venerdì 25 marzo 2016

Ultima lettura: "Alla fine di ogni cosa" di Mauro Garofalo


Alla fine di ogni cosa. Romanzo di uno zingaro

Autore: Mauro Garofalo
Dati: 2016, 250 p., rilegato
Editore: Frassinelli

Johann respirò. Lentamente.
Prese il ritmo del proprio corpo.
Inspirando, vide i capelli dell’avversario, sudati.
L’aria che entrava nei polmoni, il paradenti sbavato.
Inspirando, sentì il proprio peso sul ring, il corpo, le braccia.
Respirò ancora.

Johann Wilhelm Trollmann, detto Rukeli, è stato un pugile tedesco, nato nel 1907 nella Bassa Sassonia da una famiglia sinti, che viveva stabilmente in un campo a Hannover. La sua carriera prese il volo verso la fine degli anni Venti: Rukeli era amato dalle donne, era giovane e affascinante, carismatico e interessante, sicuramente destinato a un futuro da campione, anche per il suo caratteristico stile di combattimento, fatto di brevi movimenti, quasi come se danzasse intorno all’avversario sul ring. E lo vinse, il titolo dei pesi mediomassimi, ma nel frattempo erano state promulgate le leggi di Norimberga e quel titolo, a lui -zingaro che non boxava secondo lo stile maschio voluto da Hitler e dai suoi seguaci-, lo tolsero.
Non solo gli tolsero il titolo di campione (titolo riconosciuto solo nel 2003 a Trollmann dalla federazione pugilistica tedesca, che ha riconsegnato la corona ai suoi familiari, nominandolo ufficialmente detentore del titolo di campione tedesco dei pesi mediomassimi), ma anche l’amore e la dignità, fino alla vita.
La storia di Rukeli Trollmann, a cui anche Dario Fo ha dedicato un libro (“Razza di zingaro”, Chiarelettere, 2016) viene oggi raccontata da Mauro Garofalo, giornalista, docente di Scrittura al Centro Sperimentale di Cinematografia e boxeur. “Alla fine di ogni cosa” ricostruisce la vita di Trollmann dagli inizi della sua attività di pugile fino alla morte, avvenuta nel campo di concentramento di Neuengamme.
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Episodi realmente avvenuti, fatti sulla cui veridicità ancora si discute (ad esempio la vicenda in cui Trollamnn sale sul ring contro Gustav Eder il 21 luglio 1933 e si presenta infarinato dalla testa ai piedi e con i capelli tinti di giallo, atteggiandosi a perfetto ariano), vicende fantasiose arricchiscono la realtà storica con situazioni e personaggi immaginari e con la descrizione di pensieri, sentimenti, dubbi, paure, rabbia che verosimilmente possono aver attraversato la breve esistenza di Rukeli: si mantiene sullo sfondo la Grande Storia, quella dell’avvento del Nazismo, dei tragici fatti della notte dei Cristalli, del rogo dei libri “contrari allo spirito tedesco”.
Ci si appassiona alla storia di questo pugile, commuove il profondo legame tra lui e Zirzow, l’allenatore che per primo ne intuì le potenzialità e che credette in lui fino alla fine, e l’amicizia sincera con Markus, il suo sparring. Toccante è la figura della madre Friderike, silenziosa madonna dolente quasi presaga del futuro difficile di quel suo bel figlio; ancora di più emoziona Olga, la ragazza che Johann sposò e che lo rese padre di Rita.
L’amore non bastò a salvare Rukeli: né l’amore di Olga, né l’amore per la boxe, che anzi fu la sua condanna, riuscirono a opporsi alla follia e alla degenerazione assoluta della volontà umana.
La scrittura di Garofalo è potente e suggestiva, la descrizione dei combattimenti sul ring è puntuale e fortemente evocativa, il romanzo cresce di capitolo in capitolo, ti attira dentro la storia e ti fa partecipe di vicende così importanti e gravi che non puoi fare a meno di fermarti ogni tanto a riprendere fiato.
Comprendere la follia nazista è impossibile ma, come ho già detto nel caso di "Maus", conoscere le microstorie ci aiuta a comporre un mosaico di vicende che viste nel loro insieme compongono un affresco memorabile, imponente e crudele.

giovedì 17 marzo 2016

Ultima lettura: "La pioggia prima che cada" di Jonathan Coe


La pioggia prima che cada

Autore: Coe Jonathan
Traduttore: Vezzoli Delfina
Dati: 2007, 222 p., brossura
Editore: Feltrinelli (collana I Narratori)

“Be’, a me piace la pioggia prima che cada”
[…] “Sai, Thea, non esiste una cosa come la pioggia prima che cada.
Deve cadere, altrimenti non è pioggia”
[…]”Certo che non esiste una cosa così, “disse.
“È proprio per questo che è la mia preferita.
Qualcosa può ben farti felice, no? Anche se non è reale.”

Capita di dover fare un viaggio in treno di un paio di ore o poco più, capita di aver finito di leggere il libro che ci si era portato dietro, capita di aver lasciato a casa il proprio eReader. Capita di trovarsi in una stazione dove non c’è una libreria, capita che i negozi nei suoi dintorni siano ancora chiusi, capita che il treno che si aspetta sia in fortissimo ritardo, capita di avviarsi decisi verso il corso principale dove si sa esserci una libreria ben fornita che sicuramente farà orario continuato (altrettanto sicuramente è una mera speranza, ma avendo tempo da perdere…). Capita, camminando sul viale della stazione, di imbattersi in una bancarella di libri usati e di trovarci il Bengodi del lettore. Capita di non proseguire per la libreria e di fermarsi invece a spulciare tra i libri esposti («Signora, io sono qui tutti i giorni il pomeriggio da lunedì a venerdì, presto porto altri libri Feltrinelli», peccato che io sia qui a Foggia solo di passaggio, ma stai tranquillo che se torno ti vengo a trovare di nuovo). Capita di scorgere, tra le tante belle edizioni, una Einaudi intonsa di “Feria d’agosto” di Pavese e questo romanzo di Jonathan Coe, “La pioggia prima che cada”.
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Se per Pavese si è trattato di incrementare il numero dei suoi volumi presenti nella mia libreria, per Coe invece è stato un primo acquisto, a scatola chiusa, non avendo mai letto prima nulla di lui né sapendo nulla di questo romanzo in particolare. Non so cosa possa avermi spinto a comprarlo (il prezzo di soli cinque euro? La copertina? Il titolo? Il fatto di conoscere Coe almeno di fama?), fatto è che –una volta sul treno- ho iniziato una lettura piacevole e appassionante che mi ha accompagnato per i tre giorni successivi e che mi ha fatto riflettere ancora una volta sul fatto che spesso i libri belli ti raggiungono senza che tu li cerchi, per puro caso.
La zia Rosamond è morta nella casa dove viveva sola, dopo la morte di Ruth, la sua compagna. Il cadavere viene trovato dal suo medico: la morte ha sorpreso (ma non più di tanto, nel senso che lei era consapevole che l’ora estrema si stava avvicinando) l’anziana donna seduta in poltrona, mentre stava ascoltando un disco e aveva un microfono in mano, con un album di fotografie accanto. A doversi occupare del funerale sarà Gill, la nipote prediletta, che avrà anche la sorpresa di un testamento che destina a lei un terzo degli averi di zia Rosamond, un terzo a suo fratello David e un terzo a Imogen, di cui nessuno conserva memoria, se non molto vagamente. Bisogna tuttavia trovarla e la ricerca sarà possibile solo ascoltando le audiocassette che zia Rosamond ha registrato, lasciando l’ultima evidentemente interrotta dalla morte. Quelle cassette, registrate con un apparecchio antidiluviano, sono destinate a Imogen e raccontano la vita di Rosemond, delle persone che hanno attraversato la sua vita, Imogen compresa, attraverso la descrizione dettagliata di venti fotografie, considerate le più rappresentative di un’esistenza vivace e anticonformista.
Si tratta di un racconto in prima persona, incastonato nella cornice della narrazione che riguarda Gill e la scomoda gestione di questa eredità: la struttura del racconto nel racconto consente l’incursione volta per volta nel presente di Gill e nel passato di Rosamond. A rendere appassionanti le vicende sono da una parte lo svelamento del mistero che riguarda Imogen, della quale Gill scoprirà il destino dalle parole di sua madre Thea (quella che, da bambina, amava “la pioggia prima che cada”), dall’altra i tasselli della vita di Rosamond che si spiegano davanti al lettore a ricostruire un mosaico di rapporti, sentimenti, incomprensioni, scelte anticonformiste, tra Inghilterra e Canada, dal secondo dopoguerra ai pieni anni Settanta del Novecento.
Una bella sorpresa, questo romanzo, che mi ha fatto scoprire un autore prima a me sconosciuto e del quale proprio oggi esce “Numero undici”, presentato a Firenze proprio in questo momento, mentre scrivo a oltre novecento chilometri di distanza.
Che sia la prossima lettura?

venerdì 11 marzo 2016

#LeggoNobel: "Troppa felicità" di Alice Munro


Troppa felicità

Autore: Munro Alice
Traduttore: Basso Susanna
Dati: 2013, 327 p., brossura
Editore: Einaudi (collana Super ET; ed. 2011 nella collana Supercoralli)

"Ma non ti stanchi mai, Sally?
Non ti stanchi mai di essere intelligente?
Scusa, non posso star qui a parlare con te. Ho da fare."
("Buche-Profonde")

Quando Alice Munro ha vinto il Nobel per la Letteratura nel 2013 non avevo la minima idea di chi fosse, ma da allora ho cominciato a pensare che era il caso di leggere qualcosa di suo. L’occasione è arrivata con #LeggoNobel, anche se la scelta di “Troppa felicità” è stata poi abbastanza casuale, Valentina Accardi ed io non abbiamo proposto questa raccolta con particolare intenzione, si trattava di scegliere un titolo o un altro e forse questo ci ha attirato più di altri.
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Si tratta di una raccolta di racconti in cui la ‘normalità’ mostra tutti i limiti dell’essere normalità, dove la banalità di esistenze comuni nasconde l’eccezionalità dei casi. In tutti i racconti c’è un fondo di male e di cattiveria che si nascondono in azioni piccole e ordinarie.
Il primo racconto, “Dimensioni” è quello che più mi ha colpito, forse perché quando l'ho letto ero reduce da un incontro pubblico con la psicoterapeuta Maura Vitale che parlava di dipendenze affettive: Doree a nemmeno diciassette anni si sposa con Lloyd, molto più grande di lei, inserviente nell’ospedale dove si trova ricoverata sua madre. L’evidente bisogno di affetto della ragazza sarà il motivo per cui l’improbabile coppia mette su famiglia: tre figli uno dietro l’altro e una vita sempre più isolata, con la gelosia malata di Lloyd che impedisce a Doree e ai loro bambini una vita ‘normale’, appunto, fino ad un tragico epilogo che mi ha ricordato un caso di cronaca ormai lontano nel tempo, ma che ancora mette i brividi (era il 1994, nelle campagne di Cerveteri: googlare Tullio Brigida). Anche senza arrivare a conseguenze estreme, il tema della violenza psicologica in famiglia è purtroppo di terribile attualità.
Mi è piaciuto molto anche “Bambinate” -di cui non vi dico nulla perchè è un racconto che va scoperto dalla prima scena all'ultima- perchè mette in luce quella realtà cattiva, anzi malvagia, che spesso è presente dove meno ci si aspetta che ci sia, cioè nei bambini, che tendiamo sempre a vedere come creature innocenti, mentre invece spesso sono proprio quegli insospettabili dove il male è insito e banale.
L'ultimo racconto, quello che dà il titolo alla raccolta, si discosta dagli altri, intanto per la lunghezza e poi perché si ispira a una storia vera, quella di Sof'ja Kovalevskaja, matematica, attivista e scrittrice russa, prima donna in Europa ad ottenere una cattedra universitaria, vissuta nella seconda metà dell’Ottocento. La Munro racconta nella nota di ringraziamenti come per caso è arrivata a sapere dell’esistenza della scienziata russa e come, dopo aver letto il libro "Little Sparrow: A Portrait of Sophia Kovalevsky" di Don H. Kennedy, ha deciso di scrivere il racconto “Too much happiness”, pubblicato poi nel libro omonimo pubblicato nel 2009 (in Italia da Einaudi nel 2011). Il racconto ripercorre gli ultimi giorni di vita della Kovalevskaja, ricco di riflessioni sul presente e sul passato che la Munro ha potuto ‘ricostruire’ a partire da varie fonti documentarie alle quali ha avuto accesso tramite Nina, lontana discendente della Kovalevskaja e moglie di Don H. Kennedy.
Il filo rosso che congiunge tutti i racconti è la sensazione di distorsione della realtà, come qualcosa che sfugge dai binari e si propone in termini di deviazione, con un rumore di fondo amaro che disturba e allo stesso attira.
Credo che Alice Munro meriti ulteriore attenzione: un reset del mio tablet e un problema con il mio Acrobat ID ha fatto sì che si perdessero tutti i suoi ebook che avevo acquistato nel tempo, ma conto di recuperarli per poter approfondire la conoscenza con questa importante scrittrice.

sabato 5 marzo 2016

Ultima lettura: "Il deserto dei Tartari" di Dino Buzzati


Il deserto dei Tartari

Autore: Buzzati Dino
Dati: 1989; prima edizione Rizzoli Il Sofà delle Muse 1940; prima edizione Mondadori 1945
Editore: Mondadori (collana Oscar classici moderni)

Qualche cosa di diverso dovrà pur venire,
qualche cosa di veramente degno, da poter dire:
adesso, anche se è finita, pazienza.

“Il deserto dei Tartari” è un libro che da molti anni occupava uno spazio nella mia libreria senza che mi decidessi a leggerlo, nonostante sapessi che si trattava (si tratta, anzi) di un libro necessario, importante. Non a caso si trova al ventinovesimo posto della classifica dei 100 libri del secolo, stilata nel 1999 dalla catena di negozi francese Fnac, con il quotidiano parigino Le Monde.
Ad aggravare la mia posizione di ritardataria rispetto ad un romanzo tanto indispensabile, c’era il fatto che di Buzzati ho letto e apprezzato “Un amore”, molti racconti e alcune delle cronache più intense scritte per il Corriere della Sera negli anni in cui si occupava di nera (qui il suo racconto della strage di via San Gregorio, con una Rina Fort –assassina mai nominata- folle protagonista di un eccidio che nel 1949 sconvolse l’Italia).
Photo Elena Tamborrino

Si è dovuta tuttavia presentare la bella occasione della lettura collettiva con gli amici del salotto letterario che mensilmente frequento per farmi decidere che, per volontà altrui, il momento per leggere “Il deserto dei Tartari” era arrivato: e anche così ho atteso fino all’ultima settimana prima dell’appuntamento a casa degli amici Pietrina e Enzo, per finalmente prendere in mano questo volumetto dall’edizione vintage, consumato da letture che hanno preceduto la mia.
In una regione non identificabile, Giovanni Drogo, diventato tenente, viene assegnato alla Fortezza Bastiani, ultimo avamposto ai confini settentrionali del Regno, distante dalla capitale, da dove Drogo arriva a dorso del suo cavallo in un viaggio che sembra interminabile. La Fortezza si erge isolata su una sommità e domina la desolata pianura chiamata “deserto dei Tartari”, da dove in un tempo passato arrivavano i nemici ad attaccare: da anni però nessun pericolo la minaccia, la Fortezza ha perso d’importanza per il Comando militare di stanza nella capitale e lì ormai sembrano essere destinati giovani ufficiali che trascorrono lunghi periodi, fino a invecchiare in qualche caso, senza che accada nulla di importante, solo in attesa che il nemico si ripresenti sotto le mura. I più fortunati riescono dopo qualche anno ad andarsene, altri invece si vedono trascorrere la vita senza esserne protagonisti, indaffarati solo a ripetere gesti rituali che scandiscono le ormai sonnolente e insensate attività della Fortezza.
Drogo all’inizio manifesta la sua scontentezza, ma a un certo punto della sua vita rinuncerà a farsi ragione della sua giovinezza che se ne va e in qualche modo si accomoderà in una non vita, in un non luogo e in un tempo indefinibile che sono solamente la sintesi dell’inettitudine umana.
Quando però si pensa che l’esistenza di Drogo sia condannata a svanire nel silenzio e nella solitudine, spezzata solo dalle scarse conversazioni con il medico militare e qualche altro ufficiale con cui però il maggiore Drogo (sì, perché nel frattempo è avanzato di grado) non trova affinità, la Fortezza prende nuovo vigore perché accade l’insperato: il nemico è alle porte, i rinforzi arrivano dalla città, ma Drogo -ormai gravemente malato- non sarà protagonista della battaglia più importante, quella attesa per tutta una vita.
In mezzo, tra l’arrivo di Drogo presso la guarnigione della Fortezza Bastiani e l’amaro epilogo della sua esistenza spesa invano, si muovono personaggi indimenticabili (lo sfortunato tenente Angustina, il colonnello Ortiz, il maggiore Matti e il suo successore al comando della Fortezza, Simeoni, e ancora il medico della Fortezza, il sarto Prosdocimo, il tenente Morel e il maggiore Tronk). Un tentativo di ritorno in città vedrà Drogo –ormai incapace di vivere una vita diversa- tornare alle immutabili abitudini della Fortezza.
Questo romanzo, nella sua trama magistralmente intessuta da Buzzati, fatta di una scrittura intensa in cui si inseguono anafore, ellissi dense di significati non detti, similitudini ardite, è una grande metafora: dietro le attese interminabili e l’incapacità di farsi valere c’è la struggente rinuncia alla vita, che si riscatta alla fine, nella piena accettazione di un destino meno vigliacco di quello che poteva essere.
Photo Elena Tamborrino
Perché quindi tanta attesa per decidermi a leggere questo che non a torto si più considerare il capolavoro di Buzzati? Immagino che ci fossero dei pregiudizi legati a una frase che probabilmente ho sentito, non so più quando né da chi, e che suona più o meno come “è un libro in cui non succede niente”. La paura di annoiarmi e di restare delusa mi ha a torto frenato per troppi anni, ma oggi devo ammettere che questa lettura, fatta in un’età matura, mi ha fatto sicuramente cogliere un messaggio diverso da quello che avrei rintracciato nella vicenda di Giovanni Drogo se l’avessi letta quando ero più giovane.
Anche perché non è vero che in questo romanzo non accade nulla e conoscerne la trama, fino all’epilogo, non toglie nulla alla scoperta di una storia che segna profondamente il lettore: perché siamo tutti un po’ Giovanni Drogo, a volte incapaci di decidere, ma consapevoli di ciò che siamo.