giovedì 30 giugno 2016

Pillole di libri: "Benedizione" di Kent Haruf

Sembra una specie di benedizione, 
una benedizione a doppio taglio, disse Lyle. 
Dad lo guardò. Eh, sì. 
Un sacco di volte le benedizioni non sono andate per il verso giusto. 
Deve averne viste parecchie nel corso della sua vita. 

In questo romanzo c’è la provincia americana, ci sono la terra e la luce gialla -iconica nel rapporto tra cinema e colore-, quella tonalità di luce che, per intenderci, fa venire in mente il deserto del Mojave in California, dove è ambientato “Bagdad Cafè”, il film di Percy Adlon del 1987. 
Ovviamente il film di Adlon con “Benedizione” non c’entra nulla, ma l’ho ricordato giusto per dare un’idea dell’atmosfera in cui io mi sono trovata immersa leggendo, così polverosa e sfumata, come quando la luce forte e il calore fanno tremare i contorni degli oggetti e delle figure. 
In questo romanzo ci sono le convenzioni e il bullismo, l’emarginazione e il rifiuto, nella società bigotta e conformista di Holt, nel Colorado. 
In questo romanzo ci sono l’amore e il rimorso, la cura e la sollecitudine, la durezza di Dad, al limite estremo della vita, e la sua fragilità. Ci sono fantasmi e realtà, segreti e verità. 
In questo romanzo ci sono relazioni umane e persone, anzi personalità e facce, corpi, presenze forti. 
Ho letto il primo volume della Trilogia della pianura di Kent Haruf in un paio di giorni, perché il grado di coinvolgimento che si raggiunge è estremo e non si fa fatica a capire come mai in Italia sia scoppiata la Harufmania, grazie anche alla lungimiranza di un editore giovane e intraprendente. 
Questa è solo una pillola di libro: tornerò presto a Holt, per leggere gli altri due volumi della trilogia, questi seguenti l’uno all’altro (mentre il primo, questo appunto, fa storia a sé).
 
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Benedizione 
Autore: Kent Haruf 
Dati: 2015, 277 p., brossura; eBook formato ePub 460,9 KB 
Editore: NN Editore 
Prezzo: € 17,00 cartaceo; eBook € 8,99 
Giudizio su Goodreads: 5 stelline 

venerdì 24 giugno 2016

"Dietro ogni curva" di Cetta De Luca

Photo Cetta De Luca

Ogni volta che viaggio, che il percorso sia breve o lungo, sempre mi sorprendo, a un certo punto, ad aspettarmi il mare. Dietro ogni curva, all'improvviso, mi assale il desiderio di vederlo, di abbracciare con lo sguardo la sua vastità, di inebetirmi dei suoi profumi. È talmente radicata in me questa abitudine, che quasi non ci faccio più caso, perché accade, il panorama non mi tradisce mai. La mia mente e il mio cuore lo sanno bene, conservano in sé una memoria naturale del tempo che ci vuole tra un luogo e l'altro, di ogni movimento che il corpo deve fare per avvicinarsi. Percorro strade che sanno di pini e di oleandri, di brezze salate, di nasse e di canti antichi e di tavole marcite, di vernice, di sole. Riconosco i sassi e i granelli di sabbia, le rocce e i promontori e le anse solitarie e le lunghe distese che scivolano, come nastri setosi, tra le marine e le onde. 

E qui, in questa terra lontana, si infrange ogni giorno il mio desiderio. Cammino e viaggio, e ancora col cuore lo cerco, ma non c’è mare quassù, non nel mio spazio, non nel mio tempo di percorrenza. In questa prigione di boschi e prati e fiumi, non esiste uno sbocco senza confine. Ho camminato a piedi nudi sulle rive del Danubio e, anche se non ne ho visto la fine, mi è sembrato piccolo e insignificante e inodore. Senza odore non c’è memoria, senza memoria non c’è storia che valga la pena, che resti, che cambi il corso delle storie future. 

Ho sempre pensato che chi nasce vicino al mare fosse un privilegiato, e mi perdoneranno i nativi delle pianure o delle montagne. Però è così. Nascere con la consapevolezza di avere lo sguardo libero da ostacoli, respirando da subito un’aria densa come melassa dove il sale, lo iodio, i racconti che le onde portano con sé si mescolano e si donano per essere trasportati ancora e ancora. Nascere con lo sciabordio dell’acqua sulle sponde, il fruscio della risacca sulla rena è come continuare la vita nel grembo della madre. Si diventa custodi delle storie del mondo, quelle che i marinai raccontano quando sbarcano, quelle dei luoghi lontani che il mare avvicina, quelle dei morti e dei sopravvissuti, quelle di battaglie, di vittorie, di sconfitte, quelle di amori consumati tra le barche mentre in cielo brillano fuochi d’artificio. Ci si apre alla vita e si impara ad accogliere, subito, col primo vagito. Un vagito poderoso, che deve farsi sentire al di là del frastuono dell’onda che si infrange. Forse per questo la gente di mare parla a voce più alta. 

©CettaDeLuca

Soundtrack: Mango, "E mi basta il mare"

lunedì 20 giugno 2016

Ultima lettura: "Bruges la morta" di Georges Rodenbach

L’uomo si stanca di posseder sempre lo stesso bene. 
Non si apprezza la felicità, così come la salute, 
se non attraverso la sua negazione. 
E l’amore stesso consiste nella propria intermittenza. 

Lo scorso 9 giugno è uscito per Fazi questo classico della letteratura decadente dello scrittore belga Georges Rodenbach, uscito a puntate su Le Figaro nel mese di febbraio 1892, poi in edizione definitiva nel 1914 presso l’editore Ernest Flammarion di Parigi. In Italia è stato pubblicato la prima volta nel 1907 dall’editore Voghera di Roma (edizione non definitiva, perché rivisitata dall’Autore e licenziata definitivamente sette anni più tardi), poi nel 1920 (Milano, editore Facchi) in una versione adattata per il teatro, successivamente da Rizzoli nel 1955.
In realtà non si tratta di una vera e propria novità neanche per Fazi, che lo ha già pubblicato nel 1995, nella collana Le porte, con la cura di Emanuele Trevi e la presentazione di Marco Lodoli, inserita anche in questa nuova edizione, che si pregia di una copertina molto più significativa di quella precedente. Questa sembra essere una delle cifre caratteristiche della casa editrice negli ultimi anni: una cura particolare nella scelta delle immagini di copertina, che spesso –insieme a certi titoli- è di grande richiamo. Tanto più in questo caso, se pensiamo che il romanzo nasce in origine come un esperimento anche visivo, dal momento che l’autore voleva corredare la sua opera con delle fotografie della città (qui le immagini dall’archivio multimediale di Wikipedia) che fossero rappresentative di una certa atmosfera, mirabilmente ricreata con le parole.
Bruges è quindi indubbiamente la protagonista di questo romanzo (“Le città specialmente posseggono ognuna una personalità propria, uno spirito autonomo, un carattere riconoscibile che corrisponde alla gioia, al nuovo amore, o alla rinuncia, alla vedovanza. Ogni città è uno stato d’animo: e quando vi si soggiorna, questo comunica, si trasmette a noi come un fluido che, respirato con l’aria, entra a far parte del nostro corpo”, cap. X): è la città cupa e bigotta, dalle banchine di pietra e dai canali gelati, dalle abitazioni chiuse e dagli argini di muraglia a protezione delle testate dei ponti, dove Hugues Viane si rifugia, per coltivare nella solitudine il ricordo della giovane moglie Ofelia, di cui è rimasto prematuramente vedovo.
Il ricordo della giovane moglie è alimentato dalla venerazione delle sue reliquie, abiti e oggetti appartenuti alla donna, fino addirittura a una treccia dei suoi capelli, conservata in una teca di vetro.
A sconvolgere l’esistenza del vedovo sarà l’incontro fortuito con Jane, giovane attrice le cui fattezze sembrano richiamare esattamente quelle di Ofelia. La somiglianza sorprendente tra Jane e Ofelia si rivela ben presto illusoria e la constatazione di quanto, a differenza della moglie morta, la giovane attrice sia capricciosa e arrivista, bugiarda e frivola, getta Huges in un profondo sconforto, fino all’epilogo tragico del rapporto tra i due.
Molte sono le suggestioni che questo romanzo ispira: nelle bugie di Jane ho ritrovato quelle della cocotte Odette, della quale s’innamora Charles Swann (“Un amore di Swann” nel primo volume del ciclo della Recherche di Marcel Proust “Dalla parte di Swann”, 1913), nello sdoppiamento di Ofelia, quello di Dorian Gray nel suo ritratto (Oscar Wilde pubblicò il suo romanzo nel 1890, due anni prima dell’uscita su Le Figaro di “Bruges la morta”).
Inoltre il tema della morte e dei ‘ritorni’ sotto forme simili rappresentano un topos letterario e cinematografico molto frequentato in ogni tempo, basti ricordare i feuilleton di Carolina Invernizio (le cui opere sono state scritte tra il 1877 e il 1920), “La donna che visse due volte” di Alfred Hitchcock (1958), basato sul romanzo “D'entre les morts” di Pierre Boileau e Thomas Narcejac, la telenovela brasiliana in costume “Marina”, basata sul romanzo della scrittrice Carolina Nabuco “A sucesora” (1934) e si potrebbero richiamare molti altri esempi, tutti riferibili al mito classico di Orfeo e Euridice.
Sicuramente forte di una traduzione agile, il romanzo non risente dell’età, anche se il tema e l’atmosfera torbida e misteriosa certamente richiamano a una letteratura superata.
Colpisce lo stretto legame con la città, che viene quasi personificata dal protagonista che la riconosce come incarnazione dei suoi rimpianti: “Bruges era la sua morta, e la sua morta era Bruges. Tutto era unito da un identico destino: era Bruges-la-morta, anch’essa sepolta nella tomba dei suoi quais di pietra”, cap. II). 



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Bruges la morta 
Autore: Georges Rodenbach 
Traduzione: Catherine McGilvary 
Presentazione: Marco Lodoli 
Dati: 2016, 106 p., brossura; ePub 272,7 KB, PDF 911,6 KB 
Editore: Fazi (collana Le strade) 
Prezzo: € 15,00 (eBook € 6,99) 
Giudizio su Goodreads: 4 stelline

giovedì 16 giugno 2016

Ultima lettura: "Due" di Irène Némirovsky

Spesso l’amore non è che il ricordo di un istante d’amore 

Nel 2012 la RCS MediaGroup S.p.A. Divisione Quotidiani, nella collana “I libri del Corriere della Sera”, dà vita alla serie dei romanzi di Irène Némirovsky in tredici volumi, su licenza Adelphi. Della Némirovsky avevo letto “Il calore del sangue”, che non mi aveva particolarmente entusiasmato. Tuttavia, l’interesse che si è a un certo punto risollevato intorno a questa scrittrice ucraina nata all’inizio del Novecento e morta ad Auschwitz nel 1942, dopo un mese dalla deportazione (era ebrea, poi convertita alla religione cattolica), mi ha convinto ad acquistare tutta la raccolta, che comprende le opere -tra romanzi e raccolte di racconti- che in diciannove volumi Adelphi ha iniziato a pubblicare dal 2005, anno in cui è uscito “Il ballo” (tanto che probabilmente dobbiamo proprio alla lungimiranza di Roberto Calasso e dei suoi collaboratori la riscoperta di questa prolifica scrittrice). 
Cosa piace di Irène Némirovsky? Probabilmente la capacità di raccontare una società intrisa di perbenismi, da cui le vicende dei suoi protagonisti in qualche modo si svincolano, e allo stesso tempo indagare sapientemente nelle pieghe più nascoste dell’animo umano, rivelando aspetti inconsueti e anticonformisti per l’epoca in cui le storie sono ambientate. E la Némirovsky lo fa spesso esplorando i rapporti familiari, i legami affettivi, oltre che la società, in quel periodo oppressa dall’incombenza di una nuova guerra che, dopo la Prima Grande che aveva piegato l’Europa, avrebbe portato con sé la tragedia della persecuzione razziale. “Due” è il romanzo che ho letto nel mese di aprile su sollecitazione di un gruppo di lettura che frequento con cadenza mensile. Dopo un’introduzione al mondo frivolo e mondano in cui si narra degli intrecci sentimentali e amicali in un gruppo di giovani, alcuni dei quali sono fratelli e sorelle tra loro, la storia si dipana raccontando come i legami tra i cinque protagonisti si allentino da una parte, perché la vita divide alcuni di loro, mentre portano altri di loro a vivere rapporti preannunciati e non per questo felici, anzi. 
In pagine sapientemente cesellate, fatte anche di dialoghi serrati, l’Autrice descrive l’evoluzione dell’amore nel matrimonio, attraverso l’analisi del rapporto tra Antoine e Marianne e quello adulterino tra la sorella di lei, Evelyne, e lo stesso Antoine, osservando anche la relazione della coppia con i figli e con le rispettive famiglie di origine: un affresco realistico e spietato che, se alle prime pagine non mi stava coinvolgendo più di tanto, mi ha poi preso in maniera trascinante, da quando entra in scena la povera Evelyne, vittima di un amore impossibile perché proibito. 
Di questo romanzo colpisce l’anticonformismo delle vedute dei protagonisti, travolti da amori fuori dalle norme sociali di un’epoca che si produceva in ipocrisie capaci di lavare le coscienze, ma non l’anima. 
A Irène Némirovsky dobbiamo la capacità di raccontarlo senza filtri.
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Due 
 Autore: Irène Némirovsky 
Traduz.: Laura Frausin Guarino (prefazione di Giorgio Montefoschi) 
Dati: 2012, 239 p., brossura 
Pubblicato su licenza di Adelphi Edizioni (2010) 
Editore: RCS MediaGroup S.p.A. Divisione Quotidiani Prezzo: € 7,90 
 Giudizio su Goodreads: 4 stelline

domenica 12 giugno 2016

"Spiraglio" di Cesare Minutello

 
Hieronymus Bosch, "Trittico del carro di fieno", particolare, 1516 circa


“Quanto sei bella, giglio di Saron”-Franco Fortini 

Cerco di guardare in fondo 
al terreno 
assorto il seme 
che cresce innocente 
quando l’aria ha lame 
di fredda tramontana. 
Sei l’incognita della distanza 
una promessa non ancora 
estinta: 
ci sarà lo spiraglio di un abbozzo
ora che un cencio resta 
dell’invernata. 
Per questo sei anche attesa 
e mi sporgo nottetempo 
dall’abbaino dell’auspicio. 
Protendo il dorso della mano 
per sfiorarti, trasparente creatura 
che non mi lasci solo 
grano spuntato sulla gelata 
di un vuoto dopo-niente. 
Verrai, favolosa verrai 
 posando sulle palpebre 
il mare aperto del tuo bocciolo. 
Cerco di guardare in fondo 
a quella fessura di luce 
che rischiara e chiarisce 
finalmente ogni cosa. 

©CesareMinutello

Soundtrack: Phil Manzanera, "Mi casa"

lunedì 6 giugno 2016

Sei fama o cronopio? #TwCronopios e Cortázar


Siccome gli scriba saranno perpetui,
i pochi lettori ancora esistenti cambieranno mestiere
e si faranno pure loro scriba.

“Historias de cronopios y de famas” esce nel 1962, pubblicato la prima volta in Italia nove anni dopo, nella collana “Einaudi Letteratura”. Tra i sostenitori più appassionati della scrittura di Cortázar e in particolare di questo libro, c’è Italo Calvino, autore di una nota introduttiva in cui meglio non si poteva parlare delle due anime che intrinsecamente vivono in ciascuno di noi: "I cronopios e i famas, due genie d'esseri che incarnano con movenze di balletto due opposte e complementari possibilità dell'essere, sono la creazione più felice e assoluta di Cortázar".
Nella visione surreale di Cortázar, che ho già avuto modo di conoscere con "Bestiario" , cronopios e famas si affacciano continuamente nella quotidianità di tutti, dove le due personalità, la prima intuitiva e libera (in alcuni tweet ho scritto che per il cronopio il mondo è sovvertito, le convenzioni e le convinzioni saltano, poiché egli risponde a impulsi
immediati, condizionati da un gusto personale che decide su tutto), la seconda ordinata e razionale (dei famas ho scritto che seguono aridi regolamenti, non derogano nulla in favore della fantasia e, sconfitti, pronunciano discorsi funebri, a proposito del racconto “Affari”), si contendono momenti e soluzioni. Nei modi allegorici e surreali che gli sono propri, l’Autore ci regala un modo di leggerci dentro, di fare i conti con le nostre piccole ipocrisie, i nostri egoismi, i piaceri e i doveri: in mezzo, tra il noi cronopios e il noi fama, in questa danza della vita, ci sono le speranze, l’unica possibilità di mediare tra due modi di essere tanto contrapposti e allo stesso modo stralunati (05.05.2016- @ExLibris2012: nessuno può essere completamente cronopio, nessuno è completamente fama. Siamo l'uno e l'altro, in varia percentuale e speranza).
Facendo nostra l’affermazione di Pablo Neruda, secondo il quale “chiunque non legga Cortázar è condannato”, con Alessandro Pigoni e Erica Pucci, come già per i "Sillabari" di Goffredo Parise e "Biglietti agli amici" di Pier VittorioTondelli, abbiamo proposto la lettura e la riscrittura di #TwCronopios per TwLetteratura, raccogliendo anche stavolta un nutrito gruppo di utenti Twitter che in circa tremila tweet hanno proposto il loro modo di vivere Cortázar.
Intanto qui trovate la raccolta di tweet che racconta la mia lettura delle storie di cronopios e famas.

Photo HelenTambo on Instagram


Storie di cronopios e di famas

Autore: Julio Cortázar
Traduz.: Flaviarosa Nicoletti Rossini (con una nota di Italo Calvino)
Dati: 2014, 144 p., brossura
Editore: Einaudi (collana ET Scrittori)
Prezzo: € 10,50
Giudizio su Goodreads: 4 stelline

mercoledì 1 giugno 2016

"Female" di Tiziana Sferruggia


                            
Photo Tiziana Sferruggia
Da questo sogno non riesco a strapparmi. Che ora è?
È l’ora in cui tremo di tenerezza, l’ora in cui ho paura di me.
Mi vedo dall’alto. Tocco le ombre sul soffitto. Sono spettri innocui, rami di palma agitati dal vento.
Un cono di luce viola sul mio corpo addormentato.  
Nuvole di piombo attraversano il cielo mattutino come linee verticali e svaniscono nella nebbia. 

Uno stormo di uccelli sfiora le cime nere degli alberi. Arcane geometrie si disfano ed è come se non fossero mai esistite.
Un cavallo bianco galoppa su una spiaggia di sabbia rossa. E glauche onde salate si impigliano nella sua lunga criniera.
Un fulmine cade nell’acqua. Brucia il mare che pare sangue. I pesci scappano e volano via nel cielo di petrolio. Hanno piume di uccelli tropicali che cadono come pioggia sporca. Come mai sono qui? E perché non sono sola?
Mia madre spalanca la finestra. Una luna di calce senza memoria non risponde alle mie domande mute. Le stelle sono così basse che mi pare di toccarle.
La puzza della strada ammorba l’aria.
Cani randagi dilaniano cataste mefitiche di rifiuti.  
Vorrei urlare. Ma le mie parole sono già morte. Requiem per la voce disperata che ama il silenzio.
Ho la nausea. Ho freddo. Anzi no, sudo.
-”Non puoi più fare questa vita….una femmina sola! Questo sei! Non alla bellezza del corpo ma a quella dell’ anima devi guardare. Alla bellezza del dettaglio. All’ unica bellezza immortale”-! . Ma io penso a te. E oggi cambia tutto.”

 Altre parole simili e sconnesse mi giungono come parti di un insieme oscuro.
“Pulire la casa. Comprare i fiori. L’attesa è finita. Anche tu ti mariti”.
Intuisco metamorfosi indesiderate. E maremoti nel solito bicchiere d’acqua.
Precipito sul letto molle e stretto. Mi agito ma non mi muovo.
Un pugno nello stomaco. Le mani intorno alla gola. Fra un attimo il mio cuore si fermerà.
Mia madre non mi guarda e non può aiutarmi.
 So che è tutto finto. So che è tutto vero. E questo non mi consola.
“Per i suoceri e per il fidanzato sarai bella come non sei. Come un’altra che non ti somiglia. Il treno della fortuna passa soltanto una volta. E tu oggi lo prenderai”.
Mia madre è un uragano. E io sono un albero nella tempesta.
Io odio i treni.
E le stazioni. E le partenze. E gli addii. E le valigie.  Ho paura di arrivare in ritardo. Io sono fuori dal tempo.
Che sogno. Se sopravvivo a lui, non muoio più. Conati di vomito mi sconquassano il petto.
Mi guardo allo specchio. Appoggio le labbra per baciarmi. Non sono io questa estranea senza lingua.
Mia madre si accanisce sullo spelacchiato tappeto del salotto. La polvere le copre la faccia color della terra. Una tempesta attraversa i suoi occhi gialli. 
Vorrei gridare con il mio fiato rammendato. Mettere forza nelle parole di vetro. 
Io non voglio un marito.
Io voglio correre sui prati e parlare alla luna, di notte, sulla spiaggia e dal mio balcone. Io voglio gelsomini da raccogliere all’alba. Io voglio stare con me. E coltivare i miei dubbi. E ridere e piangere. E commuovermi per niente. Per tutto. Io voglio nutrirmi di vento e di idee, di follie, di piena solitudine. E nel buio trovare dove sono. Dove non sarò mai, dove mi sono perduta e dove troverò la voglia di alzarmi ancora. Ma la rabbia è debole è galleggio in un silenzio asfittico.  
Sono schiava di un sogno infinito.
Mia madre è invecchiata di colpo.
Ha capelli stopposi come un nido d’allodola e rughe feroci agli angoli della bocca. E occhi tristi e spiritati. Non ha bisogno di parole. Semmai di carezze. Non riesco ad alzare il braccio. Non riesco a parlare. Secoli nefasti gravano sulle mie spalle. Ho tutto il dolore del mondo sullo stomaco e un pianto antico oramai secco. Respiro a fatica. Calpesto i vetri rotti del pavimento e non mi ferisco.
Gladioli rossi spiccano dentro un vaso blu cobalto. Chi ha messo i confetti verdi nella ciotola d’argento?  Sei tazzine con bordo d’oro zecchino scintillano sulla tovaglia di damasco giallo.
Mi appoggio per non cadere. Troppo lusso. Troppi bagliori. Da dove vengono tutte queste cose? Sono stanca. Mi pare di camminare da ore e di essere sveglia da sempre. È un tempo liquido. E le cose non hanno più un nome. Devo ricordare.
Devo scriverlo prima che sia troppo tardi. Tutto fugge. E diventa piccolo e lontano.
Ancora non finisce questo sogno.
Suonano alla porta. Un donnone nero come la pece riempie tutta l’apertura della porta. Un ometto smilzo come un passerotto la segue quasi saltellando. Un picciotto troppo nero, troppo secco, troppo basso, entra per ultimo.
E’ evanescente e grigio come il fumo.
Li guardo. Mi sembrano buffi, piccolissimi, inadeguati.
“Che siete venuti a fare? Io sono una regina libera. Io non voglio lui. Ed io voglio volere”.  Mentre parlo sono alta, bionda e piena. Di bellezza, di forme, di luce. Il mio fidanzato ride. La sua bocca non ha denti. È un antro spaventosamente vuoto e nero.
La sua voce mi graffia il petto. Non voglio sentirla.
Puzza di sudore freddo e di salvia secca.
I gladioli appassiscono improvvisamente. Cocci di bicchieri sporchi e di tazzine vuote sul pavimento obliquo. Mia madre canta ma non è contenta. Una chiesa buia ed un altare spoglio. Quando ho messo quest’abito bianco? Stringo un bouquet di fiori d’arancio secchi e cammino sopra petali bianchi di rose marce.  W gli sposi! Riso e confetti mi accecano. Chiudo gli occhi.
Col cuore disfatto li riapro.
Mi esce un gemito. Guardo la stanza. Una luce misteriosa mi dà un brivido. Non c’è nessuno. Sono sola. Con la bocca amara come il fiele.
Ho l’anima sparpagliata. Sono sveglia. Sono me. Sono Nuvola. Sono Cielo. Sono Luna. Sono Albero. Sono tutte le cose ho sognato.
Un tenue chiarore a oriente mistifica le tenebre. L’alba arriva sempre.

Certi giorni iniziano così. Con la paura di perdermi.


©️Tiziana Sferruggia
Soundtrack: Amy Winehouse, "Back to back"