sabato 25 maggio 2013

Ultima lettura: "Bastava dire no" di Chiara Maffioletti


Bastava dire no

Autore   : Maffioletti Chiara
Dati: 2013, 124 p., brossura
Editore: Marsilio (collana Gli specchi)


"E io in quel momento ero sicura
che non sarei mai riuscita a stare senza di lui"

Il titolo di questo libro, prima ancora della copertina, attira. Bastava dire no: e ci si immagina le possibili conseguenze di un no pronunciato davanti all’altare o ad un pubblico ufficiale, pensando che forse nessuno davvero ha mai avuto il coraggio di scappare davanti a ciò che sembra ineluttabile, quando ormai tutto il meccanismo organizzativo di una cerimonia nuziale è ad uno stato irreversibile. Insomma, quando i regali sono arrivati, gli invitati hanno speso altri soldi per comprarsi il vestito bello, il ristorante dove si terrà il ricevimento ha già le cucine in fermento, la musica è partita, le mamme (quella dello sposo più di quella della sposa) sono già in lacrime e i papà (quello della sposa più di quello dello sposo) controllano a fatica la commozione.
Una corda che si sfilaccia, un rapporto che si logora, un legame che si spezza, debole ormai: così Chiara Maffioletti, sposa giovanissima e presto pentita -non senza note dolenti e incredule-, descrive il suo matrimonio concluso e racconta il suo percorso, che potrebbe essere quello di molte coppie, se non fosse che nella sua storia ci sono particolari riferibili al suo matrimonio fallito e solo a quello, sia pure attraverso stereotipi come quello della suocera invadente e del marito mammone.
L’analisi che Maffioletti, giornalista e blogger de La 27esima Ora e La Lettura, conduce vivisezionando la sua vita coniugale e il difficile ‘dopo’, quando ha compreso che l’uomo al quale si era legata ‘per sempre’ non poteva essere davvero per sempre, è lucida e ironica: strappa il sorriso amaro, specie se si riconoscono i segni, riflessi in chissà quante coppie tutte uguali. Eppure in questa regolarità di situazioni, c’è un modo tutto personale di fissare il soffitto durante la notte insonne, di piangere mentre lui dorme, di avere paura di affrontare quello che è necessario per essere felici -o almeno provarci-, eventuale (certa?) delusione dei genitori compresa.
Così si snodano i capitoli, dal giorno più bello (pieno ovviamente di imprevisti, culminati nello smottamento del vialetto di accesso al giardino che ospiterà la festa di nozze), alle frasi che non si vorrebbero mai sentire dalla persona amata (“Ho dei diritti su di te”), dai tentativi per non lasciarsi (operati dal prete psicologo) alla scelta dell’avvocato, fino a tutte le sfaccettature del 'dirlo agli altri': ai parenti, agli amici (che dovranno dividersi tra lui e lei), ai colleghi (maschi) che immediatamente ti vedono sotto una nuova luce, quella di chi sta di nuovo ‘su piazza’. E poi la nuova povertà, quella di chi si trova a sostenere spese doppie, mentre l’altro gode dei benefici della situazione, infine il tribunale e il grande dispiacere di dover riconoscere un fallimento che si sarebbe voluto evitare, ma al quale si è arrivati in piena consapevolezza.
Il tono dell’autrice ha momenti spietati nella sincerità del racconto, propria di chi ha deciso di mettersi a nudo, forse per comprendere meglio quello che è successo, facendo peraltro la scelta della condivisione con chi deve essere rassicurato sul fatto che si riesce a sopravvivere alla fine di un matrimonio. Si alternano accenti sardonici e disincantati, come se si volesse a tutti i costi trovare qualcosa cui appigliarsi per ridere, dove da ridere in realtà non c’è molto: il tutto rende la lettura scorrevole e coinvolgente, ci si immedesima e ci si pongono le stesse domande dell’autrice, domande alle quali Maffioletti cerca di rispondere, aprendosi alla speranza di una nuova vita (“Quello che penso è che un giorno mi ritroverò con l’uomo con cui mi accorgerò di aver passato veramente la mia vita, con cui sarò cresciuta, avrò riso, avrò fatto tanti viaggi”).
Non so come definire questo libro: un’autobiografia, un piccolo saggio di costume, un pamphlet o una guida per divorziandi confusi. Forse è tutto questo messo insieme, sicuramente è una bella prova di autoanalisi.

venerdì 24 maggio 2013

Pepe

“Signora, è suo il gatto?”
“Quale gatto? Io non ho gatti.”
“Non so, gironzola qui dall’altro ieri, pensavo fosse suo”
Il giardiniere lavorava a casa nostra da tre giorni, c’era molto da fare, siepi che avevano perso la linea, rinvasi di piante ormai troppo cresciute, rinnovo delle stagionali con i fiori. Impossibile accorgersi che nel giardino si era introdotto un gatto in particolare, in genere andavano e venivano, i gatti del vicinato e quelli di strada la facevano un po’ da padroni, bastava non dar loro troppa confidenza, non offrire cibo e non si fermavano mai, si limitavano un po’ a scorrazzare sul prato e ad arrampicarsi su viburno o sul finto pepe, poi se ne andavano. Non diedi peso quindi a quanto diceva Paolo, sicuramente si trattava del solito micio di passaggio.
La mattina successiva -giardino silenzioso, lavori conclusi, finalmente un po’ di ordine- uscii a stendere i panni, ero di fretta e dovevo correre a lavorare: ebbi l’impressione di sentire un miagolio flebile, come un richiamo abbastanza vicino, ma non abbastanza da poter capire da dove provenisse. Andavo di corsa, non potevo mettermi certo a cercare e poi anche se fosse stato un gatto nascosto sotto qualche cespuglio, che poteva mai volere? Se ne sarebbe andato.
Tornai da lavoro, misi su un pranzo veloce, mentre aspettavo che l’acqua arrivasse a bollore per calare la pasta, andai a sistemare le stanze da letto, feci partire una lavatrice, svuotai la lavastoviglie e uscii in giardino a raccogliere la biancheria dai fili da cui sventolavano dalla mattina. Il miagolio non si fece attendere, sembrava proprio che un gatto mi chiamasse, forse mi aveva visto e voleva attirare la mia attenzione. Sempre di fretta, non potevo perdere tempo a cercarlo e poi non si dice sempre che i gatti sono autonomi, non hanno bisogno di nessuno?
Dopo pranzo mi sbrigai a caricare la lavastoviglie, la feci partire e misi su un caffè. Con la tazza fumante uscii nuovamente in giardino: ora avevo tempo e mi sedetti sui gradini che portavano al prato.
Ed eccolo. Si avvicinò lentamente, dapprima guardingo e poi sempre più audace. Piccolo, bianco con qualche macchia grigia che sfumava nel marroncino, gli occhi gialloverdi. Lo guardai, si sentì forse incoraggiato, allungai una mano e non si ritrasse. Mi si avvicinò e cominciò a girarmi attorno, strusciandosi contro i miei fianchi, sulla schiena: seduta, lo seguivo con lo sguardo fin dove arrivavo quando mi svoltava dietro la schiena e con gli occhi lo ritrovavo dalla parte opposta, mi cercava anche lui con lo sguardo, facendo le fusa. Le fusa? Così forti? Si sentono così forti le fusa di un gatto? Gli do qualcosa da mangiare? Non ho mai avuto un gatto, cosa mangia un gatto? Tonno? Può andar bene?
“Andrea corri, vieni, io adesso lo prendo in braccio, vediamo se è maschio o femmina.”
Maschio. Adesso dobbiamo dirlo a papà, dici che ce lo farà tenere?
Al telefono: “Gianni, è arrivato un gattino in giardino, secondo me ce l’hanno buttato, ho provato ad ignorarlo, non se ne vuole andare, mi sta sempre intorno, appena esco mi viene incontro, vuole carezze!” “Non se ne parla, giusto il gatto manca a casa nostra…” “Ti prego dai, è bellissimo, vedrai che, quando torni domani e lo vedi, te ne innamori!” “Non farlo entrare in casa.”
Senti, intanto ti scelgo un nome: “Andrea, troviamogli un nome.” “Cerco su Google…” “Certo, il calendario non si addice per un gatto.”
Diventò Pepe ed ebbe la sua cesta, una notte fuori casa, sulla veranda della cucina, poi dentro. E la sua ciotola. Perché Gianni, tornando il giorno dopo a casa, lo prese in braccio e se ne incantò.

NB: questo racconto appare anche in BurnWriting

mercoledì 22 maggio 2013

Ultima lettura: "Nata in una casa di donne" di Cetta De Luca


Nata in una casa di donne

Autore: De Luca Cetta
Dati: 2013, 104 p., brossura
Editore: L'Erudita (collana L'urgente)

Voi siete nati insieme […] amatevi l’un l’altro,
ma non fatene una prigione d’amore
(Khalil Gibran, Il Profeta)

Tre parti per una storia vera (le origini - l’età di mezzo - gli anni delle luci e delle ombre), ciascuna introdotta da versi di Gibran e Tagore: versi evocativi di affetto e amore, passato e futuro, gli ingredienti principali della vicenda umana di Teresina e Giorgio. La loro è una storia semplice, comune, quella di una famiglia come tante, nata e cresciuta alla fine degli anni Cinquanta, negli anni del benessere economico, negli anni in cui era facile realizzare sogni ed ambizioni. In particolare quelli di Teresina, partita dalla Calabria carica di voglia di riscattare la sua condizione di povera ragazza del sud, quasi incapace di parlare in italiano ma desiderosa di recuperare terreno, come solo i cavalli di razza sanno fare. Intorno a questa figura femminile forte, volitiva, un po’ capricciosa e determinata si snoda la storia della famiglia. Intanto un marito ‘un po’ femmina’ perché circondato da femmine, rassegnato quasi ad essere un comprimario, ma decisamente centro di interesse della figlia Lucia, che vuole a tutti i costi piacergli, desidera che lui sia orgoglioso, che ne approvi scelte e perdoni errori. Poi quattro figlie, diverse e complementari, in una comunità solidale ma anche divisa da caratteri e attitudini diverse, che portano ciascuna il proprio fardello di esperienze anche dolorose, che le faranno crescere in fretta, all’ombra di mamma Teresina, assolutista e protagonista.
La narrazione si snoda attraverso due generazioni (genitori e figlie), che si aprono ad una terza, quella dei nipoti e del futuro (Voi siete gli archi da cui i figli, come frecce vive, sono scoccate in avanti, Khalil Gibran), di decennio in decennio, tra trasferimenti, amicizie, amori, ribellioni: ogni decennio è introdotto da un breve sommario che riassume i fatti e i personaggi che hanno caratterizzato il periodo e che fanno da sfondo storico alle vicende di questa casa di donne. Alla fine del romanzo, quasi ad attenderci alla chiusura del cerchio, troviamo Giorgio, il babbo quasi invisibile e distratto, schiacciato dalla personalità prorompente della moglie Teresina e dalle sue quattro piccole donne. E la figura di Giorgio si riscatta, questo libro è per lui, che, se non ci fosse stato, nessuno e niente ci sarebbe stato, nemmeno quella moglie tanto bella e tanto prepotente (Nella mia vita/ ho amato, cuore e anima,/luci ed ombre della terra, Rabindanath Tagore) .
La scrittura di Cetta De Luca è semplice, piana ma anche evocativa di sentimenti complessi, pensieri difficili, articolati. Non solo narrazione, ma anche scavo interiore, trasudante emotività, di chi quegli anni li ha visti, avendone vissuto speranze e delusioni e ancora aspettative. Un libro scritto con amore e per amore, con la certezza che anche gli errori paghino, non si pagano e basta.

domenica 5 maggio 2013

Frequentando salotti letterari: "Confidenziale" di Raffaele La Capria


Confidenziale. Lettere dagli amici

Autore   : La Capria Raffaele
Dati: 2011, 150 p., brossura
Editore: Il Notes Magico (collana La biblioteca di Mercurio)


Mi piacciono le lettere e tra i tanti generi letterari che da sempre prediligo c’è il romanzo epistolare. Con questo spirito mi sono accostata a “Confidenziale. Lettere dagli amici” di Raffaele La Capria, conoscendo l’autore quasi solo per fama, ma avendone letto spesso i suoi elzeviri sulle pagine del Corriere della Sera, mai i suoi libri. Leggere questa raccolta di lettere, di e per La Capria, e pensare di dover colmare questa lacuna è stato immediato. E ancora di più mi è sembrato un felice incontro con lo scrittore napoletano, quello fatto attraverso le pagine di questo libretto elegante, perché mi ha permesso di conoscere parte della sua produzione attraverso le parole di chi i suoi libri li ha molto amati. Subito ho avuto voglia di conoscere la storia di Giovanni e Kiki in “Un amore al tempo della Dolce Vita” e ancora la storia di una convalescenza e di un ritorno alla vita, quelli di La Capria stesso, narrati in “A cuore aperto” e via con gli altri titoli che tornano ripetutamente nelle lettere dei suoi amici. Leggendo questi schizzi di vita vissuta ho ripensato alla Napoli che ho sperimentato io, alla città che mi piace, anche se non ne so i più profondi segreti che sono un napoletano forse può conoscere; ho immaginato le stanze di Palazzo Donn’Anna, percorse dallo scrittore ragazzino e dai fantasmi gloriosi che le hanno abitate prima della sua famiglia. Insomma, sono entrata nell’esistenza e nei luoghi che appartengono a La Capria, tenendomi un po’ in disparte e osservando attenta ciò che le sue parole e quelle dei suoi corrispondenti mi hanno svelato.
Ma non sono stati solo questi aspetti a colpirmi, perché questa raccolta di lettere è ricchissima di stimoli, di spunti di riflessione. Ad esempio sull’umiltà con la quale l’autore sente il mestiere di scrittore: a proposito di Silvio Parrella, curatore del volume dei Meridiani a lui dedicato, esprime la sua riconoscenza per averlo aiutato a capire meglio quelle che aveva scritto nel corso degli anni. Ho trovato particolarmente interessante la lettera di Alfonso Berardinelli, in cui si trova un appunto sulla critica letteraria: “Mi piace scrivere critica. Ma deve esserci qualcosa da criticare, qualcosa che risvegli il dèmone dialettico con i suoi movimenti polemici, distruttivi, sempre un po’ bellici. A me l’apologia non riesce bene”, illuminante per chi scrive recensioni per il puro piacere di farlo, negli spazi privati dei propri blog (che diventano pubblici, altrimenti non avrebbero motivo di esistere), non per mestiere quindi, e si interroga continuamente su ciò che fa e sul perché lo fa.
Infine, ma non alla fine, anche solo scorrere la lista dei nomi delle persone che hanno scritto e scoprirvi personalità famose, illustri, di estrazioni diverse, di età così distanti a volte ma così vicine in una comunità di sentire, arricchisce e fa sentire parte di qualcosa di appunto molto confidenziale. E quindi Alberto Arbasino, Pupi Avati, Erri De Luca, Giosetta Fioroni, Pietro Citati, Piergiorgio Bellocchio, Giorgio Napolitano, Anna Maria Ortese, Sandro Veronesi, Dino Risi, Lina Wertmüller, Andrea Zanzotto solo per citarne alcuni: da tutti e per tutti, parole piene di affetto, stima, storia, curiosità. Una raccolta di lettere così privata (alcune sono riprodotte in copia anastatica) che renderla pubblica è stato un grande regalo che La Capria ha fatto ai suoi lettori, che in questo modo sono potuti entrare in un mondo eccezionale, altrimenti precluso. Si rendono pubbliche le proprie lettere? Credo proprio di sì, se ognuna di esse è una piccola opera letteraria che può andare a beneficio di tutti quelli che vorranno leggerla. La soluzione forse l’ha offerta lo stesso La Capria, quando sollecitato da Umberto Silva a cercare le lettere dei suoi amici per una pubblicazione presso Il Notes Magico, dopo averle trovate disse "Ho qualche dubbio, ma se si sono fatte trovare è perché forse vogliono uscire alla luce".
Un’ulteriore merito va quindi alle edizioni Il Notes Magico: grazie al salotto virtuale di Tempoxme_libri, non è la prima volta che mi capita tra le mani un loro libro (il primo è stato “Mozart” di Paolina Leopardi) e quindi non è la prima volta che apprezzo l’eleganza delle loro pubblicazioni, la grafica essenziale, le copertine raffinate e le scelte editoriali audaci e allo stesso tempo misurate, adatte ad un pubblico dal palato molto fine.

mercoledì 1 maggio 2013

Ultima lettura: "Voglio guardare" di Diego De Silva

 
Voglio guardare
Autore   : De Silva Diego.
Dati: 2002, 184 p., brossura
Editore: Einaudi (collana L’arcipelago Einaudi)

cazzotti nello stomaco a cui non si può/vuole sottrarsi.
Bellissima prosa. #chevelodicoaffà
(dal mio Twitter)

Diego De Silva è l’inventore dell’avvocato Vincenzo Malinconico. E quelle di Malinconico sono un certo tipo di storie, scritte in un certo stile riconoscibile e inconfondibile, che non prescinde dal personaggio: l’avvocato Malinconico non si può raccontare che così.
Anche il protagonista di “Voglio guardare” è un avvocato, Davide Heller, giovane, affermato, elegante, sicuro di sé e con un segreto. Questo segreto, per un caso, metterà sulla sua strada Celeste, un’adolescente dalla vita guasta. Sono personaggi distanti, diversi, con una sottile perversione che li accomuna. Ma se è abbastanza chiara quella dell’uomo, non altrettanto si può dire per la sedicenne, misteriosa e inquieta. I due poli si attraggono in un legame, non cercato e non voluto, fatto di tensione che sale e che avvolge il lettore come in una spirale di cui si vuole vedere l’origine e la fine. Il titolo, “Voglio guardare”, potrebbe essere la sintesi di questa intesa e forse suggerire come si declinerà l’intesa tra i due, ma fa troppo orrore immaginarlo, quindi il lettore non ci pensa e resta spiazzato quando questa frase la incontra, pronunciata dalla ragazza. E così pensa che sia tutto chiaro, che da quel momento in avanti è quasi scontato non come andrà a finire la vicenda, ma quanto meno come potrebbe ancora svolgersi. Invece non è così e De Silva ci offre uno sviluppo sorprendente, che tiene avvinto chi legge via via che le pagine scorrono e non si vogliono lasciare.
Non è un giallo, o forse sì. Credo in realtà che sfugga alle definizioni, che sia tanti romanzi in uno nonostante la brevità. Come accade ad altri romanzi di Diego De Silva (“Certi bambini” ad esempio, o "Mancarsi")
Qui torno da dove sono partita. Ci sono i romanzi della serie di Malinconico e ci sono gli altri romanzi di De Silva. E questi romanzi raccontano ugualmente (e diversamente dai primi) certe storie in un certo modo, con uno stile riconoscibile e inconfondibile. E questi sono i romanzi che sono pugni allo stomaco, che ti costringono ad andare avanti, a non far finta di non vedere cosa ci può essere ai margini di una società che ai più è sconosciuta, ma che non è poi così lontana da noi. Perché i mostri, i sub-umani, sia quelli perbene sia quelli brutti sporchi e cattivi, degradati, come quelli di Scola o di Ciprì e Maresco, sono più comuni di quelli che immaginiamo.