giovedì 25 aprile 2013

Ultima lettura: "Il killer delle maratone" di Paolo Foschi


Il killer delle maratone

Autore   : Foschi Paolo
Dati: 2013, 171 p., brossura

Editore: E/O (collana Originals)

Non conoscevo Igor Attila e ho letto della sua terza inchiesta senza sapere chi fosse. Mi mancavano quindi i fondamentali: che sembianze ha, che poliziotto è, come si è formata la squadra crimini sportivi che dirige da commissario, che vita ha. Così per alcuni aspetti mi sono avvalsa della mia fantasia (quindi Igor Attila, non fosse altro che per il nome, secondo me porta sottili baffi alla tartara, non è altissimo e si rasa i pochi capelli che gli sono rimasti, veste un chiodo un po’ datato e ha occhi profondissimi, scuri), per altri le vicende narrate aiutano a recuperare alcune informazioni sui collaboratori del commissario (un drappello di ex atleti falliti –Attila stesso è un ex puglie- appositamente reclutati nella sezione della questura che si occupa di crimini consumati in ambito sportivo), sulla sua vita privata (un amore diverso e tormentato, una moto con cui ama sfrecciare in libertà) e professionale (il suo essere un poliziotto fuori dagli schemi, anticonformista e insofferente).
La storia: un killer seriale diventa l’incubo dei podisti, uccide nel corso di tre gare su strada a Roma, Cosenza e Genova, utilizzando un’arma sofisticata, una balestra leggerissima e spietatamente precisa che rappresenta la firma dell’assassino e la pista che porterà Attila, casualmente, allo scioglimento del rompicapo. La soluzione del caso passa attraverso le incomprensioni dei superiori, che arrivano a sollevare dall’incarico il commissario e la sua squadra (che però procedono con indagini nascoste e parallele fino al successo finale): una complicazione che si aggiunge alla vita già abbastanza scoordinata di Igor. Il lettore si fa prendere dalle vicende personali del protagonista, lo accompagna nelle trasferte di lavoro, negli scontri soffocati con l’innovativa aiutante che gli si affianca nelle indagini fino a sostituirlo, è con lui in ospedale, dove Titta - il suo ex compagno- combatte per sopravvivere ad un incidente d’auto.
E il racconto delle vicende private di Igor offre a Foschi l’opportunità di trattare argomenti di stretta attualità, dalla spending review, ai diritti non riconosciuti delle coppie omosessuali, ai poteri politici spesso solo di facciata, incarnati dal magistrato Silvio David, elevato agli onori del Parlamento, e dai suoi duetti con il questore.
Igor Attila non è un eroe, o almeno non lo è canonicamente: lo percepiamo vicino, impulsivo, fragile anche, intuitivo ma consapevolmente low profile, in attesa di arrivare pazientemente a ricomporre il mosaico di cui ha raccolto tutte le tessere in apparenza scollegate, grazie anche alla sua squadra, che sembra muoversi in modo scombinato e che invece è assai dinamica e produttiva.
Lo stile di Foschi è asciutto e rapido: sintassi essenziale, frasi brevi, anche nominali, dialoghi serrati alternati a brevi riflessioni introspettive del protagonista, sempre in bilico tra ciò che gli si chiede e ciò che lui sente di voler fare.
Come tutti i gialli, anche da questo non ci si separa volentieri finché non si arriva alla soluzione, benché non sia solo la curiosità di conoscere l’identità dell’assassino a tenerci attaccati alle pagine: la simpatia per i personaggi, lo sfondo in cui si muovono, la partecipazione emotiva alle vicende del protagonista, gli elementi che man mano si raccolgono e delineano una storia che il lettore logicamente prova a dedurre nelle sue conclusioni, sono i motivi per leggere questo romanzo e per desiderare di recuperare le puntate precedenti, se non si ha avuto già l’occasione di conoscere Igor Attila e la Sezione crimini sportivi che coordina.

PS. Ho finito di leggere questo romanzo ai primi di aprile, ben prima della strage alla maratona di Boston del 15 aprile 2013. Per vari motivi non ho scritto subito la recensione e farlo nei giorni immediatamente successivi alla tragedia mi sembrava stonato. In realtà, per quanto turbamento possa provocare scrivere di una fiction mentre si è consumato un dramma reale, si tratta pur sempre di un’opera di fantasia: mai l’autore avrebbe potuto immaginare che una gara bella come la maratona sarebbe stata macchiata un giorno di sangue vero e non di succo di pomodoro.

mercoledì 24 aprile 2013

Bollicine


Osservava le bollicine risalire verso il bordo del calice. Era un bianco frizzante, e allo stesso tempo secco, prepotente. Scendeva freddissimo in gola, lasciando tra lingua e palato una sensazione di asciutto asprigno che compensava la delicatezza della carne bianca di quella spigola di mare che Stefano stava minuziosamente scarnificando dalla lisca. Non aveva mai visto mangiare del pesce con tanta attenzione, con tanta eleganza anche mentre ne succhiava la testa, con tanto gusto: non era solo buon appetito, si trattava piuttosto di una forma di amore verso il cibo, anzi, verso quel cibo. Lo stesso amore che non aveva dimostrato a lei, nonostante premesse e promesse.

Elettra invece cincischiava nel piatto, aveva assaggiato solo un filetto superiore della sua spigola, quello esterno, compatto, che era riuscita a staccare senza che rimanessero spine nella polpa. E adesso guardava le bollicine che si rincorrevano in quel bicchiere di vino, fino a fermarsi a morire in superficie. Partivano dal fondo e scivolavano sulle pareti di vetro scontrandosi tra loro, rompendosi e dileguandosi quando non riuscivano a raggiungere l’aria. Esattamente quello che sentiva succederle dentro: da settimane aveva smesso di mangiare e di dormire, incapace di pensare ad altro che all’arrivo di lui, dopo una vita che non si vedevano. E l’attesa si era caricata di aspettative, progetti, rimorsi, ripensamenti, incoscienza, paura e poi ancora di convincimenti, di ansie, di desiderio. Si era sbriciolato tutto, dopo che Stefano le aveva detto chiaramente che non poteva essere, che si era sbagliato, che non poteva portarla con sé, che non c’era spazio per lei nella sua vita, lui doveva tornare al suo lavoro, a troppi chilometri di distanza perché si potessero ancora rivedere: quegli stessi chilometri che, all’andata, aveva comunque scavalcato con impazienza.

Elettra studiava quelle bollicine e ogni tanto portava alle labbra il calice, sorseggiando lenta e assaporando quel sapore pungente. L’unico suo interesse era il rimescolio del vino ogni volta che Stefano le rimboccava il bicchiere, attento a che non rimanesse vuoto e continuando a mangiare e a parlare. Così, come se nulla fosse successo in quella mattina, a partire dal suo arrivo in aeroporto, fino alla sistemazione in albergo, fino a quando l’aveva presa tra le braccia e poi ancora si erano addormentati, lui stanco da due notti insonni, per poi alzarsi e andare a mangiare in quel ristorante consigliato dal tassista. Come se non avesse appena finito di dirle che no, lui tornava da dove era venuto, che gli dispiaceva ma era andata così, in fondo non era colpa di nessuno. E poi aveva cominciato a parlare di tutto il resto, del lungo tempo che li aveva separati, delle comuni conoscenze, di quelle lacrime che li avevano uniti, tanti troppi anni prima, in una tragedia di cui conservavano gelosa memoria ma che avevano vissuto da separati, potendoselo dire solo ora.

Rabbia, dolore, impotenza, domande si rincorrevano, si rimescolavano, si frantumavano dentro di lei come le bollicine di quel bianco frizzante, e allo stesso tempo secco, prepotente.
Finirono di pranzare: lui in una specie di euforia dovuta certamente al pesce e al vino freddo che avevano riempito, insieme a mille inutili discorsi, quello spazio di tempo -l’ultimo?- trascorso insieme; lei in un limbo in cui si sentiva inconsistente, vuota di parole e pensieri.
Si avviarono verso l’albergo di lui. Elettra sapeva quello che sarebbe successo, complice quel vino malandrino: sarebbe stato solo quello che lui aveva elegantemente definito un ‘ciulino’, però aveva bevuto quel bianco frizzante, non tanto, ma quel che bastava per dimenticarsi di quel che avrebbe voluto realmente da Stefano, o almeno per fare finta di non pensarci più.
Poi lo avrebbe accompagnato al suo aereo, quello che non avrebbe dovuto prendere prima dei tre giorni che le aveva promesso in regalo: ne avevano consumato solo uno, sufficiente per decidere che era stato solo un capogiro.

NB. “Bollicine” ha partecipato nel 2007 al concorso “Letti in un sorso” promosso dalla Santa Margherita S.p.A., aggiudicandosi la pubblicazione come ‘racconto del giorno’. Appare anche nel blog Inoltre di Saverio Simonelli, che ringrazio per la squisita ospitalità.

mercoledì 17 aprile 2013

Frequentando salotti letterari: "Partigiano Inverno" di Giacomo Verri


Partigiano Inverno

Autore: Verri Giacomo
Dati: 2012, 240 p., brossura
Editore: Nutrimenti (collana Greenwich)



... Diretti come certe littorine all'entropia emmoragica delle verità.


A volte capitano letture che ci lasciano perplessi, che non riescono a conquistarci, o che più semplicemente non ci piacciono e non ne salviamo niente. I motivi possono essere vari: la storia non ci appassiona, è scritta male, lo stile non ci attira. La colpa non è di nessuno, spesso è solo questione di gusti, difficilmente un romanzo è assolutamente bello o assolutamente brutto per tutti.
Il caso di questo romanzo di Giacomo Verri è particolare. Il titolo promette una storia che si intravede come continuatrice di una tradizione che nel neorealismo ha visto la sua espressione maggiore e ci si aspetta che l’autore abbia fatto proprie le lezioni dei racconti di Resistenza fatti da Calvino, Cassola, Fenoglio, Pavese (che però di quegli anni difficili sono stati protagonisti). Giacomo Verri invece è giovanissimo e quella Storia può solo averla studiata a scuola e sentita narrata da un nonno. In realtà l’occasione gli viene dalla notizia di un romanzo, che però non ha mai visto la luce, di tale Remo Agrivoci, il quale avrebbe voluto scrivere una storia vera -a lui contemporanea- e aveva annunciato di essere in procinto di farlo. Verri bene lo spiega nella postfazione a “Partigiano Inverno”:  fa sua l’intenzione di Remo e scrive al suo posto. Probabilmente però ha tradito quello che doveva essere il primo narratore di questa storia: se Agrivoci avesse scritto il suo romanzo, forse la sua voce sarebbe stata somigliante a quelle di Calvino, Cassola, Fenoglio o Pavese, ma siamo nel campo delle ipotesi e questo non lo sapremo mai.
Abbiamo questo romanzo, di questo giovane scrittore, che ha colto l’occasione per fare un esperimento stilistico che però paradossalmente rappresenta il più grande limite della sua opera.
Intanto la storia: siamo in Valsesia nel dicembre del 1943, Natale si avvicina e Italo prepara il suo presepe, aiutato dal nipote Umberto, dieci anni. Jacopo, un giovane partigiano, vive la sua Resistenza a fianco del comandante Cino, sulle montagne. Questi sono i tre protagonisti le cui vicende si intrecciano tra il sogno del piccolo Umberto di unirsi un giorno ai partigiani, la scelta di Jacopo di vivere la Storia in prima persona e l’affronto di un arresto immotivato per il maturo Italo. In realtà questa storia l’ho desunta della lettura della sinossi del libro: avendo letto la versione in ebook, nessun risvolto di copertina mi ha aiutato a orientarmi sul tipo di trama che avrei incontrato, quindi mi sono affidata al solo titolo.
Ho cominciato a leggere, ma immediatamente mi sono scontrata con una lingua ostica, volutamente criptica, ricercata, ardua, provocatoria: dire che la lingua in “Partigiano Inverno” è usata in modo ardito equivale a usare un eufemismo. Il lessico si fa sempre più complesso; all’inizio le parole ‘difficili’ sono in una quantità quasi accettabile, sembrano dare ricercatezza al testo, via via che si procede nella lettura, aumentano in un climax sempre più ripido e faticoso. Mi sono ritrovata concentrata più sulle parole (che andavo appuntando su un foglio) che sulla storia, di cui non stavo capendo granché (e questo a scapito della storia stessa). Qui c’è di tutto: dialetto, lessico familiare, arcaismi, hapax, neologismi, tecnicismi che distraggono il lettore e lo allontanano dalle vicende narrate. L’autore si compiace di involversi in un esercizio stilistico di cui però non si comprende lo scopo: il romanzo sfugge a qualsiasi definizione e forse è questo l’obiettivo di Verri, non farsi incasellare in un genere. Espressioni come piede sifulo, sogni ustolati, bogomili, onninamente, stissa di ruggine, non aiutano la storia, dalla quale si finisce con l’allontanarsi, senza riuscire a partecipare di vicende umane che invece tanto potrebbero appassionare il lettore.
Può essere che il fatto di non essere riuscita a farmi prendere dalla musicalità dell’insieme sia un mio limite, anzi sicuramente lo è, però penso anche che un libro, una storia, sia scritto per chi lo leggerà, quindi anche per me che l’ho acquistato.
Inoltre ho pensato all’immediata ricaduta sul lettore ‘debole’, sui giovani di cui lamentiamo la scarsa attitudine alla lettura: se in Italia legge solo una persona su due (e parliamo di poco più di una decina di libri all’anno per essere considerati lettori ‘forti’, quando in Germania ce ne vogliono una cinquantina), proporre ai ragazzi una lettura del genere significa disamorarli completamente, respingerli. Un esempio su tutti: l'espressione termopili valsesiane è, secondo me, fortemente selettiva, poichè oggi, con la storia che si fa a scuola, le Termopili si incontrano forse una sola volta (se, pure), un giovane non capisce la citazione.
Il sospetto che questo esercizio di stile resti fine a se stesso è fortissimo: frasi come cunato dal ramificare lento della voce avuncula, cioè ‘cullato dalla voce dello zio’, tolgono efficacia alla scena, che invece è semplicissima, intima, familiare e non richiede alcun preziosismo lessicale per essere descritta. Si sfiora il ridicolo in espressioni come piedi sorbettati invece che ‘congelati’, alla ricerca forse dell’effetto sorprendente: a chi giova tanta leziosità?
Questo libro va al di là delle intenzioni stesse del suo autore: è un libro che innamora o che si fa odiare. L’ho letto fino in fondo, contravvenendo al terzo dei diritti imprescrittibili del decalogo di Pennac, cioè quello di non finire un libro, perché volevo vedere fino a che punto la sfida tra scrittore e lettore si spingeva, fino a che livello l’asticella si sarebbe alzata. Il risultato finale è che mi sono sentita svuotata, affaticata, delusa da un esercizio di lettura inutile. Peccato.



martedì 9 aprile 2013

Esiste il #LettoreIdeale?




Tutto è cominciato dalla lettura faticosa del romanzo “Partigiano Inverno” di Giacomo Verri e dallo scambio di battute che ho avuto con l’autore nel forum del salotto letterario di  TempoXme.
Ho avanzato alcune perplessità sul preziosismo lessicale del suo romanzo, che mi costringeva a concentrarmi più sulle parole che sulla storia, chiedendomi quanto questo facesse bene alla storia stessa e, sottolineando la provocatorietà della scrittura di Verri, concludevo “penso anche che un libro, una storia, sia scritto per chi lo leggerà, quindi anche per me.” Verri ha allora delineato il suo Lettore Modello: “mi piacerebbe che il mio Lettore Modello fosse volenteroso, e avesse voglia di leggere anche due volte il testo. La prima volta usando della musicalità delle parole, e poi cercando altro.”
Tralasciando l’aspetto che riguarda la volontà del lettore (esiste un lettore non volenteroso?), dal momento in cui ho letto questa risposta, ho cominciato a interrogarmi sull’esistenza di un lettore ideale, o modello che dir si voglia. C’è davvero? Anzi, deve esserci per chi scrive? Premesso che l’esistenza di un Lettore Ideale presupporrebbe anche l’esistenza teorica e contemporanea di uno Scrittore Ideale, di un Editore Ideale e di un Libro Ideale, la prima risposta che mi sono data è no: non può esserci un fruitore ideale, uno scrittore può pensare di rivolgersi ad un target di lettori specifico per fasce di età o di genere letterario, ma un testo letterario è un’opera creativa, un’espressione artistica, e in quanto tale non può sopportare paletti, limiti, condizioni. Tuttavia è anche vero che, per quanto una narrazione sia un’opera d’arte libera, in qualche modo deve poter incontrare il favore dei lettori, altrimenti rischia di restare una manifestazione fine a se stessa, sterile, magari incompresa, sicuramente poco divulgata.
Ho girato il quesito ai lettori, agli scrittori, ai bookbloggers tra i miei conoscenti, su Twitter e Facebook,  e quelli che seguono sono i pareri raccolti.

Simona Scravaglieri (‏@LeggendoLibri) riporta la definizione di Cesare Segre: il Lettore Ideale è quello che vede esattamente lo scritto come l'autore. “Per Nabokov è un Ri-Lettore!” (‏@tempoxme_libri), insomma un po’ come vorrebbe Giacomo Verri.
Per alcune delle persone consultate, il Lettore Ideale sembra esistere ed è semplicemente quello che “che sostiene la filiera… “ (Daniele Bergesio), “colui che legge” (Arturo Robertazzi), “legge tutto, con spirito critico” (Angela Leucci) e ha “capacità di evadere” (‏@CLetteraria). Inoltre è “attento alla lingua, non antologizza ma tende a monografizzare, curioso non solo delle parole dello scrittore ma anche di quel che c'è dietro (vita, mondo, background, faccia)” (Elvio Calderoni), “si nutre di libri: acqua e cibo non bastano” (Lucia Rupolo), è “Empatico/Simpatico, esiste nel cuore dello scrittore” (@atrapurpurea), “sa ascoltare dimenticando se stesso” (Gea per LibriamoTutti). Per ‏@luisanna_ardu “è atto di #libertà. Legge tanto, tutto e dovunque.”
Nicola Lecca sostiene che “il lettore ideale è quello che si abbandona al tuo libro senza pregiudizi.” Per Cetta De Luca “forse #lettoreideale è chi legge senza pensare di scrivere” (domanda mia: allora uno scrittore difficilmente sarà un Lettore Ideale?). 

Qualche volta il Lettore Ideale è una persona reale: ad esempio per ‏@m_isa451 è suo marito “i libri glieli compro io (è pigro) ma poi li legge tutti fino in fondo. Io no, se non mi vanno.” Ma può anche essere un’illusione: per ‏@letteratu e ‏@RockBogdanovich “I lettori sono personaggi immaginari... creati dalla fantasia degli scrittori(cit)”, un “sogno d'autore”.

Il gruppo di coloro che sostengono l’inesistenza del Lettore Ideale così argomentano: “non esiste il Lettore Ideale. Potrebbe esistere l'editore ideale che, leggendo, il lettore determina un gusto, creando il lettore, forse, ideale.” (Pierluigi Vaccaneo); “mentre per il lettore può esistere uno scrittore ideale, non può essere vero il contrario. Lo scrittore attende il lettore, chiunque esso sia, poi si augura anche di averlo convinto, in modo da capitalizzarne l'attenzione anche per opere future. Lo scrittore sa che può indirizzarsi verso un certo tipo di lettori ma il meccanismo di approccio da parte del fruitore finale é estremamente complesso e, fra i tanti nessi, non esclusa l'influenza dei media, c'è anche quello più magico che é l'incontro del tutto casuale.” (Lorenzo De Donno). Per Paolo Merenda non esiste “un lettore ideale in senso assoluto, ma un lettore ideale per ogni genere. Ogni genere, a mio parere, tocca determinate corde dell'anima, e solo se il lettore le ha e si lascia attrarre diventa ideale.” Neanche per Paolo Foschi esiste il Lettore Ideale: “Nella cultura, come del resto in natura, la diversità è ricchezza”

Più articolata, da filosofo del linguaggio, è l’opinione di Marco Trainito: “Il lettore ideale, proprio perché ideale, non esiste: è un ideale regolativo. Però ci sono lettori che possono tendervi all'infinito. Chi ci prova, secondo me, è colui che usa il testo come pre-testo per fargli dire non tutto quello che si vuole ma tutto ciò che la fusione degli orizzonti (quello del lettore e quello del testo, non necessariamente coincidente con quello dell'autore) può generare in termini di senso. Il testo, insomma, dev'essere in grado di specificare alcune interpretazioni lecite tra le innumerevoli che il lettore è spinto a produrre iperattivamente a seguito della stimolazione cognitiva indotta dall'atto di leggere.”

Alla fine di questa piccola indagine resto convinta del fatto che non si possa immaginare l’esistenza di un Lettore che corrisponda esattamente alle aspettative dello Scrittore.  Semmai è il contrario: la mia libertà di Lettore deve incontrare la libertà dello Scrittore. Se questo accade e da questo incontro scaturisce un interesse, magari condiviso da altri lettori, allora quello Scrittore, nella sua autonomia creativa, avrà creato un motivo per essere amato, seguito, letto ancora. Il che non significa che sia uno Scrittore Ideale, ché nemmeno quello esiste.

Oppure il Lettore Ideale è il mio gatto.

venerdì 5 aprile 2013

Ultima lettura: "La piramide del caffè" di Nicola Lecca


La piramide del caffé

Autore   : Lecca Nicola

Dati: 2013, 233 p., brossura
Editore: Mondadori (collana Scrittori italiani e stranieri)

Come ogni mattina, anche oggi la sveglia di Imi suona puntuale.
Sembra proprio una giornata come un’altra:
invece, fra poco, tutto cambierà.


Il mondo di Imi è semplice, gli occhi di Imi sono puri, al limite dell’ingenuità. I valori che Imi ha assorbito nell’orfanotrofio ungherese in cui è cresciuto fino ai diciotto anni e da cui proviene, sono talmente saldi che rappresentano le lenti quasi deformanti della realtà londinese in cui è approdato, cercando fortuna. Sono pochi gli schemi da applicare ad un ambiente che non è quello che sembra e che per questo riserverà al protagonista del romanzo di Nicola Lecca non poche perplessità. La Proper Coffee, catena di caffetterie multinazionale dove un cappuccino deve essere sempre uguale a se stesso (stessa quantità di caffè, stessa densità della schiuma, stessa cremosità senza guizzi interpretativi da parte del banconista), sembra l’Eldorado, il paradiso possibile per Imi.
Intorno alla sua affermazione sociale, nel paese che ha scelto per vivere, abbandonando la realtà provinciale di Landor al confine tra Ungheria e Austria, si muovono personaggi diversi, ciascuno portatore non sempre sano di varia umanità. Nicola Lecca, mantenendo uno stile pulito e lineare, calibra toni e registro a seconda del personaggio inquadrato volta per volta: tutta la piramide del caffè -dal creatore della catena Proper Coffee, ai dirigenti delle filiali, ai banconisti-, la scrittrice Nobel per la letteratura volontariamente esiliata dal mondo e l’amico libraio Morgan, la padrona di casa di Imi con la sua vicina di casa antropofobica, i bambini dell’orfanotrofio. Ma gli occhi con i quali Lecca guarda la vicenda per raccontarla, sono prevalentemente quelli di Imi, capace di sorprendersi, indignarsi, interrogarsi su tutto ciò che vive, da protagonista o da spettatore.
Questo è un libro che si legge presto, anche grazie ai capitoli brevi, a volte brevissimi, che consentono di chiudere una scena, un pensiero, una situazione in poco spazio, lasciando al lettore il tempo di assaporarli, proprio come si farebbe con una tazzina di caffè.
Nel corso della lettura ci si scopre a tifare per Imi, a sperare per lui un risveglio non troppo brutale, che gli conservi la fiducia nell’umanità senza troppo candore, ché se sei pecora il lupo ti mangia.


mercoledì 3 aprile 2013

#Leucò: il bilancio di un'esperienza



C’è la lettura. E la rilettura. Anche la riscrittura. Poi c’è #Leucò, che è tutto questo messo insieme, con dei limiti (la reinterpretazione tramite tweet) che poi ne rappresentano la ricchezza principale. Quasi una contraddizione in termini, un ossimoro, perché il freno dei 140 caratteri tassativi di Twitter si è trasformato in una miniera di creatività che ha inchiodato alla tastiera una comunità vivace e curiosa, che si è stretta intorno alla Fondazione Pavese e agli ideatori del progetto, i già citatiPierluigi Vaccaneo, Hassan Bogdan Pautàs e Paolo Costa.
Cominciato il 14 gennaio scorso, l’esperimento arrivava secondo in ordine di tempo rispetto alla riscrittura in tweet de “La luna e i falò”, ma in breve tempo l’ha superata in risultati di successo e di coinvolgimento di pubblico. Ad un terzo del suo percorso l’hashtag #Leucò aveva raggiunto 600 utenti, registrando un totale di 18.228 messaggi tra tweet originali e retweet. Oggi il bilancio che se ne fa, in termini numerici, è quasi esponenziale: un torrente di interazioni tra riscrittori e pubblico, che ha arricchito di sensazioni ed emozioni tutti i partecipanti, creando correnti di simpatia e di affinità elettive. 


Perché ciascuno degli scrittori di #Leucò, a partire dai Titani che hanno seguito il flusso di riscrittura dando il via ad ogni dialogo con un tweet di apertura, ha messo del suo: in questo informare la materia, improntandola ad un proprio modo di leggere tra le righe di ciascun dialogo, ciascuno ha espresso il suo sentire e, in quel sentire, altri si sono ritrovati. Si sono incrociati stili diversi, sensibilità varie; abbiamo letto tweet poetici e concreti, ironici e amari, ingenui o eruditi al limite dell’intelligibilità, ma tutti semi di personalità. Dietro ogni tweet, dietro ogni rilettura e riscrittura c’è la voce di una persona, tanto da riuscire a riconoscersi gli uni con gli altri.



Lo stesso stile personale ha improntato ovviamente anche i vari Storify, flussi informativi corali, che si sono succeduti a raccontare ciascun dialogo, insieme alle ispirazioni e alle sensazioni dei vari autori. L’utenza si è selezionata da sé, pur restando un fenomeno esteso nei limiti della ricercatezza. Ci si è scelti, esprimendo la propria chiave di lettura o condividendo con un retweet quella altrui.



Cosa è stato per me #Leucò, giunta alla fine del viaggio? Era un’esperienza che andava fatta in prima persona, nessuno può raccontartela. Se un protagonista di #Leucò prova a dirti cos’è un esperimento di twitteratura, rischi di distrarti, perderti, interromperti: ma se ci metti il tuo nome, la tua consapevolezza, il tuo filtro, allora capisci quanto certa letteratura sia sempre attuale, sia sempre adattabile al tuo vissuto, si attagli ad un tuo certo percepire le realtà e il sogno.

Finisce #Leucò con il dialogo 26? Questo lo scambio con Paolo Costa: