il resto del libro “Da altre parti (capitoli dei quali si più fare a meno)” e non ho neanche letto l’appendice con un’intervista all’Autore che spiega “l’invenzione sfrenata” di “Rayuela”, né la selezioni di frammenti di lettere di Julio Cortázar in cui si parla del libro. Non escludo di risalire sulla giostra più in là, magari sperimentando uno dei metodi alternativi suggeriti dallo stesso Autore, oppure riprendendo dal punto in cui mi sono fermata: questo è consentito al lettore che fa come gli pare. 


Photo HelenTambo on Instagram
Rayuela. Il gioco del mondo 
Autore: Julio Cortázar 
Traduz: Flaviarosa Nicoletti Rossini 
Dati: 2013, 633 p., brossura; 
Editore: Einaudi (collana Super ET); 
Prezzo: € 15,50 
Giudizio su Goodreads: np (aspetto di finirlo, un giorno)

venerdì 14 ottobre 2016

"Nebula" di Piergiorgio Pulixi



C’è stato un tempo in cui le cose tra noi erano molto diverse. Prima dei silenzi. Prima che ci ignorassimo a vicenda come se non fossimo mai esistiti, come se non ci fossimo lasciati dietro nulla di noi. Quello sì che era un bel periodo. Non lo ammetterò mai, ma solo in quei momenti mi sono sentita viva. Le notti avevano un senso. Adesso, non vedo l’ora che si consumino. 
   Non so bene quando sia finita, né tantomeno perché. È una domanda che brucia nel segreto della mia anima. A lui l’ho fatta diverse volte, ma non mi ha mai risposto. Alla fine non ha replicato più a nessuno dei miei messaggi e dopo qualche mese non ho più insistito. Ho abbracciato l’idea che le cose finiscono senza un perché. Non è stato facile. All’inizio non concepivo un addio così violento, senza spiegazioni. Un addio immotivato è come un pugno a tradimento. Come una canzone bellissima interrotta a metà. Un addio è peggio di un adulterio. Non lo puoi accettare. È qualcosa che lascia una cicatrice viva, non rimarginabile. E la ricerca di una possibile causa è sale che getti nella carne lacerata. Più domande ti poni, e più svelli la ferita. Più i dubbi ti raschiano il cuore, e più è difficile elaborare la perdita. Tanto vale smetterla di cercare risposte. Mettere in pratica questo proposito non è così semplice. Soprattutto se la persona a cui ti eri data aveva esclusivo dominio del tuo cuore. Come lui. 
   In bocca avverto l’aroma della sigaretta fondersi con il gusto del caffè in una miscela sensoriale sublime. Forse è stato questo sapore a mettermi addosso questa folle voglia di lui. Mi ha riportata ai nostri caffè bevuti sdraiati sul letto, fumando con le persiane aperte, lasciando che la notte ci asciugasse l’amore dalla pelle. 
   Strizzo gli occhi. Devo darmi un limite. Devo tracciare una linea da non oltrepassare perché sento che sto perdendo me stessa. Sto scivolando giù. Nel gorgo dei ricordi. Nel buio. E questo è pericoloso. Molto pericoloso. 
   Pensa ad altro, mi dico. Ma qualcosa dentro di me vi si oppone. Non è nemmeno una sensazione; più una vertigine. Un richiamo, quasi. Così mi siedo davanti al computer ed entro su Facebook. Accedo al mio profilo. Ho tolto nome e cognome, ho scelto un nickname: Nebula. È la mia identità virtuale. 
   Corro subito ai messaggi privati. Sorrido scorrendo ciò che mi ha scritto. Sì, lui
   Nessuna lo conosce meglio di me. So come pensa, cosa desidera, come vuole essere leccato, cosa vuole sentirsi dire. Per questo dopo aver lasciato passare qualche settimana dopo il suo addio ho creato questo profilo. È bastato chiedere l’amicizia a qualche amico comune e poi ha abboccato. È stato lui a inoltrarmi la richiesta, attirato dalla mia immagine di profilo esca. Ovviamente non ho accettato subito: l’ho fatto sudare, l’ho tenuto sulle spine. Mi ha scritto in privato sollecitando una risposta. Dopo qualche giorno l’ho accontentato. Ci siamo scambiati qualche messaggio in cui mi ha corteggiata spudoratamente ma con quel suo modo simpatico e carino. All’inizio, quando gli scrivevo piangevo. Mi sentivo umiliata. Lui non stava chattando con me, ma con una proiezione dei propri desideri. Le immagini che scorreva non erano le mie, ma quelle di una studentessa universitaria canadese a cui le avevo rubate. Nebula è la quintessenza delle sue fantasie, dei suoi istinti più viscerali. Ma Nebula non esiste. Nebula è l’unico modo che ho per stargli vicino, per avere ancora qualcosa di suo, anche solo un surrogato velenoso di un sogno che non può realizzarsi. Qualcuno potrebbe dire che si tratta di un gioco pericoloso. Forse. Ma è l’unico che mi è rimasto da giocare. 
   -Oddio quanto vorrei incontrarti. Quanto vorrei poterti abbracciare… - scrive. 
   Chiudo gli occhi e la casa si popola di ricordi. Sfilano intorno a me come fantasmi. Avevo smesso di chiedermi cosa avessi sbagliato; ma ora quell’interrogativo torna a scassinarmi il cuore. Perché? Eravamo così felici, stavamo così bene… Perché? 
   Vorrei scriverglielo. Vorrei chiederglielo. Vorrei sapere quali sono state le meccaniche della disaffezione e cosa le ha messe in moto. Ma non otterrei altro che una sua fuga, ne sono certa. Meglio stare zitta. Meglio far finta che Nebula sia la mia sola e unica identità. 
   -Incontriamoci, ti prego – scrive. 
   Un senso di ebbrezza mi assale quando leggo quelle parole. Sarebbe facile dirgli di sì. Sarebbe un sollievo perché ho fame di lui, di tutte le sensazioni che mi potrebbe dare. È il nutrimento emotivo di cui ho bisogno per sanare l’anoressia del mio cuore. 
   -Ho paura di non reggere il confronto con l’idea che ti sei fatto di me – scrivo. – Ho paura che ti sia fatto aspettative troppo grandi nei miei confronti… sto bene con te, e mi sono affezionata. Non vorrei perderti -. 
   - Non mi perderai. Vedrai che sarà bellissimo, ne sono certo -. 
   Digli di no. 
   Digli che è ancora troppo presto, che non te la senti. 
   Vorrei assecondare la mia coscienza perché so che ha ragione. 
   Ma non ce la faccio. 
   - Va bene – scrivo. – Incontriamoci
   Osservo il mio riflesso sul vetro della metro. Sotto il cappuccio che mi copre il capo vedo le ciocche di capelli decolorati. Ho cambiato colore stamattina. Anche il piercing sulle labbra è fresco. L’ho fatto per lui. Per assomigliare il più possibile a quella immagine rubata da internet; all’idea che si è fatto di Nebula.    
   Sono eccitata come mai prima, come se stessi per riconquistare qualcosa di così dolorosamente agognato. Non mi sembra vero. Sono una persona diversa ora, sono certa che se ne accorgerà. Le porte si aprono. Mi faccio strada tra la massa di pendolari. Raggiungo la scala mobile in una sorta di ondeggiante incoscienza, come se le mie gambe si muovessero da sole. Sono fuori, finalmente. Respiro l’aria della sera a pieni polmoni e cammino verso il parcheggio dove ci siamo dati appuntamento.  
   “Stai calma” mi dico. “Ti stai agitando troppo… Calma”. 
    Eccolo. Lo vedo, sotto il lampione. Affondo le mani nel tascone della felpa e abbasso lo sguardo come se avessi paura di guardare in faccia la realtà. Lo sto facendo davvero… sto per incontrarlo di nuovo e non è un sogno. 
   Ci dividono pochi metri. Continuo a camminare con lo sguardo rivolto a terra, il cappuccio che mi nasconde il viso, sottraendomi alla me che lo fece scappare.  
    «Ehi…» dici. 
   La tua voce è calda come lo scirocco estivo. Non mi ricordavo che fosse così profonda. Mi provoca un brivido. 
   «Non mi guardi?» dici con un sorriso. 
   “Fallo” mi dico. 
   Tolgo via il cappuccio e lo fisso finalmente negli occhi. «Ciao» sussurro. 
   Il sorriso si cristallizza. Poi il viso si crepa come un bicchiere dimenticato nel freezer. Gli occhi si fanno vitrei. Di colpo sembra più vecchio. 
   «Tu?!» sospira. 
   «Dovevo rivederti…». 
   «Che cosa?! Tu, tu… per tutto questo mi hai… Eri… eri tu?». 
   Annuisco. 
   «Era l’unico modo che avevo per…». 
   «Brutta stronza! Eri tu?! Eri tu!». 
   Accade tutto troppo in fretta. Scorgo un balenio assassino nei suoi occhi ma, prima che possa realizzarlo, un suo pugno mi frantuma il naso. Mi sento sbalzare all’indietro ed atterrare sull’asfalto. Mi manca l’aria. Sento il sapore del sangue in bocca. Schiudo le labbra per prendere fiato, ma il suo pugno me la spacca, facendomi sbattere il capo per terra. Lo sento sopra di me. Mi inchioda al terreno. Mi colpisce con una furia animalesca, vomitando accuse e insulti. Vorrei spiegargli… vorrei dirgli che… ma non riesco nemmeno a respirare. I suoi colpi non me ne danno il tempo. 
   Non riesco a crederci. 
   Non doveva andare così… 
   Non doveva… 
   Non… 

©Piergiorgio Pulixi

Soundtrack: Radiohead, "Creep"

sabato 8 ottobre 2016

A volte ritorno (parte seconda)

Continua il mio resoconto delle letture estive, non sempre soddisfacenti, come ho avuto modo di dire nel post precedente. Mi capita di aspettare le vacanze per tutto un inverno pensando di potermi finalmente dedicare a ciò che più mi piacerebbe leggere: in questo modo però, a dispetto dei desiderata, mi è successo di impantanarmi in libri che non erano all’altezza delle mie aspettative e di tralasciarne altri che avevo comprato appena pubblicati. ma ormai hanno fatto il loro tempo, nel senso che i loro autori hanno già scritto nuove storie (ad esempio ho un paio di De Carlo arretrati e un Veronesi che ormai ha perso le speranze, oltre alla trilogia di Kent Haruf di cui ho letto ancora solo “Benedizione” e la saga dei Cazalet di Elizabeth J. Howard, riscoperta da Fazi, che pare stia facendo furore). 
In questa seconda parte parlo di libri che comunque si sono rivelati autentiche sorprese. 

Il primo è “Caro Michele” di Natalia Ginzburg. Proposto come lettura estiva in occasione del centenario della nascita della sua Autrice e commentato su Twitter e  Betwyll con l’hashtag #CaroMichele, è stato un progetto realizzato in Creative Commons con il metodo TwLetteratura da Erika Pucci e me, Elena Tamborrino (Licenza 3.0 | Attribuzione | Non Commerciale | Non Opere Derivate). 
Conoscevo il libro perché ne avevo letto brani sparsi, e me ne mancava quindi la visione globale, necessaria invece per ricostruire la complessa rete di rapporti familiari sfilacciati e irrisolti, ricomposti nella rete di lettere che raccontano storie, stili di vita, abitudini, stanchezze, frustrazioni, delusioni: paradossalmente questo fitto scambio di lettere è il paradigma dell'incomunicabilità, nonostante i messaggi che si intrecciano e che viaggiano dall'Italia all'Inghilterra, dove si trova Michele, quel ‘caro’ a cui si rivolgono la madre, le sorelle e Mara, il personaggio forse più misterioso e incomprensibile della storia. Personaggio complesso quello di Mara: parassita, irrisolta, bugiarda seriale, in continua ricerca di approvazione da parte degli altri e allo stesso tempo incurante verso gli altri, insopportabile nella sua accidia. Bravissima la Ginzburg a delinearne la personalità inesistente: Mara non è. Le voci dei protagonisti si alternano e le donne sono le principali protagoniste, oltre a Mara: dalla madre Adriana, alle sorelle Angelica e Viola, e poi Matilde, Ada, la moglie di Filippo, le gemelle, la figlia di Angelica. Pallidi sono i protagonisti maschili, tra cui spicca proprio Michele, il figlio inetto che ha abbandonato tutto, che ha scelto la fuga dalla vita vera e dai problemi, per abbracciarne altri. L'impressione in questo epistolario è che tutto sia neutro e asettico, niente odori, tranne quello di Cloti, la domestica che vive con Adriana, e che tutto sia velluto marrone a coste: “Caro Michele” è un libro molto anni Settanta in cui domina la libertà sessuale, un certo modo di gestire la famiglia come una comune, gli abiti stropicciati. 


Ancora una lettura per LeggoNobel : "L'urlo e il furore" di William Faulkner, premio Nobel per la Letteratura nel 1950. Ardue le prime due parti, l’ho trovato coinvolgente dalla terza in poi. Ho avuto bisogno di aiuti esterni (Wikipedia) e di leggere prima l'Appendice, originariamente inserita all'inizio nelle prime ristampe e poi spostata in fondo nelle edizioni successive, per orientarmi tra i personaggi. Appassionante la storia della decadenza di una famiglia del Sud americano, condensata in tre giorni e con un lungo flashback che sposta il racconto a diciotto anni prima. Bei personaggi, mi sarebbe piaciuto conoscere meglio Caddy, la sorella in fuga. Ho letto l'edizione Einaudi (1997 e 2014), con la traduzione di Vincenzo Mantovani (che ha avuto il suo bel da fare!). Interessanti l'introduzione di Emilio Tadini, illuminante la postfazione di Attilio Bertolucci. 

Un piccolo gioiello riscoperto dalla casa editrice flower-ed è “La gente per bene” di Marchesa Colombi, pseudonimo di Maria Antonietta Torriani (1840-1910), giornalista e scrittrice, moglie dell’ideatore, cofondatore e primo direttore del Corriere della Sera, Eugenio Torelli Vollier. 
Di lei Italo Calvino scrisse che aveva voce di scrittrice che si faceva ascoltare qualsiasi cosa raccontasse; la sua modernità è evidente anche oggi, a oltre un secolo di distanza dalla composizione delle sue opere, tra cui mi piace ricordare “Un matrimonio in provincia”, la storia della mancata emancipazione di una giovane costretta a un matrimonio di convenienza, in un’atmosfera di rassegnazione che però lascia spazio a momenti di consapevolezza verso una vita fatta di rinunce. 
“La gente per bene” è un manuale di buone maniere, pubblicato per la prima volta nel 1877, suddiviso in undici parti dedicate a tutti i momenti della vita di una donna, dalla prima infanzia, fino a quando si fa vecchia (Il bimbo, I fanciulli, La signorina, La signorina matura, La zitellona, La fidanzata, La sposa, La signora, La madre, La vecchia, Gli uomini). 
Le norme di comportamento, in famiglia e in società, nell’abbigliamento e nella conversazione, nel ricevere e nell’andare in visita, sono trattate con lieve ironia e con tono bonario. Leggere queste pagine mi ha ricordato le rubriche di bon ton che fino a qualche decennio fa non mancavano nei settimanali femminili, di cui forse la più celebre è stata “Il saper vivere” di Donna Letizia, alias Colette Rosselli. Se ne sente un po’ la mancanza, ora che alle buone maniere si fa sempre meno caso (e si vede). 

A conclusione di questa rassegna, “Una lezione d’ignoranza” di Daniel Pennac, il testo della lectio magistralis che lo scrittore pronunciò in occasione del conferimento della laurea ad honorem in pedagogia presso l'università degli studi di Bologna nel 2013: trenta pagine in cui l'autore di "Come un romanzo", "Diario di scuola" e del ciclo dì Benjamin Malaussène (solo per citare le sue opere più note) racconta di insegnanti indimenticati, di pedagoghi e demagoghi, della solitudine del lettore, degli errori prescrittivi in fatto di lettura, di "passeur", coloro che sono i veri trasmettitori di sapere. Davvero un piccolo gioiello, scoperto per caso passeggiando a Mantova, durante il Festival della Letteratura. 

Dalla settimana prossima il blog riprende con le rubriche di sempre, forse con qualche novità cui sto pensando. Intanto leggo Proust e Cortazàr in contemporanea, sperando di uscire indenne da questo tour de force che avevo sottovalutato e di riemergere sana e salva dal salotto di Madame de Villeparisis e dall’atmosfera torbida delle stanze abitate dalla Maga. 

Photo HelenTambo on Instagram

martedì 4 ottobre 2016

A volte ritorno

Come annunciato qualche giorno fa, “Io e Pepe (e libri e altro)” riapre i battenti, non senza ragionamenti e mille ripensamenti, soprattutto perché mi sono chiesta più volte a cosa possa servire questo spazio, uno tra i tanti in cui si parla di libri. 
Ho sentito in tanti momenti il peso di un impegno verso il quale un po’ dell’entusiasmo iniziale è andato scemando via via, fino a lasciare quasi un senso del dovere, più che del piacere di scrivere. Che poi, dovere verso chi? 
Risolto che non sento di aver doveri verso nessuno, nemmeno verso me stessa, riprendo da dove ho lasciato, facendo un breve riassunto di quello che ho letto in questi due mesi di pausa dal blog, in due parti, altrimenti diventa un post troppo lungo che abbandonereste a metà (perché si sa che i testi troppo lunghi, letti in rete, annoiano anche se sono scritti bene e varrebbe la pena andare fino in fondo). 
 
Photo HelenTambo on Instagram

Aspettavo agosto per dedicarmi ai libri in attesa sul comodino, quelli che lasci aspettando il momento del relax, le ferie, le giornate al mare o comunque in vacanza in posti dove puoi startene in pace, senza altri impegni. 
È stato così che ho lasciato aspettare l'ultima inchiesta del commissario Bordelli, il poliziotto creato da Marco Vichi (“Fantasmi del passato. Un’indagine del commissario Bordelli, Guanda 2014), di cui ho letto tutte le avventure, in attesa che arrivasse il momento giusto per godermelo, insieme ad altri romanzi che pensavo di leggere durante questa estate. 
Invece mi sono impantanata per troppi giorni in questa lettura che è andata avanti molto svogliatamente, dove la soluzione dell'omicidio che doveva essere il fulcro del romanzo si perde tra i rimpianti di Bordelli, i ricordi di guerra suoi e dei suoi amici, le cene nella cucina di Totò e nella casa di campagna con l'allegra brigata di quasi settantenni pieni di vitalità sentimentale (vabbè, vitalità... si fa per dire). 
Nel frattempo avrei potuto leggere almeno altri tre romanzi, che hanno dovuto attendere tempi migliori. Peccato. 

In realtà, un po’ prima che iniziassero le vacanze estive ho letto in eBook il mio primo Carrére, “L’avversario” (Adelphi, 2013) con una storia tragica e inspiegabile, che però l'Autore prova a analizzare, cercando tra i meandri più nascosti di una mente deviata. 
La curiosità per questo libro mi è venuta un giorno in macchina, mentre ascoltavo guidando la trasmissione di Radio 2  Social Club condotta da Luca Barbarossa e Andrea Perroni: si parlava di bugiardi seriali e proprio Barbarossa ha ricordato il tema di questo romanzo di Carrére, senza però citarne il titolo. Una breve ricerca mi ha portato a conoscere di che libro si trattasse. Questo ha dichiarato lo stesso autore a proposito di questo romanzo/documento: "Il 9 gennaio 1993 Jean-Claude Romand ha ucciso la moglie, i figli e i genitori, poi ha tentato di suicidarsi, ma invano. L'inchiesta ha rivelato che non era affatto un medico come sosteneva e, cosa ancor più difficile da credere, che non era nient'altro. Da diciott'anni mentiva, e quella menzogna non nascondeva assolutamente nulla. Sul punto di essere scoperto, ha preferito sopprimere le persone il cui sguardo non sarebbe riuscito a sopportare. È stato condannato all'ergastolo. Sono entrato in contatto con lui e ho assistito al processo. Ho cercato di raccontare con precisione, giorno per giorno, quella vita di solitudine, di impostura e di assenza. Di immaginare che cosa passasse per la testa di quell'uomo durante le lunghe ore vuote, senza progetti e senza testimoni, che tutti presumevano trascorresse al lavoro, e che trascorreva invece nel parcheggio di un'autostrada o nei boschi del Giura. Di capire, infine, che cosa, in un'esperienza umana tanto estrema, mi abbia così profondamente turbato - e turbi, credo, ciascuno di noi." (Emmanuel Carrère) 
Un pugno allo stomaco che fa pensare. 

Mesi fa ho letto un articolo sul libro di Pia Pera, “Al giardino ancora non l’ho detto” (Ponte alle Grazie, 2016, il titolo è preso in prestito da un verso di Emily Dickinson, I haven’t told my garden). 
Non conoscevo questa scrittrice, giornalista, traduttrice, specializzata in natura, paesaggi e giardini, ma credo che la conoscessero bene i lettori della rivista di giardinaggio "Gardenia", alla quale collaborava. Sapevo della sua malattia, che non lascia scampo e della quale poi è morta nel mese di luglio, e di come lei l'aveva raccontata nel suo libro: ho comprato il libro appena pubblicato e ho iniziato a leggerlo nei giorni immediatamente successivi alla morte dell’Autrice e questo probabilmente ha un po' influenzato la mia percezione.
Non c'è trama, non è una storia, è il diario di una malattia difficile, accompagnato dalle riflessioni sull'evoluzione di una situazione invalidante che è solamente fisica, perché intanto resiste la volontà di reagire e di cercare conforto nel giardino, luogo che ha raccolto il lavoro e la passione di Pia Pera. È anche il diario del progredire degli eventi naturali nel giardino, che la scrittrice amorevolmente curava da anni: un libro di spessore, una profonda riflessione sulla speranza, sulla paura e sul coraggio che ci vuole quando, con coscienza, si sa di dover morire. 
Struggente e faticoso, perché vero. 

Verso la fine dell’estate ho letto “Orizzonti di gloria” di Humphrey Cobb, pubblicato la prima volta nel 1937: da questo romanzo, vent'anni dopo la sua pubblicazione, Stanley Kubrick ha realizzato l'omonimo film, destinato a superare in fama il romanzo stesso. 
Disponibile nella traduzione di Grazia Proietti (Castelvecchi, collana Narrativa, 2014), oggi lo possiamo leggere anche nella collana "Narrativa della Grande Guerra" curata da Corriere della Sera (disponibile nello store online). 
La storia si svolge durante la Prima Guerra Mondiale: sul fronte occidentale i soldati francesi ricevono l'ordine di assaltare una postazione inespugnabile, il Formicaio. Sotto il fuoco nemico l'operazione fallisce, ma la miopia degli alti comandi, indispettiti dal disastro annunciato e puntualmente verificato, porta all'apertura di un'inchiesta che si conclude con un processo sommario presso la Corte Marziale, che condanna a morte tre militari con l'accusa di codardia. 
Il processo si dimostra una farsa in cui tutto deve svolgersi come preventivamente deciso, cioè con la condanna certa di innocenti, che tutto sono stati meno che vigliacchi. A nulla può la difesa, l'accusa svolge il suo compito con cieca risolutezza e la Corte non fa altro che accoglierne le istanze. 
Una denuncia lucida e spietata di come si sono spesso comportate le corti marziali di qualunque esercito, su qualunque fronte. 

Ho letto poi “Caffè amaro” di Simonetta Agnello Hornby (Feltrinelli, 2016), una scrittrice che mi piace molto e della quale ammiro il rigore con cui ricostruisce il quadro storico che fa da sfondo ai suoi romanzi, infatti si documenta molto, ha una fase di preparazione ai suoi lavori molto lunga, proprio per la ricostruzione storico-sociale del periodo in cui ambienta le sue storie. E poi racconta di amore con grande capacità di emozionare, il che me la fa apprezzare ancora di più. 
È una storia potente quella di Maria, che attraversa un cinquantennio in Sicilia e non solo, dalla piena età giolittiana alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Lo sfondo storico risalta nelle vicende familiari della protagonista e ne condiziona il corso. 
Simonetta Agnello Hornby dimostra ancora una volta rigore nella scrittura e capacità elevata di coinvolgimento nel racconto della vita di una donna, un'altra delle sue protagoniste, che non si potrà dimenticare. Ho assegnato 5 stelline su Goodreads a questo libro che ho letto in tre giorni, completamente assorbita dalla storia umana e sentimentale di un personaggio straordinario. 

Chiudo questa prima parte del mio resoconto estivo con una nota negativa, che riguarda “Il dio delle piccole cose” di Arundhati Roy (Guanda 2008): si può decidere che un libro è sconclusionato dopo aver letto solo un decimo delle pagine, corrispondente al primo capitolo? Sì, si può. 
Non so se gli darò altre possibilità, ma come dico spesso la vita è troppo breve per leggere brutti libri. Quello che mi sorprende è il ricordo di un’accoglienza piena di entusiasmo alla sua uscita, cosa che mi aveva spinto ad acquistarlo per poi tenerlo lì, in attesa del momento giusto che pensavo fosse arrivato su proposta del gruppo di lettura che frequento mensilmente: mi consola il fatto che quasi nessuno è riuscito ad andare oltre le prime quaranta pagine (qualcuno ha mollato molto prima). Ci sarà un perché.