giovedì 12 dicembre 2013

Ultima lettura: "I quattro canti di Palermo" di Giuseppe Di Piazza


I quattro canti di Palermo

Autore: Di Piazza Giuseppe
Dati: 2012, 213 p., brossura; ePub con DRM 2,0 MB
Editore: Bompiani (collana Narratori italiani)

“Antonio, dovresti saperlo: a Palermo non c’è mai un sì pieno,
e neanche un no diretto. Le cose si dicono a trasi e nesci, a entra e esci.
Un po’ avanti e un po’ indietro: mai nettamente in una direzione.”

Photo HelenTambo on Instagram
Quando tutte le occasioni, che siano frammenti di tempi morti in attesa di qualcosa o di qualcuno, oppure momenti scelti apposta e pregustati in anticipo, sono buone per aprire un libro, significa che quello è un libro giusto.
Ho un discreto senso critico, almeno secondo i parametri che seguo quando esprimo un giudizio sulle mie letture, ma nonostante mi accada di imbattermi in passaggi o stilemi che a volte mi lasciano qualche perplessità (e questo mi succede più spesso da quando ho letto "L'importo della ferita e altre storie" di Pippo Russo), se la vicenda che sto leggendo mi prende, lascio correre, continuo a farmi trascinare dalle situazioni narrate.
Questo è ciò che mi è accaduto con “I quattro canti di Palermo”: con l’ereader sempre in borsa per approfittare di ogni momento buono per avanzare nella lettura, mi sono lasciata trasportare dal protagonista, un giovanissimo cronista di nera negli anni Ottanta della mattanza mafiosa a Palermo, in luoghi conosciuti e meno conosciuti, che poi convogliano tutti nel cuore della città, i famosi Quattro Canti, crocevia dei quartieri storici Castellammare, Tribunali, Palazzo Reale, Monte di Pietà. Un quinto canto, dice Di Piazza nei ringraziamenti, è invisibile agli occhi ma è percepito forte in chi se n’è andato da Palermo, ed è il canto dell’assenza.
Quattro quindi sono gli spigoli di questa piazza, cuore pulsante di Palermo a due passi dalla Cattedrale, come quattro sono le storie violente attraversate dal protagonista, che racconta in prima persona i limiti di un mondo crudele e spietato, che alimenta bugiarde illusioni, che nutre falsi valori. Marinello è un predestinato, un mafioso che non vuole diventare killer; Sophie una modella francese che si lascia fagocitare da un mondo tossico; Vito è un padre che fa scomparsi i suoi figli, in una spirale di odio cieco e frustrazione; Rosalia vuole capire perché suo padre, un ladro ‘pezzo di pane’ che però rubava ‘onestamente’, è finito decapitato nel bel mezzo di una faida mafiosa, capire le serve per riprendersi la dignità, altrimenti “chi se la prende la figlia di uno che gli hanno scippato la testa?”. A fare da connettivo è il racconto a distanza di tempo del muoversi del protagonista, tra corse in Vespa per arrivare in tempo sul luogo del delitto, la redazione fumosa di MS, le compagnie femminili sempre nuove, tutte diverse, il sesso e il cibo, il disordine della casa e il suo coinquilino, Fabrizio. Ancora da collante è la mappa della città, tramite i suoi locali di culto, le pasticcerie famose, la Favorita, il teatro Massimo, i bar, il tribunale, il mare di Mondello. Il racconto è quello di chi ricorda da lontano, dopo aver portato la propria vita altrove, verso altre storie da raccontare, ma senza dimenticare il proprio essere profondamente palermitano.
Se almeno una volta si è stati a Palermo, è difficile non lasciarsi incantare dalla città e dai suoi contrasti, dalle sue contraddizioni fatte di splendore e degrado insieme; è impossibile non amare questa città dalla storia affascinante e dolorosa che se è stata generosa da una parte, rendendola culla della splendida civiltà federiciana, dall’altra l’ha percossa e violentata.
Il caso ha voluto che proprio il giorno che finivo di leggere il libro di Di Piazza, andavo a vedere al cinema il film di Pierfrancesco Diliberto Pif, “La mafia uccide solo d’estate”, le cui vicende si svolgono in parte negli stessi anni di “I quattro canti di Palermo”, coincidendo in alcuni fatti: mi è sembrato il giusto complemento, mi ha dato un respiro più ampio, mi ha fatto capire cosa significa essere nati a Palermo e imparare a convivere con il male, come se fosse normale.

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