sabato 31 ottobre 2015

Sul comodino: letture compulsive (e disordinate)


Letture compulsive

Mai come in questo momento mi divido tra diverse letture in contemporanea. Fino a poco tempo fa mi capitava di rado di dedicarmi a più libri nello stesso tempo e, se accadeva, doveva trattarsi di generi molto diversi. Insomma, leggere più romanzi nello stesso periodo, almeno tanti come adesso, non mi era mai successo. ‘Colpa’ del social reading, ma anche grazie al social reading, una pratica di lettura condivisa attraverso gruppi di lettura più o meno strutturati, che si scambiano commenti, impressioni, incoraggiamenti, attraverso i principali social network: ce ne sono molti organizzati su Goodreads, molti su Facebook, esiste la comunità di TwLetteratura, che del gioco letterario della twitteratura (a proposito, il termine è ormai entrato nel vocabolario Treccani![1]) a partire da una lettura condivisa, fa un manifesto. E poi ci sono i gruppi di lettura che nascono in ambiti precisi, la scuola ad esempio, o i salotti letterari che si riuniscono periodicamente per parlare di un libro. Di tutto questo non mi faccio mancare nulla, da buona lettrice senza troppi pregiudizi rispetto magari a qualche titolo che di primo acchito non mi ispira.
Non è certo il caso dei libri che sto leggendo in questo periodo così intenso, nel senso che per tutti questi non ho avuto alcuna remora, ma anzi ho nutrito curiosità già in passato, ho sentito il bisogno di accostarmici, qualcuno è una scoperta, per un altro si tratta di una rilettura, a distanza di oltre trenta anni.
Photo Elena Tamborrino

Ma andiamo con ordine (non di inizio, ché tanto non me lo ricordo); per i primi due volumi indico qui le ultime edizioni disponibili (dei Fratelli è quella che possiedo, acquistata per l’occasione, mentre del romanzo della Viganò ho l’edizione stampata nel 1972), di Satta e di Dahl le edizioni che possiedo (de “Il giorno del giudizio” Adelphi ha pubblicato l’edizione economica nel 1990, collana Gli adelphi; del libro di Roald Dahl esistono moltissime edizioni, anche in versione pop-up e in ebook, l’ultima del 2014 sempre per Salani, mentre Einaudi l’ha pubblicata nel 1999 nella collana Einaudi Scuola, a c. di Tea Noja).
  
I fratelli Karamazov

Autore: Dostoevskij Fëdor
Traduz.; Villa Agostino
Dati: 2014, 1033 p., brossura
Editore: Einaudi (collana Einaudi tascabili. Biblioteca)

Sforzatevi di amare il vostro prossimo
attivamente e ininterrottamente.
Nella misura in cui avanzerete nell’amore,
acquisterete anche la convinzione dell’esistenza di Dio,
e quella dell’immortalità dell’anima.

Nella vita prima o poi i russi ti toccano. Russi inteso come Grandi Scrittori Russi. Da tempo corteggiavo l’idea di accostarmi a Dostoevskji, o a Tolstoj o a Cechov, del quale comunque avevo letto qualche racconto, probabilmente per una specie di condizionamento determinato dagli studi liceali e sentivo che non aver letto nulla dei grandi romanzi che questi scrittori hanno scritto rappresentava una grave lacuna, considerando anche il mio lavoro di insegnante di materie letterarie. Così mi sono sicuramente fornita negli anni di titoli anche cronologicamente lontani come Anna Karenina di Tolstoj e Il dottor Živago di Pasternak, Le notti bianche e Il giocatore di Dostoevskji, Il Maestro e Margherita di Bulgakov e Le anime morte di Gogol’, tanto per portarmi avanti con il lavoro, ma senza avere il coraggio di cominciare a leggerli (con l’eccezione de Il giocatore, letto lo scorso anno a scuola con i miei alunni, senza particolari entusiasmi, soprattutto da parte loro).
È stato provvidenziale l’incontro con il gruppo di lettura di Maria Di Biase del blog Scratchbook (qui la pagina FB del blog https://www.facebook.com/scratchbookblog/) con il quale ho già affrontato Infinite Jest (ne ho parlato qui) che ha proposto di leggere insieme “I Fratelli Karamazov”. Le prime impressioni, che riporto qui dopo averle già scritte negli spazi di condivisione del gruppo, sono state determinate da sensazioni di profondità e allo stesso tempo, con la sapienza magistrale di chi sa cambiare registro senza compromettere l’omogeneità del testo, di leggerezza. Solo nelle prime cento pagine l’Autore passa a parlare di menzogna ("Chi mente a se stesso e presta ascolto alle proprie menzogne, arriva al punto di non distinguere più la verità, né in se stesso, né intorno a sé.") alla distinzione esilarante tra Spirito Santo e Santo Spirito, che può scendere in forma d'uccello che ha voce umana e che avvisa se verrà un balordo a rivolgere domande insulse. La capacità di Dostoevskij di scandagliare l’animo umano, parlando ad esempio, oltre che del mentire a se stessi fino a convincersi che quella menzogna è invece verità, anche di suscettibilità, dell'immaginarsi un'offesa ("sa che lui stesso ha mentito per comporne un quadro, ha spaccato in quattro ogni parola e d'un fuscello ha fatto una montagna") con la conseguenza di un rancore certo. Altro punto importante, a mio parere, delle prime cento pagine è la descrizione dell'imbarazzo di Alëša il cui sguardo va verso la giovane Lisa, la cui infermità lo attrae e lo respinge insieme: a chi non è capitato di indugiare con lo sguardo dove non si vorrebbe/dovrebbe guardare? Ecco, Dostoevskij lo descrive in modo davvero mirabile. E poi già solo nei primi capitoli il narratore discetta sul rapporto tra Stato e Chiesa, sul concetto di colpa ("Ricorda soprattutto che non puoi essere giudice di nessuno. Perché non vi può essere sulla Terra nessuno che giudichi un criminale se prima non abbia riconosciuto di essere egli stesso un criminale come chi gli sta dinanzi, e di essere forse il maggior colpevole del delitto da questi commesso. [...] Perché se io fossi giusto, forse non vi sarebbe neppure il criminale dinanzi a me.", questo passo nella traduzione di Nadia Cicognini e Paola Cotta, ed. Mondadori 1994), su senso dell’onore e della malvagità ("Se poi la malvagità degli uomini suscitasse in te un'indignazione e una contrarietà irrefrenabili, a segno di farti sorgere un desiderio di vendicarti sui malvagi, abbi timore di questo sentimento più di ogni altra cosa.").
Anche in Dostoevskij c'è tutta l'umanità (e le miserie del mondo) e l’attualità. Come in Manzoni.
Siamo a metà dell’impresa, che si concluderà il prossimo 13 dicembre e, nonostante l’affanno dello star dietro alle tappe, l’esperienza si sta rivelando totalizzante.

L’Agnese va a morire

Autore: Viganò Renata
Dati: 2014, 256 p., brossura
Editore: Einaudi (collana Einaudi tascabili. Scrittori)

Io non so sparare.
Gli ho dato un colpo così.

Questo con il romanzo di Renata Viganò, partigiana e scrittrice, è per me un ritorno. Ho letto “L’Agnese va a morire” quando ero studentessa di liceo e seguivo le suggestioni della narrativa neorealista, a partire da “La ragazza di Bube” di Carlo Cassola, passando per il Calvino de “Il sentiero dei nidi di ragno” e da “Uomini e no” di Vittorini: furono anni di letture molto importanti e il ricordo si rinnova spesso, quando mi sorprendo a risfogliare queste edizioni tascabili che ormai si stanno spaginando.
Nell’ambito degli argomenti che tratterò a scuola con i miei ragazzi di quinta, ho pensato che non ci sia modo migliore, anche quest’anno, di far parlare i testi letterari invece che i manuali di Letteratura, o meglio che questi ultimi siano indispensabili, ma subordinati alla voce ancora viva degli scrittori che hanno vissuto la Resistenza e hanno sentito l’urgenza di raccontarla. Così il nostro percorso è iniziato da Agnese, la lavandaia delle valli di Comacchio alla quale i nazisti portano via il marito Palita: l’esistenza di questa donna tranquilla e riservata sarà sconvolta dalla perdita, ma troverà riscatto nella partecipazione alla lotta partigiana.
Non ricordo come arrivai a questo romanzo, se dietro indicazione della mia insegnante di Italiano, se da sola frequentando librerie; so che mi colpì molto questa figura di donna affaticata, pesante, goffa eppure coraggiosa e agile all’occorrenza, una che si caricava la bicicletta sulle spalle per attraversare passaggi fangosi dove affondava i suoi grandi piedi, chiusi nelle ciabatte sformate, una che caracollava sulle due ruote, in precario equilibrio su sentieri dissestati e sotto lo sguardo dei soldati che mai avrebbero sospettato di una vecchia così malmessa, che invece nascondeva sotto i cumuli di biancheria da lavare, esplosivi e dispacci per i compagni partigiani nascosti tra le paludi. Il fascino di Agnese mi ha conquistato da ragazzina e vedo che lo fa anche adesso: è impossibile non partecipare al suo sordo dolore, quello che non le fa sentire la fame e il freddo, è impossibile dimenticare il suo sguardo cupo e le sue parole misurate. Non so se anche nei miei ragazzi si riflettono le stesse mie emozioni: avremo modo di parlarne, la fine della lettura condivisa di “L’Agnese va a morire” terminerà entro la prossima settimana, ne discuteremo in classe e poi vedremo insieme il film che nel 1976 ne è stato tratto, per la regia di Giuliano Montaldo (e una grandissima Ingrid Thulin che interpreta Agnese).

Il giorno del giudizio

Autore: Satta Salvatore
Dati: 1979, 292 p., brossura
Editore: Adelphi

Il guaio è che amare è una cosa difficile,
ed è più facile essere grandi scienziate e grandi scrittrici,
 come ce ne sono state.
 Perché l’amore non è volontà, non è studio,
 non è quel che si dice genio,
è intelligenza, la vera sola misura della donna,
e anche dell’uomo.

Di Salvatore Satta non conoscevo nemmeno l’esistenza: è stato un grande giurista, rinomato per le sue pubblicazioni di Diritto e Procedura civile, ma anche un narratore apprezzato. Le sue opere di narrativa sono solo tre, delle quali solo “De profundis” è stata pubblicata la prima volta nel 1948 dall’editore Cedam di Padova (e poi nel 1980 e nel 2003) sotto la cura dell’Autore, mentre le altre due opere sono state pubblicate postume (“Il giorno del giudizio” nel 1977 ancora da Cedam e poi da Adelphi l’anno successivo, e “La veranda” nel 1981 da Adelphi).
Ma è “Il giorno del giudizio” a diventare caso letterario internazionale, tradotto in molte lingue. Più volte ho affermato che l’incontro con la comunità di TwLetteratura mi ha permesso di conoscere e leggere opere alle quali non avevo mai pensato di avvicinarmi: è la forza del gruppo, della condivisione e di un modo di vivere la cultura che riunisce molte persone, anche diversissime tra loro, pronte al confronto continuo. In questo periodo il progetto #TwSatta, in collaborazione con la comunità dei lettori sardi Lìberos, riempie le mie giornate di lettrice disordinata e compulsiva.
La voce narrante ci accompagna in una Nuoro dolente e rassegnata, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, specchio di una società arcaica e rinunciataria come tanti autori sardi ce l’hanno consegnata, quasi che la Sardegna fosse scrigno di identità complessa e imperscrutabile più di qualsiasi altro luogo (“La gente di Nuoro sembra un corpo di guardia di un castello malfamato: cupi, chiusi, uomini e donne, in un costume severo, che cede appena quanto basta alla lusinga del colore, l’occhio vigile per l’offesa e per la difesa, smodati nel bere e nel mangiare, intelligenti e infidi.”). In un palazzotto dall’architettura ardita (sviluppato in altezza, fatto di enormi scalinate e stanze che si inseriscono l’una nell’altra, di mezzanini e studioli nascosti) vive Don Sebastiano Sanna, notaio, con la moglie Donna Vincenza, una donna sfatta dalle gravidanze e dalla mancanza di amore, a parte quello dei numerosi figli. Una famiglia che con la nascita del settimo figlio ha concluso in se stessa il ciclo, allontanando definitivamente i coniugi l’uno dall’altra e relegandoli a custodi di un simulacro svuotato da qualunque manifestazione affettuosa. Attorno a casa Sanna si muove un mondo di anime perse, rievocate nel ricordo dalla voce narrante, che passa in rassegna i personaggi che popolano l’unico loro vero ‘luogo comune’, come recita il risvolto di copertina, la morte.
Anche qui, come per i Karamazov, sono a metà dell’opera: l’8 novembre si concluderà la riscrittura su Twitter di #TwSatta.



La fabbrica di cioccolato

Autore: Dahl Roald
Traduz.:Duranti Riccardo
Illustrazioni: Blake Quentin
Dati: 2005, 200 p., rilegato
Editore: Salani (collana Istrici d’oro)

«La fabbrica di Cioccolato Wonka è davvero la più grande del mondo?»

Nonostante questo libro di Roald Dahl sia molto famoso, tanto da contare molte traduzioni e innumerevole ristampe e tanto da dare origine a due trasposizioni cinematografiche altrettanto popolari (“Willy Wonka and the Chocolate Factory” del 1971 con Gene Wilder, sceneggiato dallo stesso autore e diretto dal regista Mel Stuart, e “Charlie and the Chocolate Factory” del 2005 di Tim Burton) la sua lettura mi mancava totalmente. Mi mancava probabilmente anche per una forma di pigrizia mentale, visto che la letteratura per i ragazzi non mi attira, fatta eccezione per quei libri considerati grandi classici dalla mia generazione; e poi semplicemente non mi è mai capitata.
In realtà mi devo ricredere: questa è senza dubbio una lettura per i più piccoli, ma anche molto per i grandi, per capire che genitori siamo, sempre pronti a soddisfare i desideri dei nostri figli prima ancora di dar loro il tempo di esprimerli. E per capire che insegnanti siamo, quali valori trasmettiamo.
Lo leggo con i miei ragazzi di seconda superiore, che mi hanno chiesto di partecipare a #TwWonka, il progetto in creative commons ideato da Maria Cristina Berti e Erika Pucci e realizzato con il metodo  TwLetteratura
: ritmi blandi, meta ancora lontana, siamo solo al nono capitolo, ma già abbiamo conosciuto il piccolo Charlie Bucket e la sua famiglia. Questa famiglia (papà, mamma, figlio e quattro nonni, tutti in due stanze e un solo letto) è talmente povera da non potersi permettere nulla, ma nonostante ciò non vuole rinunciare a regalare almeno una volta l’anno, nel giorno del suo compleanno, una tavoletta di cioccolato Wonka al piccolo Charlie, che è un bambino molto buono e diligente: cinque biglietti d’oro nascosti nell’incarto di cinque tavolette di cioccolato Wonka rappresentano l’opportunità di visitare la famosa fabbrica di Willy Wonka. I bambini che fino al capitolo 9 hanno trovato il biglietto d’oro sono tutti odiosi e viziati, siamo in attesa di sapere se il piccolo Charlie sarà baciato dalla fortuna in qualche modo, anche se restano ben poche speranze.


s. f. L’opera letteraria narrativa, sia come creazione originale sia come riscrittura di opere celebri, ridotta entro la misura dei centoquaranta caratteri di cui si compone un messaggio (tweet o cinguettio) in Twitter®.
• [tit.] Twitteratura, “a scuola smontiamo Manzoni in 140 battute” (repubblica.it, 12 marzo 2014, ‘Cronaca Firenze’).
• “Twitteratura”, ovvero l’arte trasformata in tweet: mira a sfruttare e stimolare la lettura utilizzando strumenti che ognuno di noi ha a portata di mano, ossia un libro, uno smartphone (tablet o pc), una connessione internet, un account Twitter, con l’obiettivo di riscrivere, e quindi rileggere grandi opere della letteratura come “Le città invisibili” di Italo Calvino (corriere.it, 19 marzo 2014, ‘Cultura’).
Dall’ingl. twitterature o sul suo modello; derivato dal marchionimo Twitter® incrociato con il s. (letter)atura, ingl. liter(ature). Già attestato nel sole24ore.com, 14 novembre 2009, ‘Cultura & Tempo libero’ (Serena Danna).

sabato 24 ottobre 2015

Ultima lettura: "La garçonne" di Victor Margueritte


La garçonne

Autore: Margueritte Victor
Traduttore: Lupieri Giulio
Dati: 2014, 268 p., brossura
Editore: Sonzogno (collana BitterSweet)

«Temo certe idee,
ma non ho paura delle parole»

Con una certa curiosità ho acquistato questo romanzo di Victor Margueritte, dopo averne letto la recensione di Irene Bignardi, che cura la collana BitterSweet di Sonzogno, su Vanity Fair qualche mese fa. Mi incuriosiva soprattutto conoscere la storia di una donna che, in un arco di tempo relativamente breve, in pieni anni ruggenti dello scorso secolo, si trasforma da ragazza “dedita agli sport, franca e sincera, casta com’era bionda: naturalmente”, inserita nella società borghese della Parigi degli anni Venti (quando un buon matrimonio poteva essere anche un buon affare), semplice nei sentimenti e nelle aspettative, a simbolo dell’emancipazione femminile, indipendentemente dai primi movimenti femministi che già avevano cominciato a far sentire la loro voce.
Photo Elena Tamborrino
In seguito a una delusione d’amore (il fidanzato Lucien la tradisce alla vigilia del matrimonio e lei lo lascia senza concedergli nessun’altra possibilità, nonostante le insistenze della famiglia), la giovane Monique si dà al primo sconosciuto che incontra, per il solo gusto di buttare via ciò che di più prezioso pensava di avere, la propria verginità (per la verità già concessa proprio al fidanzato, ma con la certezza dell’imminente matrimonio, il che l’aveva salvaguardata dall’idea dell’aver fatto qualcosa di troppo peccaminoso). Questo episodio, che con aria di sfida confessa sia ai genitori sia all’ormai ex fidanzato, la porterà all’emarginazione dalla famiglia, dalla quale peraltro si allontana senza rimpianti, specie perché non c’è più la zia Sylvestre, presso il cui collegio nella campagna di Hyères Monique è cresciuta, a cui appoggiarsi. Ritroviamo la giovane donna qualche tempo dopo: i suoi capelli sono corti e color mogano e diventeranno l’emblema del suo cambiamento, che non è solo esteriore. Il taglio alla garçonne che, del tutto inconsueto per l’epoca ma destinato a fare tendenza, da lei prenderà il via, diventa il passaporto per la completa emancipazione della giovane donna, che passerà anche attraverso esperienze estreme: sesso, droghe, amicizie trasgressive, un lavoro artistico che le darà ricchezza e fama.
Nella terza parte del romanzo, si completa la parabola degli eccessi di Monique: sembra quasi che si chiuda il cerchio e che la donna recuperi la possibilità di essere felice, senza dimenticare che ciò che alla fine può avere è anche frutto della sua maturazione dolorosa.
Il romanzo, definito scandaloso, costò al suo Autore la restituzione della Legione d’Onore con la quale era stato insignito appena un anno prima della pubblicazione de “La garçonne”, per il suo impegno nella trattare nei suoi scritti la questione femminile. Tuttavia lo scandalo da cui fu investito fu quasi una fortuna: la storia di Monique ispirò quattro film nell’arco di sessantacinque anni (il primo è del 1923, l’ultimo del 1988, il più famoso forse è quello del 1936, cui partecipò una giovanissima Edith Piaf, al suo debutto), il taglio “alla maschietta” diventò di gran moda, le donne assunsero un nuovo modo di vivere, di pensarsi all’interno della società, di ridistribuire ruoli e posizioni anche all’interno della coppia.
Colpiscono in particolare le pagine dedicate alle esperienze sessuali di Monique: il suo iniziale pudore, quello con il quale si presenta al lettore nelle prime pagine del romanzo, si trasforma in totale liberazione, che porta la protagonista a non risparmiarsi nessuna trasgressione, tra rapporti occasionali, amicizie ambigue, sesso di gruppo.
Non sorprende quindi che un romanzo in cui di una fille méchante si dice bene, assumendola a rappresentazione esemplare di un nuovo modo di vivere la femminilità, sia stato condannato dalla morale comune dell’epoca, quindi censurato, e tuttavia abbia riscosso un grande successo, sia pure non duraturo in Francia. Solo lo scorso anno infatti è stato riscoperto e riedito, per poi arrivare in Italia, accolto in questa nuova collana di Sonzogno, BitterSweet, dedicata al recupero di testi del primo Novecento “Dalle donne, sulle donne, per le donne”.
Sarà da tenere d’occhio quindi questa collana, nata per raccontare il cambiamento della società e dei costumi, in rapporto alla condizione femminile all’inizio del Novecento.
Al suo annuncio lo scorso anno, la curatrice Irene Bignardi, così la presentava: «Una collana, Bittersweet, che non ho cercato ma che mi è venuta incontro mentre ero alla ricerca di una lettura “facile” e intelligente, rovistando nella vecchia biblioteca di famiglia, negli scaffali della nonna e della mamma. Una collana di libri che ci parla del passato recente, della nostra storia di persone, con lo charme di una scrittura apparentemente semplice. Letture scelte per il puro piacere di leggere».


venerdì 16 ottobre 2015

Ultima lettura: "Scomparso" di Ferdinando Albertazzi


Scomparso

Autore: Albertazzi Ferdinando
Dati: 2015, 113 p., rilegato
Editore: Mondadori Electa (collana ElectaYoung)

È scomparso, chissà perché e dove.
Fine della storia.
Invece è proprio adesso che la storia comincia.

Con queste parole termina il primo capitolo di questo breve romanzo che racconta della scomparsa del sedicenne Bobo e delle affannose ricerche che coinvolgono sua madre Ivana, il suo migliore amico, nonché compagno di scuola, Diego e il commissario Tarcisio Zanella, “un friulano imponente cresciuto a polenta e grappa”. Il padre di Bobo è assente nel racconto (se non marginalmente ricordato e solo perché si trova in viaggio nell’altra parte del mondo) e anche nella vita di Bobo.
Photo HelenTambo on Instagram

La tradizionalissima struttura di questa famiglia (papà, mamma e un figlio, come quasi impongono i nostri tempi, in cui fare figli e soprattutto seguirli è diventato un lusso e anche un peso), la tipologia dei genitori (quelli che fanno gli amiconi, che stanno sempre a inseguire la gioventù che sfugge inesorabilmente dalle mani e non si decidono mai a crescere davvero), la scuola e alcuni insegnanti, piccoli detentori di potere (piccolo anche quello, in grado tuttavia di demolire le personalità in formazione degli adolescenti), rendono un’immagine chiara del contesto in cui matura la sparizione del ragazzo.
Dopo le prime ventiquattro ore in cui nessuno si preoccupa del fatto che Bobo non sia rientrato a casa dopo le lezioni, dal momento che ogni tanto –senza avvisare- si allontanava pernottando fuori casa, Ivana denuncia la scomparsa del figlio.
Il racconto si articola in capitoli in cui la voce narrante è l’amico Diego che parla in prima persona, coinvolto fin dal primo momento nelle indagini, e altri in cui un narratore esterno racconta il susseguirsi degli eventi.
Il commissario Zanella si dimostra uomo pratico e capace, riesce a inquadrare subito le persone con cui ha a che fare, la frivola e infantile Ivana e il reticente Diego. La soluzione al giallo sarà più vicina di quanto si pensi, e allo stesso tempo imprevedibile e capace di tenere il lettore in sospeso fino all’ultima pagina.
Ma al di là della storia, misteriosa e quindi particolarmente intrigante, sono altri gli aspetti che di questo romanzo di Ferdinando Albertazzi (autore specializzato in letteratura noir per ragazzi e della serie “Camilla” per i tipi de “Il Battello a Vapore”, curatore di una rubrica su “Tuttolibri, il settimanale de “La Stampa”, dedicata alle letture per i giovani) mi hanno colpito. Forse proprio per la frequentazione dell’immaginario adolescenziale che ha caratterizzato sempre la produzione di Albertazzi, e per il fatto che si è sempre rivolto al mondo dei bambini e dei giovani, la sua capacità di indagare in quella che è la misteriosa (per gli adulti) psiche dei ragazzi offre al lettore la possibilità di riflettere su tanti aspetti della società contemporanea, sul rapporto genitori-figli, tema da sempre indagato ma stavolta con la variante dei genitori che sono più figli dei figli, sulla necessità che a volte i nostri ragazzi hanno di richiedere attenzione. E il racconto si snoda fluido, facendoci scoprire modi di vedere la realtà che ruota intorno agli adolescenti, dal loro punto di vista: è un libro che piacerà ai ragazzi, ma che sarà di stimolo a molti adulti.
Una sola nota stonata: a p. 76, nella descrizione fisica di Luigi Raffaele Carta, collega sardo del commissario Zanella, si parla di “sopracciglia cispose”; voglio sperare che le sopracciglia del buon Carta, siano solo cespugliose.
ElectaYoung è una nuova collana della casa editrice Mondadori Electa che dedica ai lettori adolescenti romanzi che “spaziano dal fantasy al thriller, dall’avventura al paranormal romance, dal diario intimo al racconto d’avventura”: è un marchio che al suo esordio il 22 settembre scorso è uscito con quattro titoli che destano interesse per tematiche e contesti. “Scomparso” in particolare ferma l’attenzione sulle irrequietezze dei ragazzi e allo stesso tempo lancia messaggi di speranza per una gioventù capace di prendere in mano la propria vita.

venerdì 9 ottobre 2015

Una lettura: "Infinite Jest" di David Foster Wallace


Infinite Jest

Autore: Wallace David Foster
Traduttore: Nesi Edoardo, con la collaborazione di Villoresi Annalisa e Giua Grazia
Dati: 2006, 1281 p., brossura
Editore: Einaudi (collana Einaudi Stile libero Big)

[scoprirete] Che le alleanze tra pochi e l'esclusione degli altri
e i pettegolezzi possono essere forme di fuga.
Che la validità logica di un ragionamento
non ne garantisce la verità.
Che le persone cattive non credono mai di essere cattive,
ma piuttosto che lo siano tutti gli altri.

Se non ci fosse stato un gruppo di lettura su Facebook a cui aggregarmi, non avrei mai intrapreso la lettura di “Infinite Jest” e se lo avessi fatto, probabilmente mi sarei arresa prima di finirla. Non certo per la mole del volume, anche se la dimensione del carattere rende ancora più impegnative e faticose le pagine, al di là della quantità (1179 pagine, a cui se ne deve aggiungere un altro centinaio per le note, scritte in corpo ancora più piccolo), ma perché non sarebbero bastate le mie buone intenzioni per fare una lettura del genere in solitaria. E se avessi mollato sarei stata in buona compagnia, visto che sono molti i lettori che hanno abbandonato l’impresa, in momenti diversi, chi all’inizio, chi a metà, chi quasi in fine, stremati tutti. Invece un gruppo di lettura diventa indispensabile strumento di sostegno, ti costringe al confronto, ti stimola e spesso ti conforta. L'adesione al gruppo di lettura Scratchmade (descritto come “gruppo di lettura a massima improvvisazione e a più vasta estensione”) di  Maria Di Biase ha contribuito alla motivazione, altrimenti debole.
Bisognava organizzarsi e quindi: quindici tappe dal 2 marzo al 14 giugno di quest’anno, per una media di ottanta pagine a settimana (dieci pagine al giorno o poco più), tre mesi e mezzo di lettura sistematica e feedback con i compagni di avventura.
Photo HelenTambo on Instagram
In ogni caso alla fine sei solo con questo mattone, anche scomodo da tenere in mano e da portarti appresso e così da una parte c’è il gruppo (prezioso) e dall’altra ci sei tu, che comunque devi leggere, hai scelto di leggere “Infinite Jest” (da ora in avanti #IJ), scritto nel 1996, dodici anni prima della morte per suicidio del suo Autore.
Di Wallace avevo letto in precedenza solo "Una cosa divertente che non farò mai più", che -nonostante l'entusiasmo di molti lettori- mi ha lasciato abbastanza indifferente. Anzi, se proprio devo dirla tutta, la faccenda delle note in fondo mi aveva lasciato un certo senso di fastidio: ritrovarmele anche in #IJ, tutte insieme e quasi illeggibili sia per le dimensioni del carattere utilizzato, che per il contenuto spesso distraente dal fluire della narrazione, non deponeva a favore del romanzo. Una scelta che ho fatto in totale autonomia è stata quindi quella di rinunciare alla lettura delle note in #IJ: mi affaticavano, mi irritavano. So che probabilmente ho perso molto del senso della storia (se Wallace le ha scritte, chiaramente è stato perché fossero lette, ma in questo caso mi sono appellata al solito Pennac, che ha una soluzione per ogni esigenza di lettore), ma è stata una privazione che ha contribuito a non farmi abbandonare il romanzo. Al termine della prima tappa, l’8 marzo, riconoscevo pagine divertenti, alcune illuminanti, molte deliranti. L'impressione sottile è stata da subito che Wallace si sia molto divertito a prenderci un po' in giro, standosene da qualche parte a sganasciarsi dal ridere guardando noi, armati di carta e penna, impegnati a fare su e giù dal testo alle note.
D’altronde quando parliamo di Wallace, parliamo di un mito, o almeno così sembrerebbe. Quindi scegliere di leggere #IJ, uno dei suoi capolavori, se non IL capolavoro, mi è sembrato giusto, un po' come darmi (e dare a Wallace) un'altra possibilità.
All’inizio, a parte qualche brano folgorante, mi sembrava il racconto della supercazzola (per una utile definizione di "supercazzola"), non riuscivo a capirci quasi nulla.
 Ma considerando l'aura dalla quale Wallace buonanima è avvolto, e soprattutto considerando il mito intorno a #IJ, sono andata avanti fiduciosa. E ho avuto ragione, perché bisognava solo attendere di entrare nel loop della narrazione e lasciarsi trascinare senza porsi troppe domande, senza tentare di capire proprio tutto. Man mano che procedevo avevo l’impressione di fare quasi un'esperienza mistica, una di quelle che ti fanno venire le allucinazioni, che ti fanno chiedere ‘che ci sto a fare qua e soprattutto perché?’. Ma si è innescata anche una sorta di dipendenza, tanto che al termine del lungo viaggio dalle parti della “Ennet House, passando per i campi da Tennis dell'E.T.A., con qualche deviazione lungo le strade di Boston” per dirla con Paola C. Sabatini, una delle componenti del gruppo di lettura (o psicanalisi, o di aiuto come gli Alcolisti Anonimi) è facile chiedersi ‘e ora?’.
Se mi chiedono di che parla #IJ non so cosa rispondere di preciso. Dentro c’è di tutto: l’adolescenza, il tennis, varie forme di dipendenza, tra cui quella da sostanze stupefacenti e da intrattenimento che si concretizza nella visione di film in homevideo dette ‘cartucce’, il recupero dei drogati, l’abuso sui minori, la pubblicità, il rapporto genitori-figli, l’autorità, la morte e la continua sensazione di sgradevolezza determinata da immagini particolarmente disgustose: #IJ è il trionfo dei fluidi organici (sudore, sangue, vomito, diarrea) e delle puzze, descritti con tanto realismo che ti sembra di esserci immerso. Cerco tuttavia di fare una specie di analisi degli elementi:
·      QUANDO: in un futuro non meglio identificato, caratterizzato dal nome degli anni, attribuito da grandi gruppi commerciali che fanno da sponsor (ad esempio, ritorna ciclicamente l’Anno del Pannolone per Adulti Depend o l’Anno della Saponetta Dove in Formato Prova).
·      DOVE: in senso più ampio, nella grande nazione O.N.A.N. formata dagli Stati Uniti, dal Canada e da Messico, con il Quebec che promuove forti tendenze separatiste; in senso più ristretto l’azione si svolge in un teatro che spazia tra l’Accademia di tennis fondata da James Incandenza e la comunità di recupero Ennet House, nei pressi di Boston.
·      CHI: il sistema dei personaggi è molto complesso. Al centro di tutto c’è la voce narrante, quella del giovane Hal Incandenza, figlio di Avril Mondragon Incandenza (la Mami) e James Incandenza (detto Lui in Persona, morto suicida –mette la testa in un forno a microonde, non chiedete come, ma lo fa-), regista di molte cartucce, la più importante delle quali è appunto “Infinite Jest” (“Come la maggior parte dei matrimoni, quello di Avril e del defunto James Incandenza fu un prodotto evoluto di accordo e compromesso, e il curriculum scolastico dell'Eta è il prodotto di negoziati e compromessi fra la tostaggine accademica di Avril e l'acuta consapevolezza della prassi atletica di James e Schtitt.”). Hal ha due fratelli più grandi di lui, Orin e Mario, che soffre di un grave handicap. Intorno a loro si muove una pletora di personaggi che animano una vicenda quasi psichedelica. Qualcuno ha provato a organizzare in forma grafica il sistema dei personaggi, che quindi così è stato schematizzato:


Il personaggio che più capisco in #IJ e per il quale provo un sentimento è la drag queen Povero Tony: rappresenta il disfacimento totale, la disperazione e lo squallore di un’esistenza sprecata. Le pagine che a lui Wallace dedica sono tra le più dure, ma anche le più tenere e a volte anche divertenti. Un altro personaggio interessante è Gately, il custode e consigliere della Ennet House, ex tossico quasi completamente riabilitato (a lui si deve uno dei pochi passi romantici del romanzo: “La cosa più sessuale che Gately fece mai con Pamela Hoffmann-Jeep era aprire il suo bozzolo di coperte e intrufolarsi dentro e avvinghiarsi a lei e riempire con la sua massa tutti i suoi morbidi posti concavi, e poi addormentarsi con la faccia sulla sua nuca.”).
·      COSA: molto delle vicende narrate ruota intorno allo smarrimento della cartuccia di “Infinite Jest” il film di James Incandenza che è in grado di provocare reazioni abnormi in chi lo vede, tanto da essere considerato uno strumento di distruzione psichica, chi assiste alla sua proiezione non può più fare a meno di guardarlo e riguardalo fino ad annullarsi totalmente. La protagonista del film di Lui in Persona è Joelle Van Dyne, alias Madame Psychosis, detta anche la Più Bella Ragazza Di Tutti i Tempi, un personaggio misterioso (non meno di altri, in realtà). Il resto dei fatti è qualcosa di molto confuso, in cui districarsi diventa una vera impresa nell’impresa. Tuttavia alcuni passi sono di una lucidità estrema, tanto da consentire il riconoscimento di un intreccio comprensibile, con un significato accessibile: sono le pagine, a mio parere, dedicate alla Cosa (“La Cosa è un livello di dolore psichico completamente incompatibile con la vita umana come la conosciamo. La Cosa è un senso di male radicato e completo, e non è una caratteristica ma piuttosto l’essenza dell’esistenza cosciente”) e al Rifiuto (il parto di una tossicomane che dà alla luce un bambino già drogato che non ha fatto in tempo a formarsi interamente nel suo grembo e lei lo tiene attaccato a sé, una cosa morta che si va disfacendo).
Un tema ricorrente è quello del suicidio, legato alla Cosa. A p. 835 Wallace espone la teoria secondo la quale “La persona che ha una cosiddetta «depressione psicotica» e cerca di uccidersi non lo fa aperte le virgolette «per sfiducia» o per qualche altra convinzione astratta che il dare e l'avere della vita non sono in pari. E  sicuramente non lo fa perché improvvisamente la morte comincia a sembrarle attraente. La persona in cui l'invisibile agonia della Cosa raggiunge un livello insopportabile si ucciderà proprio come una persona intrappolata si butterà da un palazzo in fiamme.” E la paura del cadere non è più forte della paura delle fiamme: la Cosa, quel malessere radicato e completo, è più spaventosa della Morte.
·      COME: la lingua di Wallace è psichedelica, delirante, preziosa, immaginifica. Al limite del neologismo o dell’hápax legómenon, come nel caso del verbo Xare (nemmeno una nota per il significato! Scopare? Conquistare?). E poi si imparano un sacco di cose. Ad esempio cos'è un 'papoose'. Mi sfugge l'associazione con l'aggettivo 'sessuale' a cui Wallace lo costringe, ma non si può avere tutto nella vita.
Le pagine scorrono tra commedia e tragedia e non saprei dire quali ho preferito. Sicuramente ho riso molto a proposito di tatuaggi e in particolare di quello di Calvin Thrust, ex allievo e operatore volontario della Ennet House, già protagonista di cartucce pornografiche, di cui “si dice abbia tatuato sull'Unità le iniziali maiuscole CT che si possono vedere a Unità moscia e il nome per esteso CALVIN THRUST a Unità, invece, ritta.” E sicuramente sono rimasta colpita dalle drammatiche pagine dedicate a Kate Gompert (da p.81 a 93), la ragazza che soffre di una profonda depressione unipolare e che prende il nome da una famosa tennista americana (e per questo Wallace ha passato qualche guaio, attribuire disturbi psichici così gravi ad un personaggio che ha lo stesso nome di una persona famosa realmente esistente non è sempre una buona idea).
Un discorso a parte merita la traduzione di Edoardo Nesi, a cui ho voluto dedicare un minuto di silenzio per la sua "impresa" da pagina 153 a pagina 161. Ma meglio di me può spiegare cosa è stato tradurre #IJ proprio Nesi, qui.
Come ho detto già, finire la lettura di #IJ è stato provare uno svuotamento totale, una sensazione di mancanza nei giorni immediatamente successivi. La conseguenza oggi, a un paio di mesi di distanza, è il raggiungimento di una consapevolezza credo importante: nulla sarà come prima, si sopravvive a #IJ e si cerca di capire qualcosa in più del suo Autore, possiamo leggere i russi senza spaventarci (con lo stesso gruppo sto leggendo “I fratelli Karamazov” di Dostoevskij e mi sembra che tutto fili liscio senza avere l’impressione di avere a che fare con un mattone della letteratura mondiale). Solo una domanda: cosa resterà di David Foster Wallace? Tra qualche decina di anni si parlerà ancora di “Infinite Jest”? E se sì, in che termini?
Buon viaggio, attrezzatevi e partite, comunque ne varrà la pena.

sabato 3 ottobre 2015

Pier VittorioTondelli e #BigliettiAmici


Biglietti agli amici

Autore: Tondelli Pier Vittorio
Dati: 1997, 144 p., brossura
Editore: Bompiani (collana NuovoPortico)

Io volevo tutto
e mi sono sempre dovuto accontentare di qualcosa.


Sfoglio per l’ennesima volta le pagine di “Biglietti agli amici” di Pier Vittorio Tondelli, uno dei talenti più innovativi degli anni Ottanta della nostra letteratura del Novecento, che troppo presto è scomparso lasciando una grande eredità agli scrittori che si sono in qualche modo inseriti nel solco da lui tracciato.
L’ultima volta, prima di oggi, in cui ho ripreso in mano questo libro è stata la scorsa estate, dal 19 luglio all’11 agosto, grazie ad un progetto di lettura/riscrittura su Twitter secondo il metodo di TwLetteratura (hashtag #BigliettiAmici), che Erika Pucci, Alessandro Pigoni ed io abbiamo ideato, senza dimenticare l’aiuto prezioso degli amici di TwLetteratura –Edoardo Montenegro, Paolo Costa e Pierluigi Vaccaneo- che ci hanno sostenuto e la collaborazione fattiva, dietro le quinte, di Juri Versari.
Locandina del progetto #BigliettiAmici (by Erika Pucci)
Perché Tondelli e perché proprio questo libro? “Biglietti agli amici” non è certo l’opera più rappresentativa di Tondelli, che nasce scrittore con “Altri libertini”, opera d’esordio che lo porterà immediatamente sotto la luce dei riflettori da una parte per l’accusa di immoralità (con conseguente sequestro da parte della Procura della Repubblica de L’Aquila nel 1980), ma soprattutto per le grandi novità sul piano della tecnica narrativa, che da quel momento in avanti ne faranno un anticipatore di gusti, temi, moduli stilistici. Saranno poi altri titoli che confermeranno le doti narrative di Tondelli, che culmineranno in “Un weekend postmoderno”, una specie di zibaldone che raccoglie gli scritti giornalistici, i reportages, i saggi, le narrazioni brevi dello scrittore emiliano: una summa degli anni Ottanta, dell’edonismo reaganiano, di rock e acid music, dei romanzi di David Leavitt, passando da “Pao Pao”, “Camere separate” e “Rimini”.
In mezzo c’è comunque questo volumetto, costituito da
ventiquattro biglietti, uno per ogni ora della notte e del giorno, raccolti e pubblicati da Baskerville in un primo momento in 531 copie autografate, destinate agli amici più intimi dell’Autore come regalo per il Natale del 1986: delle due tirature, la prima di 31 copie riportava i nomi dei destinatari di ciascun biglietto per esteso, la seconda di 500 copie venne messa in vendita in esclusiva alla libreria Feltrinelli di Bologna. Questa prima edizione è introvabile e doveva rimanere in una dimensione privata, destinata com’era ad essere regalata a pochi amici intimi. Nel 1997 però, sei anni dopo la morte di Tondelli avvenuta a Correggio nel 1991, l’editore Bompiani ottenne di ripubblicarla e ne affidò la cura editoriale a Fulvio Panzeri. Il pregio di questa edizione, anche se da una parte ‘tradisce’ in qualche modo le intenzioni del suo Autore, che erano appunto quelle di lasciare che i suoi “Biglietti agli amici” restassero solo per i suoi amici, dall’altra ne ricostruisce la genesi, attraverso la riproduzione in immagini dei dattiloscritti, con le correzioni fatte a mano da Tondelli. Non solo, oltre alle diverse redazioni di alcuni biglietti, vi si raccolgono anche appunti e frammenti mai entrati nell’edizione definitiva del volume, così come l'aveva concepita l'Autore. Ancora importante è la Nota al testo di Fulvio Panzeri, che del concepimento e della costruzione di questo libro racconta motivazioni, retroscena e rapporto che Tondelli instaura con il suo stesso testo, sottoposto a ripensamenti e revisioni continue.
Photo HelenTambo on Instagram

“Biglietti agli amici” racconta qualcosa che non troviamo nel resto delle opere di Pier Vittorio Tondelli: svela, nella sua frammentarietà -onirica e contemplativa a tratti-, i pensieri fugaci, l’intimità delle emozioni più nascoste, dei desideri inconfessati, degli affetti più fugaci e di quelli più profondi e cercati. Ci sono le persone, ma soprattutto i viaggi e i luoghi (molto presenti anche in “Un weekend postmoderno” e sono gli stessi, perché sono i luoghi del cuore di Tondelli), sempre in cerca di qualcosa o qualcuno. Per questo abbiamo scelto di proporre questo testo per un’esperienza di social reading, che ha coinvolto molti degli utenti che da tempo si raccolgono intorno alla comunità di Twletteratura. Ognuno di noi ha filtrato il proprio vissuto attraverso i biglietti, quasi fosse tela di lino a trattenere gli scarti e lasciare il pensiero pulito e cristallino, nello spazio breve di un tweet, dove la brevitas è distillato di anime più o meno in subbuglio.
Personalmente sono molto legata a questo libro, dal primo momento che l’ho avuto tra le mani, appena uscito per Bompiani, intuendone la ricchezza che vi avrei trovato. Non so neanche spiegare il motivo di tanto attaccamento, so che è così e mi basta. Ma se provo a pensarci un po’ “più forte”, penso che forse è perché in quelle pagine ormai consumate, ingiallite, sottolineate, che mostrano tutto il tempo che hanno, mi rispecchio. E se guardo ancora più in fondo, oltre alla mia immagine, vedo riflessa quella di Vicky, tanto amato quanto rimpianto.
Intanto qui trovate il tweetbook dei miei #BigliettiAmici e lì dentro anche il mio Tondelli.