mercoledì 27 marzo 2013

Frequentando salotti letterari: "Comunque vada non importa" di Eleonora C. Caruso


Comunque vada non importa

 
Autore   : Caruso Eleonora C.
Dati: 2012, 220 p., brossura
Editore: Indiana (collana I lucci)
  
Leggo #comunquevadanonimporta e scopro #Darla,
personaggio dalla logica ineccepibile e disarmante
@signorinaceppo @indianaeditore mi diverto
(dal mio Twitter)

Un esordio col botto quello di Eleonora C. Caruso, se vogliamo considerare il suo primo romanzo pubblicato, che ha raggiunto la seconda edizione in pochi mesi. Ma Eleonora scrive da un po’, nel suo blog, anche se non spinge perché si sottolinei. Quindi di questo non parleremo, anche se mi viene facile pensare che l’esercizio continuo di stile cui ci si sottopone scrivendo un blog, alla fine qualcosa porti alle storie che si decide di raccontare altrove.
Non solo: penso che un po’ di Darla, la protagonista del romanzo, sia già nel blog di Eleonora.
Molte sono le frasi secche e stringenti che servono a disegnare il personaggio di questa ventenne persa nei suoi manga, sempre attaccata a Internet e al divano pataccoso (Dirty Darla, l’ho soprannominata mentre leggevo del suo complicato rapporto con l’igiene personale e della casa) su cui passa la gran parte del suo tempo, studentessa universitaria per dire e non per convinzione, affamata di schifezze e di attenzione. Ne scelgo una in particolare. “Ne sono sempre più convinta, l'amicizia femminile esiste solo in Sailor Moon”: è da questa convinzione che nasce l’atteggiamento di Darla verso le persone che le ruotano intorno, quelle che vogliono farlo (Alessandro), quelle che le capitano tra i piedi quasi per caso (Alberto), quelle che lei respinge (Susi) e quelle che le sfuggono, insoddisfatte o incapaci di gestire il rapporto con lei (Miku, Andrea). Darla assorbe tutta l'attenzione del lettore. I personaggi che le fanno da cornice sono importanti e funzionali a lei, quasi complementari. Le danno modo di esprimere tutte le sue necessità di attenzione, le richieste di amore e di amicizia: se non ci fossero, sapremmo molto meno di Darla e del suo modo di vivere. Più sfuggente è la figura del padre, meno definibile: un uomo che apparentemente non è stato capace, specie dopo la morte della moglie, di trovare le parole giuste per incasellare i sentimenti che lo legano ai figli.
Tutti i protagonisti degli eventi sono schietti, non si nascondono dietro dialoghi di maniera. Anzi è proprio da quello che dicono, da quello che quasi ci sembra di sentire con le nostre orecchie, che i personaggi emergono e si rivelano in tutte le loro sfaccettature: le descrizioni sono attente, la materia emotiva è viva.
Sincerità e immediatezza sono propri di tutti i personaggi di questa storia, specie quelli maschili, ma le battute di Alberto in particolare spesso mi hanno folgorato, perché rivelano tutto il suo essere apertamente sarcastico, provocatorio, irriguardoso: un po’ come Darla, della quale è quasi lo specchio (ma non diciamolo a lei e nemmeno a lui).
La lingua e lo stile. C'è tutto qui: c'è italiano, inglese, gergo, linguaggio settoriale, dialoghi in stampatello maiuscolo, inserti in corsivo, tutto funzionale al racconto. Tutto contribuisce a farci entrare nella storia con un’efficacia non comune.
Non so se questo è un romanzo generazionale o di formazione: devo dire che non mi sono posta il quesito, lo faccio adesso ma non ho risposta. O meglio, forse una risposta c’è: non è un romanzo che racconta una generazione o un modo di essere. Darla è a sé, la sua storia può essere comune ad altri ventenni, universitari fuori sede che trascinano il loro tempo tra fumetti, film, chat rooms e lezioni disertate sistematicamente, ma allo stesso tempo si snoda come un flusso unico e eccezionale, esperienza dolorosa e irripetibile.

“I discorsi col cuore in mano non li capisco, non è nella mano che dovrebbe stare un cuore”

lunedì 25 marzo 2013

Tutte le lettere


I didn't hear you leave
I wonder how am I still here
And I don't want to move a thing
It might change my memory
Caro Ilde,
Posso usare il nostro epistolario? Sono passati tanti di quegli anni e non ho riletto una riga delle centinaia scritte da me e da te, in un delirio di mail che hanno attraversato il mare e l’aria che ci separava. Però so bene che erano lettere bellissime, questo me lo ricordo benissimo. Perciò oggi ti chiedo il permesso di utilizzarle. Non preoccuparti, posso cambiare i nomi, ci mancherebbe. Nessun riferimento a persone e situazioni riconoscibili, non temere. Le vorrei usare per scrivere un romanzo epistolare, sai, è un genere che va sempre.  Anzi ti dirò che come genere si è evoluto, ora vanno i romanzi epistolari sì, ma le lettere devono essere mail, con tanto di campo From, campo To e Object. Che occupano un bel po’ di spazio nella pagina, se proprio dobbiamo dircela tutta.
Non ho più scritto lettere d’amore. O meglio, è moltissimo tempo che non ne scrivo. Credo di aver dato fondo a tutte le risorse. O forse, semplicemente, l’uomo che adesso divide i suoi giorni e i suoi spazi con me non ha bisogno di molte parole, dice sempre che le chiacchiere stanno a zero e che quello che conta sono i fatti. Il che è vero.
Sa cucinare, ma non usa il robot da cucina, non so per quale forma di purismo gastronomico; un po’ come quelli che fanno il pesto solo nel mortaio, con il pestello, aborrendo il frullatore perché le lame scaldano la salsa, che si ossida e poi non viene verde, almeno così si dice.
In realtà sono quasi certa di saper cucinare meglio di lui, ma gli lascio credere di essere bravissimo e mi faccio coccolare. Ché davvero qualche volta ne ho bisogno, dati i precedenti. Di te invece so solo che sapevi (sai?) fare le patate buonissime, come diceva tuo figlio. Ma io non le ho mai assaggiate. Sinceramente non rimpiango di non averlo fatto: per mia fortuna ho guardato avanti e tra l’altro, non bastasse il fatto che ho voltato pagina, attualmente la mia dieta non prevede il consumo di patate.
In compenso so come mangi: uno spettacolo affascinante, riuscivo a guardarti senza riuscire a muovere la forchetta nel mio piatto e finiva sempre che lasciavo il cibo a metà. Mi distraevo a guardarti mangiare.
Certo, ci ho messo un bel po’ di tempo a convincermi che non saresti tornato, direi anni. Ma ‘sempre’ non è ‘per sempre’, come si sa, quindi ad un certo punto me ne sono fatta una ragione. Non è che ci fossero molte altre alternative.
Insomma adesso ho deciso di riprendere in mano tutte le nostre lettere, quelle stesse che una volta hai sparpagliato sul letto chiedendoti “ma cosa sta succedendo?”: ogni tanto ne prendevi su una e la leggevi, la lasciavi a metà e ne raccoglievi un’altra tra le lenzuola, decifrando la mia scrittura minuta e scuotendo la testa. “Non è possibile, a me, a noi…”. Non so cosa ne uscirà, ma credo che ci sia abbastanza distanza per rileggerle senza che mi si annodino le interiora, in modo da riuscire a distinguere ciò che era vero da quello che è stato solo parole, belle quanto vuoi, ma solo parole. Certo, che erano solo parole non lo sapevamo allora, ma lo so adesso e tanto mi basta: possono tornare vive e regalare illusioni ad altri.
Ilde caro, se poi le cose andranno bene non ti aspettare che divida i diritti d’autore con te: la custode dei nostri vagheggiamenti sono stata io, unica e sola. Però una copia del libro posso fartela avere, autografata.
Ti abbraccio.

Nei pensieri, tua Stella


NB. Questo racconto è apparso già nel blog di Saverio Simonelli  Inoltre: grazie a Saverio per la squisita ospitalità.

domenica 17 marzo 2013

Ultima lettura: "Ave Mary" di Michela Murgia


Ave Mary

Autore   : Murgia Michela
Dati: 2011, 170 p., brossura
Editore: Einaudi (collana Stile Libero)

A volte casualmente capitano letture che si dimostrano rivelatrici e aiutano a darsi qualche risposta in momenti topici della vita. Mi è successo con questo saggio di Michela Murgia, che esplora la visione della donna così come è da sempre mediata dalla Chiesa e proposta nella società di ieri e di oggi. Lo fa attraverso l’esempio evangelico della madre delle madri, Maria di Nazareth, e quello di Eva, progenitrice biblica: due modi di raccontare la donna che hanno condizionato la visione della gerarchia tra i sessi, fin dalla notte dei tempi e a partire da quanto la tradizione ha voluto poi affermare nel corso dei secoli. Il risultato di tale condizionamento, attribuibile alla visione religiosa dell’esistenza umana, è una sostanziale alterazione nei rapporti tra uomo e donna, chiaramente asimmetrici.
I sei capitoli di questo libro si articolano su alcuni aspetti particolari, che toccano la rappresentazione della donna in diversi ambiti. Per cominciare, la morte, con caratteristiche diverse da quella dell’uomo, per cui siamo pieni di racconti di donne morte ammazzate: ma al di fuori di certe dinamiche la donna che muore “rimane invisibile, non fa parte di nessun racconto pubblico”, al massimo la morte della donna è “passiva”. Poi il riscatto del peccato originale, diverso per l’uomo (che lo pagherà con il sudore del lavoro) e per la donna (che lo sconterà partorendo con dolore). Si prosegue con la trattazione dell’iconografia della santità, anche qui con le differenze di genere: sante non religiose sono le “morte di verginità”, ricordate come ‘martiri della purezza’ -Maria Goretti, su tutte- o Gianna Beretta Molla, che –gravemente malata- ha sacrificato la vita per far nascere la figlia che attendeva, canonizzata per questo come ‘madre di famiglia’. Gli uomini laici divenuti beati o santi vengono tutti da un attivismo che li ha consacrati all’onore degli altari.
Un altro tema trattato con argomenti puntuali e incisivi da Murgia è il terrorismo estetico sostenuto dalla pubblicità, che considera ‘cura’ e ‘valore’ le parole d’ordine garanti dell’accettabilità sociale della donna e che promuove l’idea della vecchiaia (della donna) come malattia: le donne oltre una certa età in pubblicità sono incontinenti o hanno la dentiera che non regge. Di contro “l’esaltazione della gioventù diventa passe partout sociale”.
Infine il forte condizionamento di anni di educazione al consenso: Maria docile e accogliente, Maria che accetta la sua prodigiosa attesa, diventa il simbolo e il modello di tutti i delle donne, ma si tratta di una rappresentazione distorta del consenso mariano, utilizzato per persuadere la donna, se mai ce ne fosse stato bisogno, che il suo eventuale diniego è da intendersi in contraddizione con la via della salvezza progettata da Dio per l’umanità intera. A tutto questo si aggiunge il paradigma educativo a cui siamo abituati da sempre, per cui i bambini crescono per diventare uomini volitivi e perentori, le bambine vengono allevate ad essere compiacenti, coltivando la virtù dell’obbedienza: dove ci si discosta da questi modelli, abbiamo l’eccezione.
L’ultimo capitolo del libro della Murgia è dedicato al matrimonio, ultimo dei sette sacramenti, istituito dal Concilio di Trento del 1563 nella sostanza attuale. Si tratta di un capitolo particolarmente difficile, non dal punto di vista della lettura che è sempre scorrevole, ma perché mette quasi in crisi le convinzioni che probabilmente la maggior parte dei cristiani cattolici ha. Lo fa con perizia e rigore, analizzando l’archetipo ‘debole’ di famiglia proposto dalla coppia Adamo-Eva (scomodi e difficili da far passare come coppia ideale due ribelli alla Legge di Dio) e d’altra parte il modello Giuseppe-Maria, che pure si propongono come sposi atipici. L’analisi passa attraverso il parametro della fecondità e dell’obbedienza femminile sul modello biblico, inoltre offre chiavi di lettura inedite sulle principali questioni che investono l’istituto matrimoniale. E così si chiude il cerchio, il saggio di Michela Murgia si completa tornando in qualche modo al punto di partenza, quando è cominciata la riflessione dell’autrice dal racconto di alcune sue scelte intorno proprio al matrimonio.
Michela Murgia definisce questo un “libro di esperienze”. Sono quelle che racconta in apertura di ogni capitolo: ogni riflessione sul ruolo della donna nella società e sul suo modo di rappresentarla, parte da uno spaccato di vita vissuta. Così siamo accompagnati nella riflessione su argomenti delicati e fondamentali che ci costringono a domande importanti. Le risposte possiamo trovarle solo in noi stessi, donne e soprattutto uomini: abbiamo bisogno di lenti nuove per osservare la nostra vita.
Non è facile scrivere di questo saggio, ma l’ho voluto fare per aiutarmi a chiarire e a fissare alcuni punti per me importanti: un libro illuminante, da leggere per capire le dinamiche sottese alla rappresentazione della donna e dei suoi rapporti con la società.

lunedì 11 marzo 2013

Come zucchero nel caffè


Anna osservava gli abiti sparsi sul letto, non sapeva decidere cosa indossare per quell’appuntamento, che aveva desiderato tanto fortemente da sentire quasi male fisico nel momento in cui Carlo l’aveva chiamata al cellulare per invitarla.
Si rigirava la tazza di caffè tra le mani, era il secondo quella mattina e ce ne sarebbe stato un terzo con lui più tardi: indecisa su colori, abbinamenti, modelli. La sua sobrietà naturale le impediva di osare, ma a volte temeva di apparire fin troppo spartana, al limite dello scialbo. Invece stavolta voleva stupirlo, fare colpo e magari il vestito giusto poteva facilitarla, ma quell’insieme di grigio, nero, blu e celeste polvere disteso davanti ai suoi occhi non la stava aiutando.
Si erano visti la prima volta ad una mostra fotografica: lei era stata invitata nella più importante galleria della città da un’amica che conosceva il fotografo che esponeva, un nome famoso, un reporter che aveva collezionato i suoi scatti nelle zone di guerra del Medio Oriente. Aggirandosi nella sala, Anna si era imbattuta in qualche vecchia conoscenza ed era stata presentata a Carlo. Insomma, il loro era stato un incontro avvenuto nel più banale dei modi, presentati da un comune amico. Scambiarsi il numero di telefono, dopo una serata trascorsa a chiacchierare di interessi che mano a mano scoprivano di avere in comune, era stato abbastanza naturale, ma lei sicuramente non pensava che si sarebbero più sentiti dopo quella volta. Un’insicurezza caratteriale la portava a scartare sempre anche solo l’ipotesi di poter sembrare una donna interessante, da rincontrare, anche se sapeva di esserlo. Che si fossero piaciuti tuttavia era evidente.
Giorni dopo lo aveva rivisto casualmente: lei sul tram mentre andava in ufficio, lui sul marciapiede, i loro occhi si erano incontrati per caso nel momento in cui il mezzo rallentava nel traffico dell’ora di punta e lui, pronto, le aveva mimato il gesto di portarsi una tazzina di caffè alla bocca. Era un invito, chissà a quando.
Poi la telefonata di Carlo era arrivata, quando ormai Anna non ci pensava quasi più, incapace com’era di prendere in considerazione che invece sarebbe potuto succedere.
E ora era lì, a un’ora dall’appuntamento in un caffè del centro, senza sapere ancora cosa indossare per l’occasione. Alla fine si era risolta per una gonna in cady blu e un top bianco di seta, con un giacca corta di pelle scamosciata: le dècolleté blu tacco cinque avrebbero completato l’insieme.

Era arrivata un po’ in anticipo e lo aveva trovato sgradevole, poteva sembrare che fosse impaziente e non voleva dare questa impressione. Alla fine si era decisa ad entrare nel bar, un locale signorile e accogliente, tradizionale luogo di ritrovo in stile Liberty, dalle luci soffuse e dai profumi di pasticceria finissima. Si era accomodata a un tavolino vicino alla vetrata che dava sulla strada, in una posizione che le avrebbe consentito di vederlo arrivare, dandole il tempo di riprendere un contegno. Un cameriere sollecito si era avvicinato, ma lei gli aveva fatto un cenno sorridendo, per fargli capire che stava aspettando qualcuno e che avrebbe ordinato dopo, anche se in realtà avrebbe voluto subito chiedere un caffè, anche per tenersi occupata mentre aspettava. Infatti dopo un po’ aveva deciso che sì, un caffè poteva ordinarlo, Carlo tardava e lei aveva bisogno di ritemprare lo spirito, provato da quell’attesa che si stava facendo sfibrante. La tazzina arrivò fumante, su un vassoio in silver impreziosito da un centrino di lino rifinito a punto a giorno, accompagnata da un bicchiere di acqua e da un cioccolatino fondente. Aveva bevuto lentamente il caffè e poi si era soffermata a guardarne il fondo, che aveva disegnato imperscrutabili segni nell’interno di porcellana bianca: si potevano interpretare? Significavano qualcosa? Lui sarebbe arrivato? O le avrebbe tirato un bidone? Lei piaceva a lui quanto lui piaceva a lei? Che sciocchezze andava a pensare, cosa si stava mettendo in testa? Sarebbe stato solo un caffè, in fondo.
Scrutava fuori, i minuti passavano ma Anna non voleva guardare l’orologio, non voleva sapere quanti fossero. Finalmente lo vide: arrivava sul marciapiede opposto a quello del bar, con il suo passo elastico e la testa alta. Sembrava cercare qualcuno oltre le persone che gli camminavano davanti e oltre quelle gli venivano incontro, in direzione opposta. Dove guardava? Chi cercava in mezzo alla gente che affollava il marciapiede di quella strada elegante del centro? Lei? Ma lei era già dentro, doveva immaginarlo, Carlo era in ritardo tremendo, come non gli veniva in mente che lei potesse aspettarlo già da un po’? Alla fine capì: in pochi attimi Anna vide che l’espressione di lui era cambiata, aveva rallentato e la sua faccia si era allargata in un sorriso alla vista di una ragazza bionda, alta e raffinata, che gli veniva davanti. Si incontrarono quasi all’altezza della vetrata da cui Anna assisteva alla scena, dalla parte opposta della strada: lui la prese sottobraccio e insieme attraversarono ridendo, per infilarsi nel locale dell’appuntamento. Per un attimo Anna si chiese cosa ci facesse lì, se non fosse il caso di alzarsi e dare le spalle alla coppia che era appena entrata, fingendo di non essere mai stata in quel caffè. Troppo tardi, si erano avvicinati al tavolino.
- Ciao, Anna, scusa il ritardo, un traffico terribile, non sapevo dove parcheggiare, spero che tu non sia qui da molto tempo, perdonami davvero non ho nemmeno pensato di avvisarti che tardavo, posso presentarti Sara? Mia moglie.
Si accomodarono e ordinarono un caffè. Quel locale era particolarmente rinomato per la qualità della miscela che serviva. Per lei era il quarto della mattinata, certamente troppo per le sue abitudini, al massimo arrivava alla terza tazzina dopo la pausa pranzo. Ma per quanto potesse essere buono, quel caffè, profumato e cremoso, era decisamente amaro e le andò quasi di traverso.
Le illusioni di Anna erano affondate lentamente come lo zucchero in quella crema di caffè.

NB. Questo racconto è apparso già nel blog di Saverio Simonelli  Inoltre: grazie a Saverio per la squisita ospitalità.

domenica 3 marzo 2013

Frequentando salotti letterari: "Sofia si veste sempre di nero" di Paolo Cognetti

Sofia si veste sempre di nero

Autore   : Cognetti Paolo
Dati: 2012, 208 p., brossura
Editore: Minimum fax (collana Nichel)


Per favore, per favore, fai che questa sia la volta buona

Dieci racconti per descrivere una giovane donna, Sofia, dalla nascita al suo essere attrice a New York, precaria e instabile per vocazione, con la valigia pronta per altre avventure, non sa nemmeno lei quali. Sono i racconti che ci regala Paolo Cognetti, cesellando la figura di questo straordinario personaggio femminile, che li percorre tutti e che è forse il compendio di tutte le donne che li attraversano.
Sofia, abitata dalla paura dell’abbandono fin da bambina, per diventare lei da adulta ‘quella che se ne va’, è forse riuscita così a causa di sua madre Rossana, donna interrotta che la partorisce fortunosamente prematura e con la quale all’inizio ha un rapporto quasi simbiotico, destinato a dissolversi seguendo chissà quali nevrotiche dinamiche; a causa di sua zia Marta, dall’oscuro passato politico impegnato in un gruppo extraparlamentare, negli anni più foschi della storia italiana; infine anche a causa di Emma, l’amante del padre, un’altra donna complicata che riempie per un po’ la vita di Roberto, apparentemente senza turbare l’equilibrio familiare di lui, ma evidentemente soffrendo di una situazione senza possibilità di uno sviluppo felice.
Ma forse Sofia è anche gli uomini che incontra, figure meno delineate di quelle femminili, ma ugualmente portatrici di storie importanti, come Oscar. Tra tutti gli uomini di Sofia emerge il padre Roberto, sposo giovanissimo e marito che a suo modo cerca di fronteggiare le emergenze rappresentate da Rossana, moglie bambina che cresce problematica, con la quale ha messo su una famiglia slegata nonostante le apparenze: e per Roberto l’unione delle sue due donne, Rossana ed Emma, rappresenta una visione ideale con la quale veramente forse può interagire e sentirsi intero.
Non esiste altro colore adatto a Sofia: il nero per una ragazza che mangia poco e male, ai limiti dell’anoressia, che fuma troppo, che diventando grande si cura insufficientemente del suo benessere, fisico e psicologico, che vive senza la necessità di legami, in perenne fuga da se stessa.
Il luoghi di “Sofia si veste sempre di nero” sono le città, Roma e Milano e poi New York, ma sono anche Lagobello, un villaggio residenziale alla periferia della metropoli, che ricorda un po’ gli agglomerati patinati di Milano 2, dove tutto è perfettamente regolare e nulla si discosta da un gusto conforme e un po’ blasè, disilluso delle difformità e della varietà che anche in campo urbanistico significano ricchezza. Lagobello è un 'altrove' rispetto a luoghi che sono il 'dove': è l’altrove dove Roberto pensa di dare stabilità alla sua casa, intesa come home (“A un certo punto del loro matrimonio, invece di separarsi, i genitori di Sofia decidono di cambiare casa” p. 10)
Tutto questo è cucito da Cognetti con un filo narrativo intenso, piano e tuttavia capace di districare i nodi delle personalità complesse e irrequiete di tutti i suoi personaggi, soprattutto quelli femminili: non è facile mettere ordine nel complesso, nevrotico e emotivamente variegato universo psicologico delle donne. Paolo Cognetti ci riesce, traducendo in un linguaggio reale pensieri e parole di queste donne tanto ‘faticose’.