mercoledì 5 giugno 2013

Ultima lettura: "Ti prego lasciati odiare" di Anna Premoli


Ti prego lasciati odiare

Autore: Premoli Anna
Dati: 2013, 318 p., rilegato
Editore: Newton Compton (collana Anagramma)

Come funziona il #passaparola: se un amico ti dice di leggere un libro importante,
quel libro va di parola in parola @nazioneindiana #SalTo13
(dal mio Twitter, detto da Francesco Forlani di NazioneIndiana,
a BookToTheFuture, Salone del Libro di Torino 2013)

Confesso, ho un passato di lettrice di romanzi rosa. Con una zia ‘signorina’ (all’epoca si diceva così) che ne comprava a pacchi, quelli che arrivavano in abbonamento o si prendevano in edicola e prima degli Harmony, di cui anche ho fruito in modo consistente, sempre grazie alla zia. Molto prima degli Harmony, ci sono stati i romanzi di Liala e di Delly. E poi la serie dei Romanzi Rosa mensili della Mondadori, la zia li conservava dagli anni Sessanta in uno scaffale della sua libreria nello studio: d’estate saccheggiavo quei libretti, i nomi delle autrici ritornavano spesso, forse erano pseudonimi, il direttore responsabile era Paolo Emilio D’Emilio. In appendice la piccola posta dei “Rosa” con la “piccola borsa nera dei Rosa” che ospitava gli scambi tra le lettrici; in chiusura giochi enigmistici. Si trattava di romanzi veloci ma intensi, con storie articolate, personaggi ben delineati, situazioni verosimili, ovviamente molto romantiche. Sorprendentemente, forse, nessuno stereotipo. Qualcuno di quelli li ho letti più volte, in particolare quello della foto che pubblico qui, “Il male che ti ho fatto” di Elisa Trapani, sottratto alla zia e gelosamente conservato nella mia libreria.

Indubbiamente il genere rosa risponde da sempre ad una esigenza precisa, quella di nutrire di fantasie schiere di giovani e meno giovani donne, sia che attraversino l’età delle trasformazioni, in cui si diventa donne e si immagina di essere protagoniste di storie d’amore eccezionali, sia che la vita vera abbia già fatto capire che i sogni sono desideri non sempre si realizzabili. Convinta che la moda degli Harmony et similia fosse in declino, mi sono ultimamente imbattuta in un paio di romanzi piuttosto sconcertanti, che mi hanno obbligato a riflettere sul fenomeno del tam tam via web che genera spesso mostri letterari, che crescono a dismisura tra l’incredulità dei lettori più critici e l’entusiasmo di chi forse ha davvero bisogno di letture tanto banali quanto approssimative.
Il caso più eclatante forse è quello di “Ti prego lasciati odiare” di Anna Premoli, una giovane signora che, per distrarsi da una gravidanza un po’ difficile durante la quale è costretta al riposo, si mette a scrivere una storia d’amore. Suo marito si entusiasma e le confeziona un ebook che lancia in rete. In breve tempo, tramite il passaparola, il romanzo conosce uno straordinario successo popolare, finché non viene intercettato da Newton Compton che lo promuove in grande stile, come in ogni favola che si rispetti. Bastava essere a Torino all’ultimo Salone del Libro per rendersi conto del battage pubblicitario allestito intorno a questo romanzo, peraltro in precedenza presentato in diverse altre sedi, compresa Radio2 (nella trasmissione“Ventotto minuti” di Barbara Palombelli, che ha intervistato l’autrice provocando la mia curiosità). In questo, solo dopo aver letto il romanzo, mi sono chiesta se a determinare il successo di un libro autopubblicato conti il numero dei download più che la qualità oggettiva della scrittura.
Gli ingredienti sono semplici: una giovane donna fisicamente incolore, ma bravissima e agguerritissima sul lavoro (ovviamente prestigioso), in contrasto con un bellissimo ricchissimo collega (manco a scommetterci, nobile) con il quale sarà costretta a lavorare gomito a gomito loro malgrado per un importante progetto e del quale nemmeno a dirlo si innamorerà, nonostante strenui tentativi di resistenza. Ma si sa, amor vincit omnia, quindi il lieto fine è scontato dalla seconda pagina. Un po’ Cenerentola, un po’ Bridget Jones (ma molto meno simpatica, nonostante la comunanza di biancheria intima dozzinale che dovrebbe farcele sentire entrambe vicine, come se portare le mutande della nonna fosse norma assai diffusa tra le donne comuni), Lei si muove tra la City londinese, la campagna circostante, dove vive la sua famiglia (vegani fanatici che dicono frasi del tipo “Noi non parliamo mai di argomenti frivoli”, fortemente razzisti nei confronti dei ‘ricchi’ che disprezzano apertamente), e il maniero di famiglia di Lui.
Non si capisce la necessità di un’ambientazione simile: non ci sono particolari che giustifichino Londra, che rendano riconoscibile il paesaggio britannico, la vicenda si potrebbe svolgere tra Milano e la Brianza e nulla cambierebbe, anzi forse l’autrice avrebbe reso con più convinzione il contesto in cui far muovere i suoi protagonisti (sempre meglio parlare di ciò che si conosce bene).
La trama è esile, più che altro si tratta di quadri che si susseguono, punteggiati da dialoghi piccati e pungenti, in una schermaglia noiosa e scontata, che non consente scarti. I personaggi sono stereotipati (le amiche impiccione, la possibile futura suocera snob, la famiglia invadente), con caratteri contraddittori, che evidenziano scarsa coerenza del testo: il fratello di Lei, intransigente e assolutamente contrario ad una possibile relazione della sorella con quel Lui, al ritorno da un periodo di lavoro all’estero, inaspettatamente le diventa solidale, senza che niente giustifichi il suo nuovo atteggiamento.
Quindi torno alla considerazione iniziale, sulla necessità del genere rosa di rispondere a bisogni precisi di un’utenza però assai meno delineabile di quanto non potesse essere trenta/quaranta anni fa. Basta fare un giro sul web per imbattersi in commenti entusiasti (molti) o fortemente critici (decisamente di meno, anche se non li ho contati), non esistono vie di mezzo. Quindi mi chiedo, e chiedo, quali lettrici (e non a caso restringo il campo alle sole donne) accolgono con favore un romanzo come questo? Che tipo di donne sono, che sogni nutrono, soprattutto che standard hanno in quanto lettrici? Cosa si aspettano da una storia d’amore?
E se le domande sulle lettrici (o, in generale, i lettori) salgono prepotentemente, cosa dire degli scrittori? Cosa fa di uno scrittore un vero scrittore? Come orientarsi nella giungla del selfpublishing, in cui si muove una fauna variegata, dove distinguere i veri talenti rischia di essere difficilissimo? E ancora: che lavoro fanno gli editori oggi? Possono ancora contare su una selezione che premi chi davvero merita, per originalità di contenuti e/o di trovate stilistiche, salvo prendere anche qualche granchio o fare clamorosi errori di valutazione (a questo proposito un interessante contributo è quello di Simona Scravaglieri nel suo blog [...]Non domandarci al formula che mondi possa aprirti[...])?

Postilla 1: io voglio solo storie d’amore infelici, vicende tristemente tormentate, altrimenti non riesco a tifare per nessuno dei protagonisti, nel bene e nel male.
Postilla 2: l’altro romanzo sconcertante in cui mi sono imbattuta è dell’esordiente Vittoria Coppola, “Gli occhi di mia figlia”, lanciato on line dalla rubrica del Tg1 “Billy” e successivamente proclamato libro dell’anno 2012. Nel frattempo l’autrice ha dato alle stampe il suo secondo romanzo “Immagina la gioia”. Di “Gli occhi di mia figlia” non riesco a dire nulla.

3 commenti:

  1. Chapeau, amica mia...precisa, acuta e mi piace, perché anche io, confesso, ho un passato di lettrice di Liala. Ho avuto anche il periodo Pilcher, ma è durato poco!:D

    Credo che non ne avremo di romanzi buoni in futuro per quanto riguarda questo "genere".
    C'era qualcuno che diceva che "dopo Shakespeare non c'erano più storie da inventare", perché le aveva scritte tutte lui.
    Però ai postumi rimaneva la possibilità di creare valore aggiunto, partendo da un assunto di base, ri-creando nuove situazioni e nuove caratterizzazioni dei personaggi. Dopotutto una storia non è solo trama ma sopratutto il contesto, i personaggi, pensieri.
    Il problema è che oggi non serve più nemmeno questo; si mira sfacciatamente al "lettore da best sellers", che non è detto che ne ricompri o che abbia una base di lettura precedente; l'importante quindi diventa "aver venduto". In base a logiche strettamente di vendita la creazione di valore aggiunto non serve e passa in secondo piano anche l'utilizzo dello stereotipo perché, non avendo il lettore medio, un numero sufficiente di letture che formi una banca dati di informazioni (chiamiamola una "cultura riguardo lo specifico genere") non lo riconoscerà nemmeno come tale...

    Quindi noi continueremo a leggere "classici" se così si può definire il genere rivolgendoci alle bancarelle e loro (gli editori e gli autori) a proporre in libreria libri di quart'ordine. E alla fine ci diranno che "Gli italiani non leggono"! :)
    Simona

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  2. Esattamente come dici tu, qualsiasi fenomeno che riguardi l'universo dei lettori può essere forse studiato a campione ma non è detto che si tratti sempre di un campione davvero rappresentativo. Rappresentativo di che? I dati sono molto fluidi, i canali molteplici. Di fatto ci si basa sulle classifiche dei più venduti e dei più scaricati: come misurare i più letti?

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