venerdì 26 giugno 2015

Ultima lettura: "La sposa" di Mauro Covacich


La sposa

Autore: Covacich Mauro
Dati: 2014, 185 p., brossura; ePub con DRM 327,6 KB
Editore: Bompiani (collana Narratori italiani)

Il vento soffia sulla sterpaglia,
brevi raffiche crescono e scemano
sollevando riccioli di sabbia.
Il cielo ha le sfumature lavanda
 di un crepuscolo limpido,
 già molto avanzato.

Finalista al Premio Strega che a breve vedrà proclamare il vincitore per il 2015, mi sono affrettata a leggere questo libro, prima che magari vada a vincere, perché immancabilmente ogni volta che un romanzo sale agli onori della cronaca letteraria, ai miei occhi perde di interesse. Il fatto è che il troppo parlare di un libro, la troppa propaganda, il troppo clamore mediatico mi allontanano invece di attrarmi: questo è l’effetto che mi fa il successo massivo di un libro (e spesso anche di un film), e non lo dico per smentire le regole della pubblicità («Nel bene o nel male, purché se ne parli», come ebbe a scrivere Wilde, senza probabilmente immaginare che sarebbe diventato legge nella società della comunicazione di massa, come già ai suoi tempi si avviava ad essere).
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Poiché però conosco Covacich per averne letto in passato “A perdifiato” e “Fiona”, ci tenevo a leggere anche questo “La sposa”, di cui “Anomalie” (2015 per Bompiani, ma già 1998 per Mondadori) sembra proporsi come naturale complemento, nell’indagine sulla varia umanità.
Questi di “La sposa” sono diciassette racconti, alcuni dei quali prendono spunto dalla vita vera che si fa romanzo e che sono collegati l’uno all’altro come grani di rosario, con cui misurare i gradi di separazione dei protagonisti, in una sorta di preghiera laica.
C’è la cronaca, dura e spietata: Covacich racconta il caso di Pippa Bacca, l’artista performer che -senza volerlo- fece del suo “Sposa in viaggio” la fine del suo viaggio terreno. Racconta ancora la storia della ruota degli esposti, una moderna culla termica che al Policlinico Casilino di Roma, grazie al neonatologo Dott. Piermichele Paolillo, salva tante vite di bimbi abbandonati; e poi la storia di Anna Maria Franzoni e dell’assurda morte del piccolo Samuele; e l’episodio di Alessandro Bono, che passa da un’esibizione sanremese sottotono e sbeffeggiata alla morte per AIDS in poco tempo (e quella sua canzone stonata era in qualche modo il suo testamento); infine il racconto delle nascoste emozioni di un prete giovane (e bello) destinato, partendo da Cracovia, a fare tanti viaggi per il mondo.
Ci sono le passioni dell’Autore: la corsa (come in “A perdifiato”, anche perché, quando si parla di sensazioni, ciò che è più facile raccontare è ciò che si conosce bene e la corsa regala tante emozioni difficili da esprimere per chi non le ha mai provate), il nuoto nell’acqua clorata dove i pensieri si diluiscono, la non-paternità, che si risolve nell’essere padre in altre forme.
C’è l’immaginazione, forse quella che ha prodotto i racconti più crudeli e sconvolgenti: in modo particolare mi ha colpito “La casa dei lupi (favole per bambini vecchi 2)”, per la crudezza delle immagini, quel divenire bestia tra le bestie del protagonista, anche nella trasformazione fisica, bestia con una sua dignità e un suo dover essere secondo natura, quella natura a cui si è adattato perché in realtà non è la sua.
Leggere questi racconti è stato un riconoscere Mauro Covacich: il suo stile, i suoi temi.
Un bel ritrovarsi.

martedì 16 giugno 2015

Ultima lettura: "Cassandra al matrimonio" di Dorothy Baker


Cassandra al matrimonio

Autore: Baker Dorothy (trad. Stefano Tummolini; postfazione Peter Cameron) ediz orig. 1962
Dati: 2014, 274 p., brossura
Editore: Fazi (collana Le strade)

[…] e ho pensato a quanto dev’essere difficile
mantenersi ligi al proprio dovere,
quando si è schiacciati tra l’ironia di alcuni
 e lo zelo di altri

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Leggere un libro usato, quindi acquistato e letto da qualcuno prima di te, è spesso un’esperienza alla scoperta delle umane sensibilità altre da noi. Capita così, quando trovi tra le pagine alcuni passi sottolineati, quelli che evidentemente hanno colpito il lettore che ti ha preceduto. Dopodiché sei lì a riconoscerti, oppure a chiederti che cosa in una certa frase, in un certo periodo, abbia potuto dar da pensare a chi ha letto prima di te quella frase, quel periodo. Bello, mi piace, perché il più delle volte si tratta di sentirti in qualche modo unito a qualcuno che non conosci -e non conoscerai mai, probabilmente-, in una corrispondenza che non potrai verificare a fondo ma che c’è stata in un certo momento, a distanza, anche quando i sentimenti non combaciano[1].
Come a volte accade, romanzi scritti in un tempo lontano e mai pubblicati in Italia, vengono scovati da editori assai sensibili e proposti al pubblico con la certezza di offrire una bella storia. Fazi lo ha già fatto con “Stoner” di John Edward Williams, contribuendo a creare un caso letterario, con “Il lungo sguardo” di Elizabeth Jane Howard e con “Cassandra al matrimonio”, con cui rischia di replicare il successo di storie che, nonostante siano ambientate -e soprattutto siano state scritte- in un passato abbastanza lontano, si affermano oggi per la loro attualità. Ciò che accomuna queste opere infatti è da una parte la modernità dei temi trattati, e dall’altra una freschezza di stile e di linguaggio, il cui merito è da ascrivere anche al lavoro dei traduttori (Stefano Tummolini per Williams e Baker e Manuela  Francescon per Howard), che ce le rende vicine.
Questa è la storia di Cassandra che, obtorto collo, torna da Berkeley -dove studia all’università- al ranch di famiglia per partecipare come damigella d’onore al matrimonio della sua gemella Judith. Non che non si fossero già separate fisicamente, l’una appunto a Berkeley e l’altra a New York, ma il matrimonio è un’altra cosa, il matrimonio significa separare ciò che la ragazza considera un tutt’uno, un’entità indivisibile, un connubio che non può essere dissacrato da un estraneo che si insinua e si porta via una metà indispensabile alla sopravvivenza dell’altra. Questo è il sentimento che accompagna Cassandra mentre torna a casa e nei tre giorni di permanenza al ranch, durante i quali cadono tutte le barriere, forzatamente tenute su dalla nonna e dal padre (la madre Jane è morta tempo prima) che conducono la loro esistenza e si preparano all’evento nuziale coerentemente con il loro modo di essere e incuranti del cataclisma che tutto questo comporterà nella vita della più debole delle due gemelle. Sì, perché malgrado l’ostentato cinismo, Cassandra è fragile (anche se Judith dice “c’è sempre stato un che di tigre, in Cassandra” p. 213), ha necessità di sostegno e di riconoscimento da parte di una sorella che ormai, matura, è interamente proiettata nel futuro (ma Cassandra confonde la maturità della sorella con una forma di mancanza di tatto e addirittura spietatezza, arriva anche a definirla ‘molto convenzionale’ e proprio per questo destinata ad essere felice, come se la felicità potesse risiedere nell’ordinarietà e viceversa come se l’originalità fosse l’anticamera dell’infelicità).
Cassandra è irrisolta, non sa immaginarsi fuori dalla coppia che fin dalla nascita ha formato con Judith, da cui la distanziano solo undici minuti, nel momento della nascita, e dalla quale ha viceversa sempre voluto distinguersi, a partire dal rifiuto di vestirsi in modo identico alla sorella, come vezzosamente avrebbe desiderato la loro nonna materna, salvo poi acquistare inconsapevolmente lo stesso abito, della stessa marca e dello stesso colore, già scelto dalla sua gemella per il giorno delle nozze. L’‘incidente’ dell’abito per la cerimonia di Judith sembra quasi minare la profonda e convinta esigenza delle gemelle di essere distinguibili almeno nell’abbigliamento, visto che fisicamente possono essere confuse facilmente: “Essere come noi non è facile, richiede una costante attenzione al dettaglio. Ci ho riflettuto tantissimo, ci abbiamo riflettuto entrambe. Come ho cercato di spiegare alla mia psicologa, si tratta di impegnarsi incessantemente per riuscire a essere il più diverse possibile: perché, affinché ci possa essere un ponte, prima dev’esserci uno spazio da attraversare. E il vero progetto è il ponte.” (p. 124), ovvero la possibilità e la capacità di essere legate, mantenendosi a distanza. Anche questo (si distinguono? Non si distinguono? Da cosa si distinguono?) è uno dei cliché che il ‘mondo esterno’ rovescia addosso ai gemelli. Ed è quel cliché che Cassandra avrebbe voluto da sempre rovesciare, rispedire ai mittenti, mantenendo il legame intimo con quella parte di sé, sua sorella, che invece ora se ne sta andando per la sua strada.
Il racconto di questi tre giorni di preparativi psicologici al grande evento sono raccontati alternativamente dalle due sorelle, in tre parti (parla cassandra, parla judith e di nuovo parla cassandra), dove la voce di Cassandra è quella che prevale. E lo stile che caratterizza le parti in cui le voci delle gemelle si cambiano il turno rispecchia il temperamento delle due ragazze, tanto indistinguibili fisicamente quanto nettamente identificabili caratterialmente.
Ho trovato la sintassi di Dorothy Baker molto moderna (non dimentichiamo che l’Autrice, originaria del Montana, è nata nel 1907), ma non so quanto questo si debba alla traduzione: i periodi sono molto ritmati, c’è una prevalenza di frasi brevi e la paratassi è preponderante, soprattutto nei soliloqui di Cassandra. Anche i dialoghi occupano una parte importante della narrazione, tanto che si potrebbe pensare a una sceneggiatura già quasi costruita.
Molto di Cassandra, del suo carattere e della sua storia viene analizzato da Peter Cameron nella postfazione al romanzo, ma lui lo può fare proprio perché il suo commento si legge alla fine, a carte scoperte. Lo scritto di Cameron rappresenta quindi un motivo in più per leggere questa storia, anche perché offre ulteriori spunti di riflessione rispetto a quelli che si maturano ad una prima lettura del romanzo di Dorothy Baker, con interessanti incursioni nell’unica prosa di Sylvia Plath, il romanzo “La campana di vetro” del 1963 la cui tormentata protagonista tanto ricorda la nostra Cassandra Edward (che nasce un anno prima, nel 1962).


[1] E questo è per dire dei vantaggi degli acquisti di libri su circuiti dell’usato, di cui gli studi di mercato non tengono abbastanza conto quando si parla di quanto si legge/non si legge in Italia (quando poi sono proprio i lettori più forti che si orientano verso il mercato del libro usato, per ovvi motivi di sopravvivenza economica, in prima istanza).

mercoledì 10 giugno 2015

Ultima lettura: "Omicidio al Giro" di Paolo Foschi


Omicidio al Giro

Autore: Foschi Paolo
Dati: 2015, 157 p., brossura
Editore: E/O

Lo scorrere del tempo
è la più grande porcheria del mondo,
pensava Igor Attila.

Siamo alla quinta avventura del commissario Igor Attila della Sezione crimini sportivi della questura di Roma, dopo "Delitto alle Olimpiadi", “Il castigo di Attila”, "Il killer delle maratone", e "Vendetta ai Mondiali". Stavolta la squadra coordinata dal commissario Attila è alle prese con un caso che apparentemente si potrebbe archiviare come incidente, ma che al fiuto investigativo del nostro eroe si palesa subito come sospetto. 
E non ha torto, Igor Attila: aiutato dai suoi uomini e dalla vice Chiara Merlo scoprirà che il ciclista Claudio Fallai, atleta favorito all’imminente Giro d’Italia, è vittima di un omicidio. Le indagini porteranno la squadra del commissario ‘rock’, amante della boxe, della velocità e del Calvados, a scoprire un giro di doping e traffici vari che rischiano di compromettere la reputazione della vittima e del suo entourage.
Photo HelenTambo on Instagram
Intorno a Attila si muove un gruppo di personaggi ormai familiari: i rapporti che li legano sono sempre più definiti mentre alcuni sono in evoluzione, ad esempio quello tra Igor e Chiara Merlo, sempre detestata per la sua aria da maestrina, ma anche stimata per la sua preparazione. Ed è in evoluzione anche il rapporto con l’eterno Titta: anche in questo ultimo romanzo, il compagno di Igor è più evocato che presente. Non si riesce nemmeno a immaginare fisicamente, non si vede, si sente e basta. Stavolta il motivo del contendere è il desiderio di paternità -e quindi di stabilità- che Igor sembra aver paura di assicurare a Titta ed è questa la causa dell’ennesimo allontanamento tra i due. Ma a questo punto della loro storia è evidente che il più problematico tra i due è proprio il commissario, sempre alle prese con i propri fantasmi, i vecchi rancori e i nuovi problemi, come se non fosse capace di godere del qui e ora.
Foschi continua ad occuparsi di sport in questa che ormai è una serie, con numerosi lettori affezionati. Lo stile è quello di sempre, asciutto e veloce, le storie sono sempre più mature e offrono spunti di riflessione su un mondo, quello dello sport, che per definizione dovrebbe essere pulito, ma –come fin troppo spesso le cronache ci raccontano- lo è sempre di meno.

giovedì 4 giugno 2015

Ultima lettura: "Basta poco per sentirsi soli" di Grazia Cherchi


Basta poco per sentirsi soli

Autore: Cherchi Grazia
Dati: 1986, 84 p., brossura
Editore: Tringale Editore (collana Quaderni di Letteratura) distribuzione Garzanti

«Tutti in Italia credono di saper scrivere un libro.
Ogni vita è un romanzo: mai espressione
è stata presa così alla lettera», dice Lucio guardandolo uscire

Nell’agosto di vent’anni fa, precisamente il 22 agosto 1995, moriva Grazia Cherchi, forse la più importante e influente editor che il mondo della letteratura italiana della seconda metà del Novecento abbia potuto conoscere. Di lei non sapevo nulla, perché sempre troppo poco si sa del lavoro ‘invisibile’ che si fa dietro le quinte di un successo letterario; a rendermela nota e a farmene sentire la mancanza, quando ormai era troppo tardi, è stato l’articolo di Gianni Riotta sul Corriere della Sera del 23 agosto 1995 Addio a Grazia Cherchi, signora ribelle della letteratura e in particolare le ultime frasi, che cito: “Cari lettori, da ora in poi leggerete libri più brutti. Abbiamo perduto la generosità e l'intelligenza della Grazia”.

Photo Elena Tamborrino

Da allora mi è venuta una specie di ossessione, avrei voluto leggere di più su di lei, conoscerla meglio, cercare i suoi libri (sì, perché la Cherchi è stata anche una scrittrice –anche fantasma per alcuni blasonati narratori-, oltre che la fondatrice della rivista di critica letteraria “Quaderni Piacentini”, la curatrice editoriale di Rizzoli, Mondadori e Feltrinelli, e la giornalista per Panorama, dove curava la rubrica di anticipazioni editoriali Vistosistampi) e in particolare questo “Basta poco per sentirsi soli”, che le parole di Riotta mi rendevano irresistibile. Se è stato relativamente facile trovare “Scompartimento per lettori taciturni” edito da Feltrinelli nel 1997, l’impresa di procurarmi il titolo che più desideravo si è rivelata per anni impossibile.
La storia editoriale di questo volumetto è complicata, sembra. Pubblicato la prima volta dall’editore Tringale di Catania, distribuito da Garzanti, è stato poi ripubblicato da E/O nella collana Dal mondo, ma attualmente non è più in catalogo e risulta da anni introvabile. Io l’ho fortunosamente e fortunatamente trovato nella sua prima edizione, ingiallita e usurata, su eBay, piattaforma web di e-commerce. E lo considero una specie di reliquia.
Si tratta di dodici brevi racconti in cui l’Autrice racconta i guasti e i capricci del mondo degli scrittori, soprattutto di quelli che si sentono tali («Hai notato che adesso scrivono soprattutto i non addetti ai lavori?» dico chiedendo un caffè. «Nell’ultimo mese ho letto romanzi di un giudice, un medico, due avvocati, un sociologo…» p. 63) e pone attenzione soprattutto alla distrazione con cui le persone spesso si relazionano tra loro, troppo poco abituate all’ascolto e sempre più autoreferenziali.


Ci sono pagine deliziosamente pungenti, in particolare il racconto “L’intervista” in cui la Cherchi sbeffeggia con garbo i molti giornalisti che “i loro pezzi li fanno soprattutto al telefono” e che si rivolgono al cosiddetto esperto del settore o a personaggi à la page pronti a rispondere a qualsiasi domanda, anche la meno pertinente, per improbabili e spesso inutili interviste. Con graffiante ironia afferma che “capita spesso che i giornalisti siano in possesso solo di vaghe informazioni sull’argomento di cui devono occuparsi. Per il resto si affidano all’estro del momento e alla collaborazione dell’intervistato”. Oggi molti ricorrono al web per documentarsi, quando la Cherchi scriveva queste pagine il villaggio globale era ancora lontano, eppure tutti i suoi racconti sono vividi e raccontano le persone e i loro atteggiamenti, tra ambizioni, tic e paranoie, come se fossero di oggi.
E proprio a questo proposito, mi sono chiesta cosa penserebbe oggi Grazia Cherchi dell’autopubblicazione selvaggia, dell’editoria in rete, di quella a pagamento. E cosa penserebbe dei tanti editori che oggi rinunciano al rigoroso lavoro di revisione dei manoscritti, riducendosi a fare gli stampatori? E cosa dei bookblogger? Per i primi credo proverebbe molta irritazione, ai secondi forse guarderebbe con un mezzo sorriso, ma non se ne farebbe accorgere, almeno non molto.
Insomma, “Basta poco per sentirsi soli” è una rarità che farebbe bene leggere a tanti fanfaroni del mondo dell'editoria, della scrittura e della critica letteraria (che però notoriamente sono allergici ai bagni di umiltà e si prendono troppo sul serio).
Ce ne fossero ancora di Grazia Cherchi a liberarci da sedicenti scrittori, sedicenti editori, sedicenti giornalisti e sedicenti critici letterari! Mi sono fatta un regalo incommensurabile leggendo questo libretto, che purtroppo è ormai introvabile.
Andrebbe ristampato, chissà che l'ultimo editore E/O non ci pensi. Intanto io sono contenta di aver rincorso per anni questo libro, di averlo atteso e cercato senza sosta, parlandone a chiunque con la speranza che altri lo conoscessero e mi potessero fornire qualche notizia sul suo destino editoriale, finché non sono riuscita ad averlo. Lo considero prezioso, da rileggere ogni volta che avrò voglia di distaccarmi dalle umane miserie (cosa che mi succede sempre più spesso, sarà che con l’età aumenta il grado di intolleranza verso la mediocrità, molto spesso coniugata alla supponenza).
Mi piace chiudere con la poesia che uno degli scrittori che Grazia Cherchi ‘curava’, Stefano Benni, le ha dedicato:
Grazia ha telefonato:
"Finalmente mi hai mandato
un vero romanzo
asciutto e stringato".
Grazia, da mesi di dirtelo tento,
era la lettera di accompagnamento