mercoledì 27 maggio 2015

Ultima lettura: "Dimmi che credi al destino" di Luca Bianchini


Dimmi che credi al destino
Autore: Bianchini Luca
Dati: 2015, 256 p., brossura
Editore: Mondadori (collana Scrittori italiani e stranieri)

Il cielo di Londra sembra fatto per raccontare l’amore

Ieri ho finito di leggere il nuovo romanzo di Luca Bianchini, che proprio oggi a Tuglie (LE), presenta per la prima volta al pubblico pugliese "Dimmi che credi al destino".
Impossibilitata a essere presente lì stasera, non ho smesso di pensarci tutto il giorno, soprattutto per il dispiacere di non poter assistere a quella che nemmeno stavolta sarà una vera e propria presentazione, quanto un one man show. Solo per questo varrebbe la pena assistere a un incontro con Luca Bianchini, apprezzato conduttore radiofonico (vi ricordate "Colazione da Tiffany" su Radio2? Non si capisce perché le trasmissioni belle spariscano dai palinsesti senza che ai vertici si versi una lacrimuccia) e oltre che scrittore (e giornalista, da seguire la sua rubrica di costume PopUp su Vanity Fair).
Ma il libro? Questo libro?
Photo Helentambo on Instagram
Diciamo che Bianchini sa come accontentare i gusti del pubblico: gli ingredienti partono in genere dall'osservazione della realtà, di cui l’Autore è un attento indagatore. Poi questi ingredienti sono enfatizzati, caricati con effetti garbatamente comici, teneri, struggenti, grotteschi anche, il tutto in un sapiente gioco di equilibri.
Stavolta però mi è sembrato che gli elementi fossero troppi, e tutti importanti: una libreria a Londra che rischia la chiusura per fare spazio a un ristorante turco, il passato ingombrante della protagonista Ornella, direttrice dell’Italian Bookshop, e della sua insostituibile amica, "la Patti", correttrice di bozze. E poi troviamo l’omosessualità nascosta di Diego, giovane napoletano partito dall’Italia per cercare fortuna a Londra e soprattutto per sfuggire all’imbarazzo di un’attrazione inconfessabile per Carmine, un amico della sua fidanzata. Tra le pagine di “Dimmi che credi al destino” troviamo ancora il tema dell’eutanasia, nella vicenda di Axel, l’ex marito tossico di Ornella, e il rapporto genitori-figli. E l’amore tardivo, quello che ti sorprende passati i cinquant’anni, quando proprio non ci pensi più. Il tutto narrato con lo stile tipico di Luca Bianchini, leggero e scorrevole, capace di farti sorridere anche quando l’argomento non è per niente leggero. Insomma, ho avuto l’impressione di una scrittura un po’ a volo di rondine, dove l’autore ha voluto infilare tutto quello che la vita vera e la fantasia gli hanno suggerito, senza selezionare, velocemente. Bianchini è scrittore di passioni incontenibili. Ecco, questo libro mi è sembrato incontenibile, scritto con entusiasmo anche per tenere in caldo un pubblico affezionato che ormai aspetta con ansia le sue uscite editoriali. Bianchini, straordinario comunicatore, cura questo pubblico, lo consulta, lo informa sulla genesi dei suoi libri, lo incontra. Proprio per questo mi spiace non essere a Tuglie stasera per chiedergli della vera Ornella, della vera Patti e del perché di una storia tanto piena di ‘cose’, anche se penso che a questa domanda non ci sia risposta, se è vero che le storie si scrivono da sole, come dicono alcuni. E questa si è scritta così.

mercoledì 20 maggio 2015

Ultima lettura: "Una storia semplice" di Leonardo Sciascia


Una storia semplice

Autore: Sciascia Leonardo
Dati: 1989, 66 p., brossura
Editore: Adelphi (collana Piccola biblioteca Adelphi)

Così, tornando in città, il colonnello dei carabinieri
 seppe dal suo brigadiere quel che ci voleva
per rendere il caso più complicato
di quanto il questore desiderasse.

Ci sono libri e autori che tornano. A volte per puro caso, come è per me in questo periodo con Leonardo Sciascia, letto da ragazzina nei suoi titoli forse più famosi e popolari “Il giorno della civetta” e “A ciascuno il suo” e successivamente ogni volta che una sua uscita si annunciava come novità irrinunciabile e fino al suo ultimo romanzo “Una storia semplice”.
Photo Elena Tamborrino
In quest’anno scolastico ho pensato che fosse importante per i miei alunni conoscere un autore che difficilmente si incontra nel curricolo di Letteratura dell’ultimo anno delle superiori: il tempo è poco, a volte gli argomenti che si trattano in classe seguono direzioni prestabilite da una tradizione scolastica che però, confesso, a me piace violare. Ed è quello che ho fatto decidendo che il modo migliore per affrontare lo studio di uno scrittore -Sciascia nel nostro caso- fosse partire dai suoi libri, e in particolare “Il giorno della civetta”, primo romanzo che ha il grande merito di aver fatto parlare di mafia in un’opera di intrattenimento, e “Todo modo”, breve romanzo in cui i forti poteri, politico e religioso, si intrecciano in una storia torbida di omicidi e segreti, quasi premonitore di una stagione di ipocriti intrighi che di lì a breve (il romanzo uscì nel 1974), l’Italia avrebbe conosciuto.
Sulla scorta di queste riletture fatte con i miei ragazzi e a seguito di un documentario di Rai Storia per la serie Italiani diretta da Paolo Mieli, "Se la memoria ha futuro", mi è venuta la voglia di tornare su Sciascia, di rileggere la sua opera che forse da giovanissima non ero in grado di comprendere a fondo, di riflettere sul suo impegno artistico e civile. Il documentario, attraverso gli interventi di Roberto Andò, Matteo Collura e Giancarlo De Cataldo, ripercorre la formazione di Sciascia, a partire dalla letteratura francese dall’Illuminismo di Diderot al Naturalismo di Zola, da Manzoni -che pure è cultura francese (“I Promessi sposi” secondo Sciascia non è un libro consolatorio ma disperato e cominciano con una vera e propria intimidazione mafiosa, «Questo matrimonio non s’ha da fare!»)- fino a Pirandello (scrittore della realtà al modo di Pasolini, secondo Sciascia, non realistico), da cui ha tratto la suggestione di sentirsi sempre uno, nessuno e centomila dopo averne letto un’opera.
Dopo i romanzi (ri)letti con i miei alunni, ho cercato quindi nella mia libreria gli altri romanzi e sono partita da "Una storia semplice", letto nell’arco di un pomeriggio trascorso anche troppo velocemente.
Questa è una storia complicatissima, a dispetto del titolo, un giallo ambientato in Sicilia, con sfondo di mafia e droga che però non sono mai citate nel romanzo, ma la cui presenza è prepotente, insieme all’inganno, al sospetto, alla lucida intelligenza di un brigadiere che risolve il caso di un apparente suicidio, trovandone le incongruenze, fino a un epilogo coerente con il clima omertoso che attraversa tutta la vicenda.
La storia è semplice per come è raccontata, lo stile di Sciascia, essenziale e prezioso allo stesso tempo, pulito e puntuale, accompagna il lettore verso lo svelamento di una vicenda di insabbiamenti, negligenze investigative non casuali, battaglie contro i mulini a vento combattute dai (pochi) personaggi positivi (qui il brigadiere, ne “Il giorno della civetta” il capitano Bellodi). Anche questo è un romanzo di denuncia, un romanzo che obbligava e obbliga ancora oggi, a farsi delle domande, a interrogarsi sul male e sui misteri che avvelenano il nostro Paese. E il Paese non è solo l’Italia, ma la Terra, quell’atomo opaco del male di cui parlava Pascoli. Il suo testamento spirituale, da ‘pensatore eretico’ e illuminista quale si considerava, nonostante l’ipotizzata conversione religiosa, è contenuta in queste parole, che lo scrittore ha lasciato alla famiglia: Ho deciso di farmi scrivere sulla tomba qualcosa di meno personale e di più ameno, e precisamente questa frase di Villiers de l'Isle-Adam: "Ce ne ricorderemo, di questo pianeta". E così partecipo alla scommessa di Pascal e avverto che una certa attenzione questa terra, questa vita, la meritano.

mercoledì 13 maggio 2015

Ultima lettura: "Storia del nuovo cognome. L'amica geniale" di Elena Ferrante


Storia del nuovo cognome. L’amica geniale

Autore: Ferrante Elena
Dati: 2012, 480 p., brossura; ePub con DRM 1,3 MB
Editore: E/O (collana Dal mondo)

Com’è facile raccontare di me senza Lila:
il tempo si acquieta
e i fatti salienti scivolano lungo il filo degli anni
come valigie sul nastro di un aeroporto;
 li prendi, li metti sulla pagina ed è fatta.

“Più complicato è dire ciò che in quegli stessi anni accadde a lei. Il nastro allora rallenta, accelera, curva bruscamente, esce dai binari. Le valigie cadono, si aprono, il loro contenuto si sparpaglia di qua e di là.”

Una premessa è d’obbligo: poco o nulla mi importa delle polemiche che sono sorte intorno a Elena Ferrante, alla sua identità misteriosa, vera o presunta o quel che è. Non mi interessa l’acredine o l’ironia con cui negli ultimi tempi molti parlano di lei, dei suoi libri, della candidatura al Premio Strega promossa da Roberto Saviano. Ciò che ho spesso detto (ad esempio qui) è che, al di là della libertà di ciascuno di fare ciò che vuole col suo nome vero o col suo pseudonimo, mi sembra che nascondere la propria identità, sottrarsi alle attenzioni del pubblico, sia quasi una forma di tradimento del patto con il lettore che forse ha diritto di sapere chi sei. Ma dico ‘forse’ perché in realtà non è affatto detto, e d’altra parte la storia letteraria è piena di scrittori che hanno pubblicato le loro opere sotto falsa identità, quindi proprio non riesco a vedere lo scandalo.
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Ciò detto, penso che sia di gran lunga più interessante parlare di questo “Storia del nuovo cognome”, secondo volume del ciclo de “L’amica geniale”, che poi è il titolo del primo volume. Tutta la serie segue l’amicizia tra Elena Greco (detta Lenuccia) e Raffaella Cerullo (detta Lina o Lila), da quando sono bambine fino al momento della scomparsa misteriosa di Lila, l’amica geniale appunto.
È Lenuccia a raccontare la storia in prima persona, ricostruendo l’esistenza delle due bambine, poi ragazzine, adolescenti, giovani donne fino a questo punto della storia, nel rione popolare di Napoli dove sono nate, fino agli spostamenti che l’una e l’altra faranno negli anni, seguendo direzioni diverse e incrociando di tanto in tanto le loro esistenze, sempre pensando l’una all’altra.
La vera protagonista della storia è Lila: la donna vampiro, quella che succhia la linfa vitale da chiunque le si avvicini e subisca il suo fascino complicato.
Lila fin da ragazzina è selvatica, temeraria, irrequieta, ribelle, indomabile e sfrontata, quanto la sua amica Lenuccia è accomodante, insicura, mite, modesta, servizievole.
Lila è l’amica che non sa essere contenta per chi è contento, che guarda quasi con soddisfazione all’infelicità altrui, specie di quelli che le sono più vicini e che la amano senza condizioni.
Lila non può e non sa essere felice, nemmeno quando riesce ad ottenere più di quanto la sua condizione le avrebbe potuto concedere; guarda con disappunto ai successi di Lenuccia, non sai dire se per una forma di inconfessata invidia o semplicemente perché non vuole darle soddisfazione, e allo stesso tempo ha slanci di generosità protettiva nei suoi confronti.
Lila entra nel sangue e nei tessuti, è quasi tossica, fa male. Una parassita dei sentimenti, che ingloba e fagocita e vive le vite degli altri, accaparrandosi gli affetti altrui. Personalità e vite tanto in contrasto quanto in continua attrazione si possono comprendere attraverso queste parole di Lenuccia: “Sì, è Lila a rendere faticosa la scrittura. La mia vita mi spinge a immaginarmi come sarebbe stata la sua se le fosse toccato ciò che è toccato a me, che uso avrebbe fatto della mia fortuna. E la sua vita si affaccia di continuo nella mia, nelle parole che ho pronunciato, dentro le quali c’è spesso un’eco delle sue, in quel gesto determinato che è un riadattamento di un suo gesto, in quel mio di meno che è tale per un suo di più, in quel mio di più che è la forzatura di un suo di meno.”
Sono diverse Lila e Lenuccia, ma la loro diversità le rende dipendenti e complementari l’una per l’altra e non si riesce a pensarle separate, neanche quando la vita le divide.
La trama è ricca di colpi di scena, il lettore subisce la malia di Lila e delle vicende di cui è protagonista indomita e coraggiosa; è difficile staccarsi dalla lettura finché non si arriva in fondo, già pregustando il seguito della storia nel volume successivo.
Conoscevo la scrittura di Elena Ferrante già dal suo romanzo d’esordio, “L’amore molesto” del 1996. Ho letto poi “I giorni dell’abbandono” del 2002, un romanzo di straordinaria potenza tradotto in un film di Roberto Faenza con Margherita Buy e Luca Zingaretti; film che secondo me però non ha la stessa efficacia della parola scritta, forse perché l’Autrice ha una rara capacità di cesellare psicologie che nessun linguaggio cinematografico può trasformare in immagine.
Tra la fine degli anni Novanta e l’inizio del Duemila, Elena Ferrante e il mistero intorno alla sua identità, non davano fastidio: nessuno se ne occupava, non se ne parlava. A me piacerebbe che si tornasse a non discutere di chi è o non è, spiando dal buco della serratura di una personalità misteriosa quanto discreta, per lasciare che a parlare siano solo i suoi libri. Che parlano benissimo e sanno accarezzare o schiaffeggiare l’anima.

giovedì 7 maggio 2015

Ultima lettura: "Villa Ventosa" di Anne Fine


Villa Ventosa

Autore: Fine Anne
Dati: 2000, 211 p., brossura
Editore: Adelphi



«Siediti su una seggiola, cara» le bisbigliò la signora Collett
a voce un po’ troppo alta. «Sembri una balena arenata»

Quale madre si rivolgerebbe così ad una figlia, anche se questa è decisamente goffa, sovrappeso, piagnucolosa? Ecco, Lilith Collett, lei sì. Lei, madre di quattro figli (tre femmine diversissime tra loro e un maschio, dichiaratamente omosessuale), non ha nessun problema a dimostrare la scarsa attitudine alla premura materna, è caustica e critica, sottilmente ironica nei confronti di tutti, nasconde malamente il fastidio arrecatole dalla presenza dei figli quando vanno a trovarla e allo stesso tempo pretende da loro attenzione e considerazione.
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Le tensioni emergono forti quando Barbara, la figlia impacciata, grassa e frignona, annuncia il suo matrimonio con un giovane sconosciuto, che si scoprirà essere anche un bellissimo e misterioso ragazzo: non solo Barbara incredibilmente si sposa, ma lo vuole fare nella cornice di Villa Ventosa, la dimora di famiglia nel cui giardino lei, le sorelle Gilly e Tory e il fratello William hanno vissuto meravigliose avventure da bambini. Non c’è un altro posto per fare festa, se Barbara non potrà sposarsi là, le sembrerà di sposarsi solo a metà. Lilith non cede, rifiuta il suo consenso per motivi che starà al lettore scoprire e da lì in poi la narrazione procederà con effetti comici e sorprendenti fino all’epilogo quasi fiabesco (e per questo inaspettato, perché sarebbe più facile prevedere una conclusione in linea con tutta la narrazione quasi farsesca).
Di fiabesco a ben guardare però c’è solo forse il finale, perché in realtà l’atmosfera che si respira durante la lettura è quella cui dà forma il carattere difficile della protagonista, Lilith: Villa Ventosa e il suo parco rappresentano per lei il luogo in cui si è consumata una vita familiare verso la quale ha sempre provato fastidio. Per questo forse la sua rabbia mal contenuta si scarica sulle piante del giardino, alcune rare e preziose, che sistematicamente strappa o svelle, riducendo angoli incantevoli a lande desolate e spoglie, in una smania di ‘pulizia’.
Un tema così delicato, quello della maternità subita, è trattato da Anne Fine con somma grazia e stile: anche le battute più sarcastiche, gli atteggiamenti più finti, i pensieri più scomodi di Lilith Collett sono resi con divertita partecipazione e con notevole sense of humor. Tutti i personaggi di questo romanzo sono disegnati con estrema attenzione verso i dettagli, soprattutto dal punto di vista dei caratteri. In particolare, oltre a Lilith, emerge Caspar, il ginecologo compagno di William, una specie di deus ex machina per il matrimonio di Barbara.
A chi mi ha chiesto di dire in poche parole di che tratta “Villa Ventosa”, ho risposto così: una famiglia un po' bislacca, una mamma terribile che passa il tempo a sradicare le piante del suo meraviglioso giardino, nulla di buonista ma tutto molto politicamente scorretto e per questo adorabile. Da leggere.