mercoledì 31 luglio 2013

#Corsari off, restano le domande…


Si è appena conclusa l’esperienza di #Corsari, la riscrittura in tweet  di cui ho già parlato qui
Il progetto, ideato da Paolo Costa (@paolocosta), Hassan Bogdan Pautàs (@TorinoAnni10) e Pierluigi Vaccaneo (@piervaccaneo) con la collaborazione di Cristina Torrengo (@Cristina TDV) e PR & community, ha avuto come partner @RaiLetteratura e @RaiScuola per i filmati di repertorio e originali relativi a Pasolini, @hiTweetbook la piattaforma editoriale progettata da @U10 per i ‘riassunti’ dei vari articoli curati da ciascun Corsaro, Escomnet.com, per il supporto Software e IVM Multimedia per il supporto multimediale. Una squadra organizzata ed efficiente, che si è integrata con la ‘ciurma’ dei riscrittori chiamati a misurarsi con un testo tanto difficile quanto spesso inquietante, non fosse altro per le domande che continuamente, nel corso dei due mesi circa di lettura (e rilettura), inevitabilmente si sono proposte.
Photo HelenTambo on Instagram
Si impone quindi un breve bilancio, anche e soprattutto per il tipo di lettura collettiva che abbiamo fatto. Non conosco ancora i numeri di questo percorso di Twitteratura, non so pertanto quanti sono stati i tweet prodotti, quanti i retweet, quanti i partecipanti, oltre ai Corsari ufficialmente investiti del compito di coordinare gli interventi. Ma non è questo il senso del rendiconto che voglio fare qui.
“Scritti corsari” è un testo difficile. Si tratta della raccolta di articoli scritti da Pier Paolo Pasolini e pubblicati tra il 1973 e il 1975, anno della sua morte, dal Corriere della Sera, Epoca, Mondo, e Paese Sera e riediti per Garzanti con i titoli originali cambiati e con l’aggiunta di qualche inedito. Per chi non ha vissuto da adulto il dibattito delle idee che ha infervorato gli intellettuali di quel tempo, si è trattato di calarsi in un’atmosfera politicamente e sociologicamente distante da quella attuale, non solo per una questione cronologica ma anche e soprattutto per vivacità di temi, che in quel momento storico investivano la morale, la religione, lo sviluppo con le conseguenti deviazioni. Cercare nella scrittura di Pasolini, prevalentemente conosciuto oggi come poeta e narratore e meno come saggista, gli agganci con quello che viviamo attualmente, è stata una costante della riscrittura: in tanti ci siamo chiesti e abbiamo chiesto cosa avrebbe scritto oggi Pier Paolo Pasolini se avesse potuto vedere quello che abbiamo visto noi negli ultimi venti anni in Italia.
I temi caldi presenti in questa raccolta di scritti pasoliniani, così ancorati all’attualità che lo scrittore viveva sulla pelle senza riuscire a prendere mai le distanze, ma vivendo tutto in modo viscerale e personale, sono presto detti: il referendum abrogativo della legge sul divorzio, il dibattito sull’aborto, il consumismo come nuova religione di Stato, l’edonismo versus la cultura popolare, il ruolo della Chiesa, le stagione delle stragi. La passione di questi articoli prorompe in modo quasi aggressivo, supportata da argomentazioni puntuali e talvolta rabbiose, come se l’autore dovesse ogni volta non solo affermare le sue idee, ma anche preventivamente difendersi da chi le poteva mettere in discussione. Senza parlare degli scritti in cui risponde ai suoi detrattori sulla scorta di articoli pubblicati contro di lui e in contrapposizione alle sue opinioni. Hanno, questi “Scritti Corsari” un valore documentario importante, purtroppo limitato dall’assenza degli articoli di altri scrittori e giornalisti a cui Pasolini fa riferimento: il lettore sente forte la mancanza del contraddittorio, sia pure asincrono, del botta e risposta, articolo di A contro articolo di B. Abbiamo solo quelli di Pasolini e forse a questo l’editore, anche in una successiva edizione, avrebbe dovuto pensare, invece di costringerci a ricerche archeologiche negli archivi online dei giornali.
Proprio nell’articolo XIV “In che senso parlare di una sconfitta del PCI al referendum” del 26 luglio 1974, seguito da me come Corsara ( qui il mio tweetbook), Pasolini fa una rassegna di tutti coloro che quasi hanno tradito le sue parole, interpretandole a loro comodo, traviandole e strumentalizzandole: e il suo scritto si declina attraverso l’analisi delle critiche e la difesa delle sue idee, per poi passare a spiegare in che senso andava interpretata la ‘sconfitta’ del Partito Comunista Italiano, pur avendo vinto il ‘no’ all’abrogazione della legge sul divorzio, a sottolineare quella crisi della Sinistra che in confronto a quella attuale forse è nulla (ma se Pasolini lo avesse potuto prevedere…). Quello che è mancato, nonostante la buona volontà  di alcuni Corsari che si sono improvvisati topi di biblioteca nel mare magnum della rete, sono stati proprio gli articoli di Giorgio Bocca, Maurizio Ferrara, Giuseppe Prezzolini; era previsto dall’autore però, il quale nella nota introduttiva scrive “La ricostruzione di questo libro è affidata al lettore. È lui che deve rimettere insieme i frammenti di un’opera dispersa e incompleta.”.
Tornando all’esperimento su Twitter l’impressione è stata quella di aver perso qualcosa di quanto scritto dai partecipanti (fortunatamente tutto recuperabile dai tweetbook prodotti per ciascun articolo), come se la condivisione della riscrittura si fosse diluita della TimeLine in modo dispersivo. A sensazione, è difficile dire quanti eravamo (aspetto di conoscere i dati ufficiali per questo), se tanti o tantissimi. La prova ha forse scoraggiato qualcuno, ma in compenso ha attirato altri, sedotti dall’idea di confrontarsi con un testo così complesso.
Un po’ come esempio di quanto vissuto da molti di noi Corsari, giova leggere il racconto dell’esperienza di Blutrasparente @erykaluna, nelle cui parole chi ha navigato nei marosi della scrittura pasoliniana si può riconoscere. Qui è possibile trovare i pdf dei tweetbook prodotti per ciascun articolo corsaro. 
Conclusa l’esperienza corsara, tra pochi giorni parte un nuovo contest: si torna a Cesare Pavese con "Paesi tuoi", da seguire sotto l’hashtag #PaesiTuoi dal 5 agosto su Twitter!

lunedì 29 luglio 2013

Ultima lettura: "Lettera a Léontine" di Raffaele Mastrolonardo


Lettera a Léontine

Autore   : Mastrolonardo Raffaele
Dati: 2010, 310 p., brossura
Editore: TEA (collana Narrativa Tea)

Photo HelenTambo on Instagram
Mi sono avvicinata a questo romanzo, su consiglio di un amico, con le migliori intenzioni e delle aspettative alte, dovute al successo che Raffaele Mastrolonardo sembra aver riscosso con questa sua prima opera, dapprima pubblicata da Besa (collana Costellazione) e successivamente da TEA. I giudizi dei lettori sono in gran parte positivi e questo mi ha fatto comprendere, a posteriori e sempre che ne avessi bisogno, quali sono i gusti del lettore medio italiano (che, sappiamo bene, è in scarsa compagnia).
Sgombriamo immediatamente il campo da qualsiasi equivoco: non siamo di fronte a una storia, ma alla cronaca di un ‘vorrei ma non posso’. Si tratta del racconto di una vicenda tanto comune quanto banale, tutto è abbastanza prevedibile: un tradimento vissuto, ma non fino in fondo, e comunque senza che la quotidianità dei protagonisti venga turbata più di tanto, secondo quelle che sono le modalità con le quali molte storie clandestine si consumano. Si capisce immediatamente quali sono le direttrici lungo le quali si muove la vicenda, già dal momento in cui conosciamo il protagonista Piergiorgio (Pigi!), che racconta i fatti in prima persona.
L’azione si svolge a Bari e nei bellissimi dintorni, ai giorni nostri. L’ambiente è quello un po’ snob della Bari bene, Circoli della Vela, Rotary, locali alla moda e della tradizione, bella gente, facoltosa. Lui è un medico affermato, docente universitario, ginecologo di fama cui si rivolgono coppie con problemi di infertilità: un personaggio che non riesce simpatico, per il quale fino in fondo non si prova nemmeno la compassione che forse l’epilogo della storia richiederebbe, presuntuoso, supponente e narcisista, uno poco abituato a sentirsi respingere dalle donne, uno che ci prova spesso e altrettanto spesso gli va bene, sposato con la solita moglie isterica e con una figlia –per la quale ovviamente stravede- che a quindici anni parla come matusalemme (o comunque sicuramente non come una qualunque quindicenne –“abbiamo selezionato un repertorio”-). Un uomo dall’erudizione finta, che sfoggia banalmente conoscenze comuni, rivestendole di una qualche autorevolezza che sinceramente si fatica a riconoscere.
Lei è Léontine (Lea!), anche lei medico, una donna insoddisfatta, inquieta come lo sono di natura molte donne; l’autore vorrebbe farla sembrare misteriosa ma non ci riesce, perché in realtà il lettore non ha nessuna curiosità verso il passato della donna, che si immagina assolutamente comune a quello di molte single sentimentalmente disilluse e già provate da storie sbagliate.
L’incontro è casuale, tra due personaggi statici e poco attraenti sul piano emozionale: lui è prevedibile, rassicurato da un matrimonio stanco, che tuttavia non ha alcuna intenzione di risolvere con una separazione, nemmeno a fronte di quello che vorrebbe passare come qualcosa di fatale, lei –bella ma non troppo- sembra transitare lieve su cose e persone, ma risulta noiosa e scontata. Consumano un tradimento più desiderato che realizzato, in cui gli unici due amplessi a cui i due si abbandonano sono descritti in poche ripetitive parole, che terminano immancabilmente con un “L’amore è fatto di testa e noi, la testa, l’avevamo persa, tutti e due” (che poi, chi lo dice che l’amore sia fatto di testa? Anzi!). Non si sa se è una scelta stilistica, un artificio retorico del tipo della ripresa anaforica, oppure se si tratta di una distrazione dell’autore (e di chi avrebbe dovuto fare l’editing, ma non lo ha fatto o lo ha fatto male).
Sfugge anche il motivo per cui insistentemente Mastrolonardo usa l’espressione ‘attrazione molecolare’: la prima volta fa simpatia, la seconda si capisce che è un vezzo, la terza, la quarta e forse anche la quinta, annoia. E giacché si parla di stile, mi sembra indizio di sciatteria sintattica -e non un seducente artificio-, il passaggio dalla terza persona alla seconda, riferita a Léontine, spesso all’interno dello stesso periodo. I dialoghi sono scontati: spesso ad una domanda di Lea, Pigi risponde con un banale e fintamente simpatico “c’è una domanda di riserva?”, espressione passata di moda da chissà quanto tempo, non fa più nemmeno sorridere (si poteva proporre come alternativa “qual è la risposta giusta?”, così, tanto per variare un po’).
Insomma, così come la pubblicità deve farti desiderare qualcosa, rendendola attraente e appetibile, così un romanzo deve coinvolgerti al punto tale da desiderare di viverne la storia, o almeno partecipare da vicino alle vicende narrate, sentirne gli odori, i sapori, i rumori. Invece questa “Lettera a Léontine” ti travolge per noia e finisci di leggerlo solo per vedere fino a che punto un romanzo insulso può arrivare ad esserlo.
Tanto perché questa non appaia come una stroncatura tout court (un po’ lo è!), vorrei segnalare ciò che salvo di questo libro: la città di Bari e certe sue atmosfere nottune, specie nelle descrizioni della città vecchia, poi Altamura e ancora l’omaggio al pittore barlettano De Nittis, di cui ricorre il centenario e del quale la vedova Léontine (il titolo del libro è un riconoscimento anche a lei) ha donato nel 1913 le opere alla città natale, che oggi lo celebra con una mostra presso la Pinacoteca di Barletta fino al 7 gennaio 2014.
Inutile dire che le mie aspettative iniziali sono andate deluse e che dopo aver chiuso il libro sull’ultima pagina ho pensato che sia necessario tornare a leggere qualche buon classico, tornare agli Scrittori con la esse maiuscola.

domenica 21 luglio 2013

Come fu che imparai a leggere... (e come non ho mai smesso)


Un libro è sempre la descrizione
 di come uno si immagina il mondo
(C. Pavese)

Questo piccolo intervento nasce come risposta alla ‘provocazione’ di
Daniele Bergesio e alla successiva replica di Simona Scravaglieri, che sui loro blog hanno parlato di come hanno imparato a leggere, certo non intendendo l’acquisizione di una delle quattro abilità di base (insieme a ascoltare, parlare e scrivere), ma il diventare Lettori con la elle maiuscola, cioè lettori appassionati e competenti, in una parola, ‘forti’.
La lettura dei loro post ha innescato una serie di ricordi, che poi sono quelli che sistematicamente mi tornano in mente ogni volta che cerco di spiegare il motivo di tanta mia passione per i libri e di come fosse stato facile e naturale diventare una lettrice metodica fin da ragazzina, mentre oggi i giovani sono tanto restii a prendere in mano un libro e chi di loro lo fa è quasi considerato una mosca bianca.
Ma provo ad andare con ordine.
1. Prima premessa. Non voglio dire qui quello che dico sempre (che però credo fermamente) e cioè che ‘ai miei tempi’ i ragazzini non avevano tutte le distrazioni che hanno quelli di oggi, che spesso non si sapeva come impiegare il tempo e quindi si leggeva per ammazzare la noia, che in tv esistevano solo due canali, in bianco e nero per di più, e che i programmi non iniziavano prima delle quattro del pomeriggio o giù di lì, che non avevamo tutta questa libertà di uscire da soli, al massimo si giocava in cortile con gli altri ragazzi del condominio o si andava in parrocchia, non c’erano Internet, Facebook, i videogiochi ecc ecc.
Fuffa. Non che non sia vero tutto questo, l’ho detto che ci credo, ma penso anche che non siano questi i soli motivi che mi hanno spinto ad ‘imparare a leggere’ e che allo stesso tempo impediscano i giovani di oggi a fare lo stesso. Nel mio caso si è trattato di una serie di incontri fortunati, in famiglia e a scuola.
2. Seconda premessa. Quando ero ragazzina il regalo più ovvio che potevi ricevere, non appena avevi superato l’età dei giocattoli e non avevi compiuto ancora quella dei profumi, era un libro. In un periodo in cui non si era tanto abituati alla soddisfazione di capricci e i regali ti arrivavano solo alle feste comandate, un libro era un dono abbastanza banale, ma si accettava con entusiasmo proprio perché le occasioni erano davvero contate (ora che ci penso una volta i miei zii Mattia e Gregorio, fratelli di mamma, mi regalarono le famose palline che, attaccate a due tratti di corda legati ad un anello in plastica che si teneva tra pollice e indice, si facevano sbattere producendo un rumore infernale, soprattutto perché continuo, e la possibilità di traumi al polso, ma mio padre le fece volare in giardino… Ma questa è un’altra storia)
3. Il primo libro che mi è stato regalato (intendo libro da leggere, non da sfogliare per guardare le immagini) fu in occasione di un mio onomastico, a sei anni (“S. Elena 1971. Alla cara Elenuccia con tanti auguri. Zia Eleonora e Franco”, recita la dedica scritta con la penna rossa: la sorella di mia madre e il suo allora fidanzato): si trattava di Cuore di De Amicis, anzi del ‘libro Cuore’ come si diceva, un libro considerato classico per i ragazzi, impossibile prescinderne: ero forse un po’ piccola per leggerlo, ma lo feci poco dopo, non ricordo bene quando. 
Photo HelenTambo on Instagram
Di seguito, sempre perché ricevuti in regalo, cominciai a leggere altri classici per ragazzi e fu il tempo de La piccola Dorrit di Dickens, Piccole donne e Una ragazza fuori moda della Alcott, La capanna dello zio Tom di Harriet Beecher Stowe, Incompreso di Florence Montgomery, Pattini d’argento di Mary Mapes Dodge e così via, tutti titoli che si vedevano frequentemente nelle piccole librerie dei ragazzini di allora (anni Settanta).
Cominciavano a non bastarmi i miei, che pure leggevo e rileggevo: in vacanza in Puglia dalla nonna, nei pomeriggi assolati e caldi in cui era impossibile pure pensare senza sudare, presi l’abitudine di saccheggiare la libreria ricchissima della cugina Maria Grazia (molto più grande di me, pensandoci erano solo sette anni di differenza, ma in quel momento, a quell’età erano davvero tanti, lei era ‘grande’).
4. La scuola ha avuto un ruolo importantissimo nella mia formazione di lettrice. La mia maestra delle elementari, la signorina Dea Gisella Puccini di Civitavecchia, regalava ai suoi alunni un libro in occasione della loro Prima Comunione: a me regalò una raccolta di biografie di personaggi celebri, tra i quali ricordo Salvo D’Acquisto, Fausto Coppi, Jacques Cousteau, Albert Einstein, Albert Schweitzer, che si intitolava Eroi dei nostri tempi, anche questa letta e riletta (la conservo, ovviamente). E più tardi, alle medie, l’ora di narrativa: il primo anno Il vento sull’erba nuova di Klara Jarunkova, il secondo Il barone rampante di Calvino e poi Un anno sull’altipiano di Emilio Lussu, questi ultimi due titoli nell’edizione della collana di narrativa per ragazzi di Einaudi, quella famosa con la copertina bianca e i profili rossi.
Da lì ho cominciato a procedere da sola, un titolo tirava l’altro, quasi come se andassero di conseguenza, oggi si direbbe che procedevo per link: il primo libro comprato da sola in libreria, con i soldi che venivano da regali di compleanno, messi via religiosamente, fu la trilogia I nostri antenati, dopo la lettura de Il barone rampante, tanto per fare un esempio. E poi in quinta ginnasio un brano in inglese tratto da Lord of the Flies di William Golding, mi spinse a comprare subito l’edizione italiana Oscar Mondadori.
5. Ultimo punto, la famiglia. In particolare mia madre: abbonata al Club degli Editori, faceva la collezione dei premi Strega e quando ebbi undici anni mi disse che potevo leggere un libro da grandi. Era Lessico famigliare di Natalia Ginzburg, a cui fece seguito pochi anni dopo La ragazza di Bube, di Cassola. Anche in questo caso poi sono andata per collegamenti e ho letto tutto Cassola e di conseguenza altri autori neorealisti, in gran parte trovati nella ricchissima biblioteca di mamma. 
Photo HelenTambo on Instagram
Molti di quei libri sono stati furti autorizzati, come mi piace dire: li ho messi nella mia piccola libreria di ragazza a casa dei miei e poi portati via con me, quando ho lasciato la mia stanza, la mia casa. Ancora oggi, quando vado a trovare i miei genitori, ‘rubo’ i libri.

Sicuramente nel raccontare le mie origini di lettrice forte, ho trascurato qualcosa, ad esempio il ruolo della televisione: molti autori li ho scoperti grazie agli sceneggiati televisivi, penso a Cronin o a Pratolini (chi si dimentica il Metello con Massimo Ranieri?) o ancora a Carlo Bernari (Tre operai, 3 puntate di Citto Maselli con la sceneggiatura di Enzo Siciliano, questa era la Rai nel 1980). Il tutto l’ho raccontato intanto per dare un ordine a quelli che sono i miei ricordi frammentari e poi per arrivare a concludere che però, nonostante gli input importanti ci siano stati per me e per molti miei coetanei, è stata sicuramente questione di ambiente e di istruzione, ma anche di attitudine naturale. Oggi il livello medio di alfabetizzazione è più alto, grazie anche all’obbligo scolastico elevato a sedici anni, eppure nelle case degli italiani circolano pochi libri. La scuola, nonostante la tanto proclamata autonomia dei docenti, è molto meno libera di quanto non lo fossero i nostri insegnanti di trenta/quaranta anni fa, meno stritolati dalle logiche del mercato dell’editoria scolastica rispetto a chi oggi opera nella didattica. Questi elementi, per non dire delle ‘scorciatoie’ intellettuali a cui sono abituati i nostri ragazzi oggi, sono impedimenti oggettivi e concreti alla formazione di nuovi lettori, a cui manca però la principale motivazione, quella della scoperta autonoma e dello sviluppo di capacità critiche incondizionate. Purtroppo.
 
PS. Il primo che mi chiama Elenuccia è un uomo morto.

sabato 13 luglio 2013

Ultima lettura: "Il metodo della bomba atomica" di Noemi Cuffia


Il metodo della bomba atomica

Autore: Cuffia Noemi
Dati: 2013, 150 p., brossura
Editore: LiberAria (collana Meduse)
Il metodo del mare (photo HelenTambo on Instagram)


 L'amore è per chi ci crede

Ecco un chiaro esempio di ciò che vado dicendo da un bel po’: per essere considerati scrittori (attenzione, non per considerarsi scrittori) non basta saper scrivere, è necessario essere lettori da grandi numeri, avere fatto molta esperienza di scritture altrui (primo passo) per poi comprendere che bisogna avere una storia perfetta da raccontare, quella originale, quella che ha gli ingredienti giusti per colpire e appassionare il lettore (secondo passo). Ovviamente tutto questo non si può improvvisare, si devono combinare tutte le variabili, in un equilibrio che si conquista con il tempo e la pratica. Certo, ci vuole anche il sacro dono dell’attitudine a inventare storie buone, ma già essere lettori competenti, forti, aiuta a distinguere e riconoscere questo talento in sé e negli altri.
Di Noemi Cuffia possiamo dire che è senz’altro una lettrice da grandi numeri: il suo blog  tazzina-di-caffè è stato segnalato come uno dei più influenti blog letterari in Italia, la sua attività, indirizzata prima di tutto verso la scrittura di altri, ha potuto ad un certo punto determinare la sua svolta come autrice.
Insomma, @tazzinadi –come la potete seguire su Twitter- sapeva cosa faceva quando ha cominciato a scrivere “Il metodo della bomba atomica”.
Il metodo della bomba atomica è un metodo di sopravvivenza, ideato da Leone per scuotere Celeste dalla pigrizia, dal suo farsi quasi soccombere dagli avvenimenti, per farla reagire, un metodo per salvarla “dalla casa, dai pensieri, da tutto” in qualsiasi modo possibile. Tutti gli altri metodi, pensati da Leone e cercati da Celeste stessa nelle cose di tutti i giorni, che in questo modo diventano eccezioni, hanno lo stesso scopo: quello della bellezza, quello del jazz, quello del mostro che ti insegue, quello della felicità, quello della solitudine, quello della ferita che si chiude, quello della disciplina, quello della libertà. Leone, legato a Celeste da quando erano bambini, in quel modo in cui si formano certi vincoli quasi per ovvia conseguenza dell’essere andati insieme all’asilo, si applica alla salvezza della sua ragazza con criterio scientifico: senza sapere che lei sfuggirà a tutti questi metodi scientifici, pur desiderandoli e comprendendo che sono gli unici in grado di controllare certe sue emotività.
Gli altri metodi che possono preservare Celeste dall’autodistruzione sono il suo blog sulle piante, vero rifugio cui si dedica con sistematicità, e la corsa, che pratica in compagnia di Leone. Fiori e podismo, che l’autrice tratta utilizzando il lessico specialistico indispensabile, sono i fili conduttori che accompagnano il lettore alla scoperta della protagonista (perché la protagonista vera è lei, Celeste, tutti gli altri sono comprimari necessari alla storia, ma sempre un passo indietro) e delle sue paure.
La vicenda è scandita dai battiti del cuore tachicardico di Celeste: ogni emozione, ogni gesto, ogni pensiero è accompagnato dal ritmo cardiaco, misurato da un cardiofrequenzimetro ideale, perché lei il suo cuore lo conosce bene e sa che ad ogni azione corrisponde una reazione. Il suo cuore tachicardico si accompagna a quello brachicardico di Leone, in una specie di compensazione che li aiuta a trovare l’equilibrio tra loro, anche e soprattutto quando corrono insieme.


Ma non tutto è controllabile: uscirà da ogni possibilità di sorveglianza quando nella vita della ragazza irromperà Umberto, con tutto l’ingombrante peso della sua storia.
Altro filo rosso che cuce tutta la storia è la continua ricerca di una definizione dell’amore, che accompagna il lettore alla ricerca di un nome o della descrizione di una circostanza che faccia pensare all’idea perfetta di un sentimento di per sé difficilmente delimitabile, perché diverso per ciascuno di noi.


“Il metodo della bomba atomica” è il racconto di persone e di un mistero che sembra non voler mai dare risposte alle domande che il lettore si fa in modo sempre più incalzante, salvo poi sorprendere sul finale: saranno proprio i comprimari, i personaggi di sfondo che seguono Celeste, a ribaltare la situazione e a sciogliere gli enigmi.
E così torno all’inizio: essere uno scrittore significa trovare la storia giusta, raccontarla in modo da coinvolgere il lettore, dare un motivo per scorrere le pagine e sorprendere fino alla fine. Noemi Cuffia, al suo esordio narrativo, ci riesce.

martedì 9 luglio 2013

Ultima lettura: “Donne che non valgono niente” di Maura Vitale


Donne che non valgono niente

Autore   : Vitale Maura
Dati: 2011, 176 p., brossura
Editore: Sovera Edizioni (collana Narrare)


Accade d’improvviso di scoprirti fragile,
 terribilmente vulnerabile: “io, non valgo niente”.
Accade d’improvviso ma è una storia lunghissima di bambine incomprese,
 prigioniere di regole affettive e comportamentali,
figlie di genitori confusi e incapaci di un’immaginazione felice.

Maura Vitale è una psicoterapeuta che vive ed esercita la sua attività a Roma. Negli ultimi anni la sua attenzione si è concentrata sulla possibilità di utilizzare strumenti innovativi come i gruppi in rete per la costruzione di percorsi di psicoterapia, che non vadano a sostituirsi ma si affianchino a quelli tradizionali, nella convinzione che la scrittura e l’ascolto degli altri siano potenti strumenti per la comprensione dei propri danni e per lo sviluppo di un nuovo modo di relazionarsi. Da questi presupposti nasce “Donne che non valgono niente”, un libro che sfugge a qualsiasi definizione di genere: non è un saggio, non è narrazione (o meglio, non è solo narrazione), non è un istant book, nonostante quello della condizione femminile, declinata in tutte le possibili variabili, sia di stretta attualità. 
Si tratta invece di una raccolta di testimonianze, che ricostruisce il percorso di un gruppo, quello delle ‘Donne di Alice’ (in onore di Alice Miller, psicologa e psicanalista polacca, specializzata in psicologia dell'età evolutiva): un gruppo di donne che, pur avendo raggiunto una piena soddisfazione sia in campo personale che lavorativo, improvvisamente hanno sentito di ‘non valere niente’.
Il tema riguarda l’assertività, che è quel modo di mettersi in relazione con gli altri senza prevaricare né essere prevaricati, trovando un punto di equilibrio in cui è importante conservare l’autostima, essere in grado di esprimere le proprie opinioni liberamente senza ignorare il valore di quelle altrui, riuscire a comunicare in maniera efficace. Le Donne di Alice hanno fatto un percorso in un gruppo che la Vitale definisce ‘di carne e di rete’, in cui hanno scoperto e risolto la propria ‘non assertività’, la propria incapacità di farsi valere senza rischiare di diventare aggressive, nell’ansia di affermarsi.
Le donne non assertive sono state bambine non assertive, con figure genitoriali che hanno procurato danni anche per troppo amore o per incapacità di dimostrarne (pur provandolo); sono state adolescenti che avrebbero voluto ribellarsi e che invece sono state quello che gli altri volevano che fossero e sono diventate donne che spesso hanno replicato, nelle scelte sentimentali, le relazioni con il padre spesso autoritario e/o distratto.
Come risolvere i conflitti? Il gruppo ‘di carne’ si è raccontato, con le donne sedute in circolo intorno ad una sediolina blu, sulla quale volta per volta si accomodava ognuna di loro, nel corso degli incontri nello studio di Maura: dove queste donne non sono riuscite a raccontarsi come ‘carne’, lo hanno fatto come gruppo ‘di rete’, utilizzando il circuito delle mail, dove libere dagli sguardi, nell’apparente (perché in realtà erano tutte là, on air) solitudine delle loro case, hanno scritto le loro favole, i loro desideri, le loro autobiografie bambine. E la scrittura creativa è diventata così uno degli aspetti più innovativi di questo progetto: tutto questo non poteva restare chiuso in una stanza, è quello che ha detto una delle donne di Alice a Maura Vitale, che quindi ha raccolto i materiali e ne ha fatto questo libro, fonte di riflessione e testimonianza di coraggio, il coraggio di ricostruirsi.
L’idea che emerge dalla lettura di questo libro è che le donne che hanno subito un danno, come dice la stessa Vitale, non temono più nulla, a loro non può più accadere nulla: quando hanno risolto i loro conflitti, è per sempre. Sono donne con una marcia in più.

domenica 7 luglio 2013

Ultima lettura: "Cuore cavo" di Viola Di Grado


Cuore Cavo

Autore: Di Grado Viola
Dati: 2013, 166 p., brossura
Photo HelenTambo on Instagram

Editore: E/O (collana Dal mondo)

Lo dichiaro immediatamente: questo romanzo o piace immensamente o non piace, non credo esistano vie di mezzo, non una scala di grigi tra cui scegliere, o è nero o è bianco.
A me è piaciuto, senza però. Proprio perché non ci sono mezze misure.
Non conoscevo l’autrice, alla sua seconda prova con questa storia originale e inquietante, per quanto il suo nome, Viola, mi suggerisse un non so che di cupo, funereo, probabilmente per associazione con il colore, che insieme al nero facilmente si collega al lutto. Forse anche la copertina del libro, anche lei in una sfumatura viola scuro che vira al blu, con una testa stilizzata che sembra fiorire mentre si disgrega, suggeriva al mio immaginario -del tutto ignaro di ciò che andava ad incontrare- qualcosa che sottilmente si sarebbe allacciato alla morte. Ma queste ovviamente sono elucubrazioni, non è che se una si chiama Viola deve per forza suggerire immagini tetre.
Volutamente non avevo letto nulla intorno a Viola Di Grado e al suo libro: senza saperlo però, con le mie fantasie, mi ero avvicinata alla realtà. Non so se in questo abbia inconsciamente influito un mio interesse tendenzialmente naturale verso argomenti cimiteriali, come era successo con "I funeracconti" di Benedetta Palmieri , dove però l’argomento era chiaro da subito, fatto è che mi sono trovata subito immersa in un’atmosfera a metà tra il lugubre e lo scientifico, in una miscela di temi sapientemente combinati: la morte, l’amicizia, l’amore, la madre. Che detti così sembrano qualcosa di abbastanza comune, su cui si è scritto tanto e si continuerà a scrivere. Ma ciò che di un insieme di ingredienti fa una pietanza spettacolare sono le combinazioni, i metodi di cottura, gli accostamenti: insomma, è lo scrittore che fa la differenza, con la sua capacità di aggiungere l’ingrediente segreto, il tocco dello chef, non gli argomenti.
Dorotea Giglio è una studentessa di venticinque anni, laureanda in biologia: sceglie una mattina estiva per suicidarsi. Da quel momento il racconto si snoda con la descrizione accuratissima di ciò che accade al suo corpo chiuso nella bara. L’autrice deve avere approfondito le sue conoscenze biologico-chimico-fisiologiche sulla corruzione della materia. C’è una dovizia di particolari che giustifica il ricorso ad un lessico altamente specialistico, molto ricco; ecco così che la lingua è varia, si alternano momenti lirici a tecnicismi molto spinti, il tutto a comporre una prosa chiara, fluida, scorrevole come un’autostrada diretta al mare in pieno inverno (e d’altronde Dorotea, da viva e per come l’abbiamo conosciuta, non potrebbe andare altrove, se non al mare in pieno inverno). Mentre ci racconta in prima persona cosa accade al suo corpo giorno per giorno, quali organismi (loro, viventi) intervengono a corrompere i suoi organi secondo una gerarchia molto precisa, come si sente nonostante sia morta, vedendosi disfare lentamente e inesorabilmente, c’è una vita fuori da quella bara, dove Dorotea sembra muoversi come un fantasma. E c’è un paesaggio urbano, quello di Catania, descritto con precisione in un percorso immaginario nella prima pagina, e poi di altri scorci siciliani, con lo sfondo dell’Etna.
Leggendo questo libro mi è capitato di avvertire un senso di soffocamento e allo stesso tempo un’attrazione fatale, qualcosa che mi ha spinto a non mollarlo fino all’ultima pagina, perché è impossibile non chiedersi come andrà a finire la ‘vita’ di una morta.
Viola Di Grado dimostra un buon grado di maturità: alla seconda prova da autrice, che secondo me è sempre la più difficile perché qualcuno nel frattempo coltiva delle aspettative e devi dimostrare che non si è sbagliato a puntare su di te, ha tirato fuori una storia strana, inconsueta, difficile da raccontare ma che lei dipana con molta naturalezza. Impossibile non seguire lei e Dorotea, fino a dove qui certo non posso dirlo.