giovedì 26 dicembre 2013

Ultima lettura: "La cena di Natale" di Luca Bianchini


La cena di Natale di “Io che amo solo te”

Autore: Bianchini Luca
Dati: 2013, 183 p., brossura
Editore:  Mondadori (collana Libellule)

«Mamma mè… nevica» disse, e per un attimo tornò bambina.
Si ricordò di quell’anno in cui la scuola aveva chiuso una settimana
e lei se n’era restata in casa a guardare la finestra dicendo:
«Ma al mare non si appiccica».

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Che la Puglia sia entrata nel cuore di Luca Bianchini è ormai chiaro a tutti. Si capisce già dalla curiosità attenta con cui in “Io che amo solo te” ha narrato i preparativi di una tipica cerimonia nuziale pugliese, con quel misto di tradizione e trash barocco già a partire dal servizio fotografico comprensivo di filmino prematrimoniale, per finire al menù del ricevimento, passando dalle prove dell’abito e del trucco-e-parrucco della sposa.
Per quanto Bianchini dica che i due romanzi possono essere letti indipendentemente l’uno dall’altro e che il secondo non è da intendersi come sequel del primo, in sostanza sono complementari e ne “La cena di Natale” i personaggi, già compiuti in “Io che amo solo te”, qui trovano un’ulteriore progresso: Ninella, nonostante la nuova tinta ‘biondo Kidman’ clamorosamente sbagliata da Lucia Coiffeur, è sempre più consapevole della sua autonomia di scelta; Matilde, eterna rivale, si mette in competizione indirettamente con Ninella, sfidando addirittura la nuora Chiara, alla prova del suo primo pranzo di Natale; Orlando, che abbiamo conosciuto insicuro e fragile nel suo amore impossibile per l’Innominato, qui acquista fiducia  e autorevolezza; don Mimì, diviso tra la moglie e la donna della sua vita, è sempre più confuso; Chiara e Damiano vivono un’evoluzione del loro rapporto, ignaro per lei, consapevole per lui, colpevole di un tradimento che potrebbe portare sviluppi tragici per la loro vita matrimoniale. Sullo sfondo continuano a muoversi i personaggi che già conosciamo e che qui hanno l’occasione di uscire più compiutamente: la signora Labbate, regina di Mondo Mocassino, ormai amica di Ninella e intimamente solidale con lei; Nancy, ‘Aretha Franklin del Sudest barese’, che ha ripreso i chili persi in occasione del matrimonio della sorella ed è ancora alle prese con la sua verginità; la zia Dora sempre più bizzarra nel suo sentirsi estranea ormai da Polignano, ma in realtà intrinsecamente legata al paese che le ha dato i natali.  E poi Mariangela, Pascal, lo zio Modesto…
Bianchini racconta con divertito stupore le nevrosi e le manie della provincia: lo shatush, il Bimby, le luminarie delle feste, il supplì con la cozza tarantina incorporata, i gioielli da esibire insieme allo status economico, i pranzi e le cene da organizzare in un tripudio di ostentazione. E il divertimento di Bianchini diventa spasso per il lettore, che si riconosce (anzi no, riconosce ‘gli altri’) e di quei tic sorride, accompagnato da una prosa curata e semplice.
La Puglia e le sue tradizioni contaminate dalla TV sono state una miniera di idee per l’autore che dice “non sarei mai riuscito a riprendere in mano Ninella e don Mimì, se non fossi stato investito da un’onda gigante di affetto da parte dei lettori”: credo che tutti noi lettori pugliesi, che abbiamo incontrato più volte Luca nel suo Gaga-tour di promozione, abbiamo fornito materia sufficiente per aiutarlo a raccontare ancora di questa ultra famiglia meridionale, stretta tra il mare di Polignano e le Murge dell’entroterra, in mezzo al profumo di focaccia barese e di cozze gratinate, di pittule e di brodo di Natale.

martedì 17 dicembre 2013

Letture passate: "Nessuna terra al mondo" di Raffaello Bovo


 
Nessuna terra al mondo

Autore   : Bovo Raffaello
Dati: 2009, 284 p., brossura
Editore: Albatros Il Filo

Caro Raffaello,
fine pena mai. Questo ho pensato finendo di leggere il tuo romanzo.
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Fine pena mai per Singapore, un personaggio che hai disegnato con una sapienza, con un realismo, con una partecipazione davvero straordinari.
Durante la lettura ho visto quella faccia, tutte le facce, di Angelo Diotallevi, di Nicandro e i suoi figli, prima ragazzini poi uomini, di Amelia, di Teresa e di Armida e di Clelia. E la Clelia che donna! Una cagna in calore? Forse o forse no, una innamorata, come solo di certi uomini e di certe situazioni ci si può innamorare, di qualcuno che non sarà mai completamente tuo e pure lo sarà fino all'ultima delle fibre, senza volerlo. Maledicendo il momento anzi in cui sa che potrebbe cedere e invece no, perché il suo destino è quello di soffrire e di scavarsi la fossa da solo. Quello che fa Singapore, fine pena mai.
Avrei voluto per la Clelia un destino diverso e anche per Singapore e per l'Ermanno. Invece no, tu hai dato la giusta conclusione a tutta la storia, sarebbe stato troppo facile il lieto fine, forse una cosa più frequente nella realtà di quanto non si immagini. Il lieto fine, chimera ma anche no. La Clelia è coraggiosa, lei rinuncia al suo uomo, quello che sarà sempre suo comunque, ma che non la guarderà mai mentre dorme.
Non so che dirti altro, Raffaello. Per qualche giorno ho visto quei bricchi, ho camminato su quelle strade, ho salito le scale dell'albergo per andare a trovare l'Armida con Singapore, mi sono distesa sulla radura nel bosco, dove ho fatto l'amore con Singapore.
Grazie Raffaello, soprattutto sono contenta di averti conosciuto attraverso il tuo libro. E di potermi fregiare della tua amicizia, vera anche se virtuale (ma le due cose possono non escludersi).
Ciao
Elena

giovedì 12 dicembre 2013

Ultima lettura: "I quattro canti di Palermo" di Giuseppe Di Piazza


I quattro canti di Palermo

Autore: Di Piazza Giuseppe
Dati: 2012, 213 p., brossura; ePub con DRM 2,0 MB
Editore: Bompiani (collana Narratori italiani)

“Antonio, dovresti saperlo: a Palermo non c’è mai un sì pieno,
e neanche un no diretto. Le cose si dicono a trasi e nesci, a entra e esci.
Un po’ avanti e un po’ indietro: mai nettamente in una direzione.”

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Quando tutte le occasioni, che siano frammenti di tempi morti in attesa di qualcosa o di qualcuno, oppure momenti scelti apposta e pregustati in anticipo, sono buone per aprire un libro, significa che quello è un libro giusto.
Ho un discreto senso critico, almeno secondo i parametri che seguo quando esprimo un giudizio sulle mie letture, ma nonostante mi accada di imbattermi in passaggi o stilemi che a volte mi lasciano qualche perplessità (e questo mi succede più spesso da quando ho letto "L'importo della ferita e altre storie" di Pippo Russo), se la vicenda che sto leggendo mi prende, lascio correre, continuo a farmi trascinare dalle situazioni narrate.
Questo è ciò che mi è accaduto con “I quattro canti di Palermo”: con l’ereader sempre in borsa per approfittare di ogni momento buono per avanzare nella lettura, mi sono lasciata trasportare dal protagonista, un giovanissimo cronista di nera negli anni Ottanta della mattanza mafiosa a Palermo, in luoghi conosciuti e meno conosciuti, che poi convogliano tutti nel cuore della città, i famosi Quattro Canti, crocevia dei quartieri storici Castellammare, Tribunali, Palazzo Reale, Monte di Pietà. Un quinto canto, dice Di Piazza nei ringraziamenti, è invisibile agli occhi ma è percepito forte in chi se n’è andato da Palermo, ed è il canto dell’assenza.
Quattro quindi sono gli spigoli di questa piazza, cuore pulsante di Palermo a due passi dalla Cattedrale, come quattro sono le storie violente attraversate dal protagonista, che racconta in prima persona i limiti di un mondo crudele e spietato, che alimenta bugiarde illusioni, che nutre falsi valori. Marinello è un predestinato, un mafioso che non vuole diventare killer; Sophie una modella francese che si lascia fagocitare da un mondo tossico; Vito è un padre che fa scomparsi i suoi figli, in una spirale di odio cieco e frustrazione; Rosalia vuole capire perché suo padre, un ladro ‘pezzo di pane’ che però rubava ‘onestamente’, è finito decapitato nel bel mezzo di una faida mafiosa, capire le serve per riprendersi la dignità, altrimenti “chi se la prende la figlia di uno che gli hanno scippato la testa?”. A fare da connettivo è il racconto a distanza di tempo del muoversi del protagonista, tra corse in Vespa per arrivare in tempo sul luogo del delitto, la redazione fumosa di MS, le compagnie femminili sempre nuove, tutte diverse, il sesso e il cibo, il disordine della casa e il suo coinquilino, Fabrizio. Ancora da collante è la mappa della città, tramite i suoi locali di culto, le pasticcerie famose, la Favorita, il teatro Massimo, i bar, il tribunale, il mare di Mondello. Il racconto è quello di chi ricorda da lontano, dopo aver portato la propria vita altrove, verso altre storie da raccontare, ma senza dimenticare il proprio essere profondamente palermitano.
Se almeno una volta si è stati a Palermo, è difficile non lasciarsi incantare dalla città e dai suoi contrasti, dalle sue contraddizioni fatte di splendore e degrado insieme; è impossibile non amare questa città dalla storia affascinante e dolorosa che se è stata generosa da una parte, rendendola culla della splendida civiltà federiciana, dall’altra l’ha percossa e violentata.
Il caso ha voluto che proprio il giorno che finivo di leggere il libro di Di Piazza, andavo a vedere al cinema il film di Pierfrancesco Diliberto Pif, “La mafia uccide solo d’estate”, le cui vicende si svolgono in parte negli stessi anni di “I quattro canti di Palermo”, coincidendo in alcuni fatti: mi è sembrato il giusto complemento, mi ha dato un respiro più ampio, mi ha fatto capire cosa significa essere nati a Palermo e imparare a convivere con il male, come se fosse normale.

sabato 7 dicembre 2013

Lettera al mio stalker #FF #stalkingstalkersday di Gaia Conventi

Eccezionalmente ospito sulle pagine del mio blog la lettera aperta ad uno stalker. La vittima, Gaia Conventi, scrittrice e autrice del blog Giramenti, ha deciso di rendere pubblica la sua esperienza, con lo scopo di sensibilizzare l'opinione pubblica.
Per l'occasione, sui social network la giornata di ieri è stata dedicata alla denuncia e alla lotta contro lo stalking: su Twitter se n'è parlato sotto l'hashtag #stalkingstalkersday, su Facebook qui.

Poichè penso che un giorno per fare chiasso e urlare la propria rabbia sia utile, ma due, tre o quattro lo siano ancora di più, eccomi oggi con la lettera di Gaia su Giramenti, un'accusa coraggiosa che molti non riescono a fare, anche perchè purtroppo le denunce spesso restano inascoltate.


venerdì 6 dicembre 2013

SapereSapori: li pipirussi siccati e la vigilia dell’Immacolata


Peperoni e zucchine secchi, tagliati a strisce e a fette spesse e lasciati al sole durante i mesi più caldi dell’estate, gli sponzali (una varietà di cipollotti invernali la cui parte verde, le cosiddette code, essenziale) e il concentrato doppio di pomodoro: questi gli ingredienti della peperonata invernale che non mancava nelle tavole dei salentini, nei mesi in cui il prodotto fresco non era disponibile. Una volta era così, si conservavano le verdure estive per il periodo in cui non ce n’era tanta varietà, giacché i prodotti della terra sono da sempre alla base della cucina mediterranea, in territori a spiccata vocazione agricola.
Photo Elena Tamborrino

Oggi i pipirussi siccati sono una pietanza che si conserva e si tramanda per puro amore di tradizione e non è un caso se il suo consumo è concentrato soprattutto il giorno della vigilia della Madonna Immacolata, insieme alla puccia.
Per me, bambina cresciuta al nord che passava solo le vacanze estive dalla nonna, in Salento, anche questa è stata una scoperta golosa, fatta quando in provincia di Lecce sono andata a viverci, estate e inverno.
Gli sponzali (o spunzali), messi a stufare in abbondante olio di oliva per molto tempo, con l’aggiunta di acqua calda qualora si vadano ad asciugare troppo rapidamente (mentre invece è necessaria una cottura prolungata affinché risultino digeribili, restando comunque una bella lotta per gli stomaci delicati), sprigionano un profumo intenso e pungente, che immediatamente inonda la casa. Immagini immediatamente fette fragranti di pane di grano duro, magari cotto nel forno a legna, grondanti di olio rosso, colorato dalla conserva di peperoni piccante e dal concentrato di pomodoro. Un pasto povero una volta, almeno finché la verdura veniva essiccata in famiglia, sfruttando i frutti del proprio orto; oggi una leccornia che è diventata di lusso, poiché essiccare i peperoni e le zucchine richiede un lavoro attento e paziente. Bisogna esporre al sole la verdura nelle ore più calde, disposte distanziate su graticci, e metterle al riparo poco prima del tramonto, avanti che cali l’umidità. E quante corse se scoppia all’improvviso un temporale! Per di più la resa è sempre ridotta rispetto al volume iniziale di verdure fresche. Tuttavia continua ad essere un piatto tradizionale irrinunciabile.

Quando la zia Maria li faceva, era necessario spalancare porte e finestre in casa, creare un minimo vortice di aria che mandasse via quel forte profumo che poi, stagnando, si sarebbe rivelato fastidioso. Dopo averla cotta a lungo e seguendo precise istruzioni (minti li spunzali ne l’ojo -tocca eggi generosa-, intanto faci fferve l’acqua e minti nu pugnu de pipirissussi siccati, li faci bollire per tre minuti, poi aggiungi le cucuzze e spegni: lassa tutto nell’acqua pe’ nu picchi, fintanto nu se mmollane, poi li strizzi e li cali intra li spunzali, aggiungi lu sale, la cunzerva mara e lu concentrato e poi teni pazienza, per la traduzione, guardare la foto), la zia metteva la peperonata in una coppa di porcellana che risaliva alla notte dei tempi, ormai sbeccata e singata (crepata), facente parte di un servizio da tavola della nonna. Quella coppa continua a sopravvivere, ce l’ho io ormai, ci metto i miei pipirussi siccati, quando li faccio per la puccia dell’Immacolata.

mercoledì 27 novembre 2013

Ultima lettura: "Argento vivo" di Marco Malvaldi


Argento vivo

Autore: Malvaldi Marco
Dati: 2013, 272 p., brossura; ePub con DRM 902,6 KB
Editore: Sellerio Editore Palermo (collana La memoria)

Photo Elena Tamborrino
Malvaldi mi mancava. Nel ricco catalogo Sellerio ogni tanto (spesso, anzi), mi spuntava questo nome ed io bellamente lo ignoravo. Così, senza un motivo. Ogni tanto lo sentivo nominare, ma non ero mossa da alcuna curiosità e veramente non so spiegarmene il motivo. Diciamo che a priori lo sottovalutavo, sbagliando. Allo stesso modo in cui lo avevo sempre ignorato, cioè non so come né perché, dopo qualche mese dalla pubblicazione di “Milioni di milioni” ho deciso che forse non potevo continuare a non sapere come scrive Marco Malvaldi. Da questa considerazione all’acquisto il passo è stato brevissimo, ma ancora più fulminea è stata l’infatuazione per questo chimico prestato (ma davvero prestato?) alla scrittura, per il suo stile ironico e garbato, per quell’uso della lingua toscana nei dialoghi che mi fa risuonare nelle orecchie voci, luoghi e persone che hanno riempito la mia vita, per l’arguzia e la brillantezza delle trovate narrative, per gli intrecci e gli svolgimenti. Nell’arco di quest’anno, a partire da febbraio e fino ad oggi, ho letto tutti i romanzi di Marco Malvaldi: una full immersion in piena regola, culminata con l’ultimo titolo, “Argento vivo”.
La trama è semplice: un famoso scrittore, assillato dalla sua editor in prossimità di una scadenza editoriale, resta vittima di un furto, il cui bottino comprende anche il computer sul quale è salvata l’unica copia del romanzo ormai prossimo alla pubblicazione. Parallelamente alle vicende che riguardano il grande scrittore, scorrono quelle della banda di balordi autori della rapina, quelle di Leonardo, ingegnere informatico blogger letterario per passione che si troverà tra le mani il pc bollente, quelle della bella Corinna, agente scelto di Pubblica Sicurezza, grazie alla quale si arriverà alla soluzione del caso, non senza peripezie, fraintendimenti, dialoghi surreali.



In basso a sinistra Marco Malvaldi al #SalTo13.
Photo Elena Tamborrino WoWCamera

Ferme restando alcune caratteristiche stilistiche, che in particolare nel ciclo dei vecchietti del Bar Lume si reiterano, quest’ultima fatica di Malvaldi si distingue per alcuni aspetti. Intanto formalmente: gli stacchi narrativi, rappresentati graficamente da uno spazio bianco, introducono la ripresa del concetto poco prima espresso. Questo consente il cambio di scena rapido, ma come a seguire un filo logico, una sottile linea che collega tutti i personaggi e tutti gli eventi, fino a portarli alla soluzione finale, quando il ritmo si fa più frenetico e anche le scene sono più brevi. E poi ci sono le lunghe digressioni che riguardano la matematica applicata alla musica, di cui parla durante una conferenza uno dei protagonisti del libro del grande scrittore (e così Malvaldi realizza una specie di ‘teatro nel teatro’) e le interessanti divagazioni di Leonardo sulla lettura, sua grande passione, sullo scrivere bene, sul lavoro dell’editor, sulla punteggiatura: si ha quasi l’impressione che l’autore abbia voluto, in queste ultime pagine, chiarire la sua posizione, far comprendere il suo pensiero sulla necessità di libri scritti bene, magari anche togliersi qualche sassolino dalla scarpa (ma questa è proprio un’impressione fugace), facendo del giovane ingegnere con la fissa dei libri una specie di suo alter ego.
“Argento vivo” è un libro che si legge con la solita scioltezza degli altri, ma con qualcosa in più: la scrittura di Marco Malvaldi si sta facendo sempre più matura e raffinata nel comporre situazioni a incastro, lo stile si caratterizza in modo sempre più inconfondibile, tanto che, alla fine, ti chiedi “a quando il prossimo?”, sentendone già la mancanza.

mercoledì 20 novembre 2013

Ultima lettura: "La donna lumaca" di Rosaria Iodice


La donna lumaca

Autore: Iodice Rosaria
Dati: 2012, 191 p., brossura; ePub 2,1 MB
Editore: Lupo (collana Sput. Libri di via)

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Non manca la buona volontà a Rosaria Iodice, al suo esordio con un romanzo, ma già scrittrice di racconti. Sembra animata da un gran desiderio di mettere tutto quello che può in ciò che racconta e la storia di Angela compendia questo tutto.
In poco meno di duecento pagine si racchiude la storia di una donna che, al sicuro in una casa di riposo dopo la vita barbona trascorsa negli ultimi quindici anni, ripercorre tutta la sua esistenza, dalla nascita a Pozzuoli appena prima dell’ultima guerra fino alla deriva, ai margini della società. Ad Angela, cresciuta in una famiglia modesta di specchiata onestà, con principi morali molto severi, determinati da una mentalità gretta e un po’ meschina, accadono eventi ciascuno dei quali, preso da solo, poteva giustificare un romanzo: non particolarmente incline alla ribellione come la sorella Marta e tuttavia covando il desiderio di indipendenza di cui all’inizio sembra inconsapevole, la protagonista accetta la corte del primo ragazzo carino che la lusinga in modo decisamente sbrigativo e al quale cede subito, restando ovviamente incinta. L’esperienza dell’aborto clandestino, l’amore segreto per l’amica Teresa, un matrimonio affrettato con un uomo che da subito rivela disturbi mentali, il desiderio di maternità e il rapporto conflittuale con la figlia Roberta, la fuga da casa per diventare un’accattona che vive di espedienti, sono solo alcuni degli avvenimenti, anche catastrofici, che costellano la vita di questa donna insicura, timorosa, vittima delle circostanze: un po’ troppo per i miei gusti. A fare da sfondo alle vicende personali di Angela ci sono gli eventi di storia e di costume che hanno animato la vita e la cultura dell’Italia dal dopoguerra ad oggi: gli Alleati che liberano l’Italia martoriata dalla guerra, la fine della dittatura e della monarchia, il voto alle donne, la musica che arriva da oltreoceano, il festival di Sanremo, l’uomo sulla luna, le lotte femministe e quelle sindacali, la Chiesa oppressiva e la guerra del Vietnam, la battaglia civile per il divorzio e la legge sull’aborto, i fagioli della Carrà, la caduta del muro di Berlino, Gorbačëv, la perestrojka e la glasnost', “Chi l’ha visto?”. Anche questo davvero troppo per una storia che si esaurisce frettolosamente in un romanzo che vuole affrescare un periodo così ampio in poche pagine.
Ci mette buona volontà, Rosaria Iodice, e lo ripeto. Ma non basta. Alcune sciatterie mi sono intollerabili: a p.69 si confonde la Polizia con l’Arma, cioè i Carabinieri (non è che tutte le forze dell’ordine sono ‘Arma’), a p. 105 “E le stelle stanno a guardare” sceneggiato della Rai, tratto da un romanzo di A.J.Cronin, con la regia di Anton Giulio Majano, datato 1971 aveva come protagonista Orso Maria Guerrini, giammai Alberto Lupo (bastava fare una ricerca in rete), a p. 147 un mito della giovinezza della protagonista, insieme a Fellini e alla Ekberg, è la ‘Masini’ (sic!), a p. 153 il romanzo di Gabriel García Márquez “L’amore ai tempi del colera” (1985) diventa “L’amore al tempo del colera” (anche qui, che ci voleva a fare una piccola verifica?). La voglia di raccontare dell’autrice, che pure ha modi garbati, una scrittura piana e un lessico curato, non è sufficiente: come sempre più spesso mi accade ultimamente di constatare, il lavoro di editing è del tutto assente. Un buon editor avrebbe potuto consigliare una scansione in capitoli più coerente, più spazio per alcuni personaggi che avrebbero meritato maggiore profondità di analisi caratteriale, meno fretta nel liquidare passaggi indispensabili alla storia, una maggiore verosimiglianza per alcune situazioni francamente incredibili. Peccato.

lunedì 18 novembre 2013

"Le città invisibili" diventano e restano #Invisibili


Mi tocca dentro @IoMarcoPolo,
che non parla di Venezia pur parlandone
 e ha paura di perderla parlando di altre città #Invisibili
(dal mio Twitter, 23.10.2013 - @ExLibris2012)
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Per parlare di #Invisibili parto dalla sua conclusione e dal bilancio numerico che ne deriva: a partire dal 26 settembre scorso fino a domenica 17 novembre, 55 giorni di rilettura e riscrittura in canonici 140 caratteri su Twitter de “Le città invisibili” di Italo Calvino, oltre 81mila tweet inviati tra post originali e ritweet, oltre 4mila partecipanti. Un fenomeno di Twitteratura cresciuto quasi in modo esponenziale rispetto ai precedenti, che pure hanno riscosso un enorme successo nella comunità virtuale che si raccoglie intorno alla Fondazione Pavese e agli ideatori dei progetti di riscrittura su Twitter, Pierluigi Vaccaneo, Paolo Costa e Hassan Bogdan Pautàs. Basti pensare a #LunaFalò, con i suoi 54 riscrittori, 600 utenti raggiunti, per poco più di 18mila messaggi tra tweet originali e retweet: gli esperimenti, passati da Pavese a Pasolini, a Calvino si incrementano in termini di partecipazione attiva e sembrano registrare un entusiasmo che cresce di pari passo.

Probabilmente stavolta ha giocato un ruolo fondamentale il fascino che da sempre esercita la lettura de “Le città invisibili”, subito trasformate in #Invisibili: ogni giorno la lettura e la riscrittura di una delle città descritte da Marco Polo a Kublai Kan, sono state affidate al coordinamento degli #Architetti divisi per capitoli e regioni, o gruppi di regioni, che hanno animato, guidato e dialogato con tutti i riscrittori. Attraversare #Invisibili e interpretare i luoghi attraverso occhi che di volta in volta si sono posati su colori, volumi e vuoti, voci e sogni, pensieri e azioni, è stato per molti di noi partecipanti quasi un viaggio catartico, accompagnato da una straordinaria capacità di collegare, instaurare somiglianze e parallelismi, oppure contrasti, dissonanze. Ancora di più i personali modi di vivere questo viaggio emergono dai Tweetbook prodotti, grazie alla piattaforma di cui ho già parlato qui.
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In tutto ciò, la mia esperienza personale ha conosciuto un momento particolare: complice un viaggio a Venezia proprio nel periodo in cui rileggevo e riscrivevo #Invisibili, ho ancora di più apprezzato l’esperimento globale, tanto da arrivare a pensare, e poi a scrivere, che “in tutte le città #invisibili rilette finora, trovo un po' di #venezia”, come se davvero Italo Calvino avesse potuto attraversare calli e campi, immedesimandosi in quel Marco Polo destinato a descrivere mondi fantastici, riconoscibili in ogni angolo della sua città. Sarà stata una suggestione determinata dall’attimo e dall’atmosfera, ma il mio sentire se possibile si è amplificato. Ancora di più sarà stato per i partecipanti alla lettura pubblica di #Invisibili che si è tenuta a Venezia il 10 novembre scorso, organizzata da Maristella Tagliaferro @MSTagliaferro sotto l’hashtag #Invisibili/VE.
Non è finita qui l’avventura: le città invisibili continuano grazie a @erykaluna e @coseinvisibili, che hanno lanciato #Invisibili/Me, un prolungamento che vede protagonisti gli stessi riscrittori di #Invisibili, i quali potranno raccontarsi, costruendo ciascuno la propria città che rispecchi caratteristiche, sogni e gusti personali. Insomma, la comunità cresce e le iniziative di twitteratura si moltiplicano. Sul trampolino di lancio, anzi già in volo, c’è addirittura Alessandro Manzoni con #TwSposi… buona riscrittura a tutti!


NB. I miei Tweetbook sono consultabili qui e qui.

giovedì 7 novembre 2013

Ultima lettura: "Prima che tu mi tradisca" di Antonella Lattanzi


Prima che tu mi tradisca

Autore: Lattanzi Antonella
Dati: 2013, 425 p., brossura; ePub con DRM 1,5 MB
Editore: Einaudi (collana Einaudi Stile libero big)
  
Con tutta la buona volontà del mondo, 
non so se mi spiego, come potevamo fare


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Questa recensione la scrivo a caldo, a ebook appena chiuso, solo il tempo di pensarci un po’, di riflettere su nomi, situazioni, tempi, posti, lingua, odori e umori di cui questo romanzo trabocca.
Intanto le persone, con i loro nomi: tre generazioni unite dallo stesso nome, Angela. Della nonna Angela si perdono subito le tracce dalle prime pagine del romanzo, restano sua figlia Angela, poi Senior, per distinguerla da Angela Junior, detta Angela J-Agéi-Angelagéi, l’ultima nata della serie. Intorno ad Angela Junior ruotano le esistenze dei genitori, della sorella, delle sue bambine, di Stè e di Denis, gli uomini che la ameranno. Protagonista assoluta, Agéi, prepotente, bellissima, contamina tutto ciò che tocca, egoista ed altruista insieme, disperata e gioiosa, Agéi ride e piange, si piace e si disprezza, sempre tutto e il contrario di tutto, nemmeno lei sa quello che vuole. O almeno così sembra.
Michela è la vittima predestinata di una sorella maggiore tanto ingombrante: a lei i genitori non chiedono ‘dove stai andando?’. Questo le provoca frustrazione, delude i goffi tentativi studiati per coprire le mancanze: non si saprà mai se davvero siano goffi, non li metterà mai in pratica. Quando le menzogne cresceranno e saranno su faccende ben più gravi, Michela sarà così brava che delle sue omissioni nessuno si accorgerà, faranno parte del tutto. E forse i ruoli si ribalteranno, la personalità di Michela, una volta che le sorelle saranno diventate adulte, emergerà e sovrasterà quella di Angela Junior, se non altro per l’emancipazione e la libertà, illusoria, che la sorella -da sempre minore in tutto- potrà raggiungere, lontana dalla famiglia.
Le figure dei genitori, Angela Senior e Giovanni, rappresentano la rassegnazione: quella di lei al matrimonio, forse all’inizio felice, quella di lui, dentista a domicilio della malavita organizzata, incapace di mettersi uno studio in proprio, sempre in difficoltà economiche, all’esistenza tutta. La rassegnazione ultima è alla fuga di Agéi, figlia prediletta.
Intorno a questa famiglia ruotano come satelliti personaggi un po’ lucidi di sporco e di ambiguità: le tre sorelle Del Sole, zio Pasquale e sua moglie zia Rachele, Silvia, la più bella di Barivecchia. E poi i cozzàli e i topini, giovani delinquenti a cavallo di motori ‘preparati’, padroni della strada, pronti allo scippo come all’intimidazione, che completano la rappresentazione dell’ambiente cittadino più degradato.
Eppure Bari è descritta lucidamente quasi con amore, anche quando sembra brutta, a volte come una specie di blob soffocante (Bari era una sostanza vischiosa e scura che si appiccicava ai nostri corpi e man mano ci inglobava, nell’aria bisognava farsi spazio come nelle sabbie mobili che stanno sul fondo dei laghi), altre volte splendida e accecante, specie nella sua parte antica (la città vecchia una macchia bianca, una specie di sole accecante dentro gli occhi), colta nei suoi momenti drammatici, il bombardamento del 1943 e il rogo del Petruzzelli. Ma soprattutto Bari è i suoi quartieri, Japigia prima di tutto e poi Barivecchia e il quartiere Murat, è N’dèrr’-a-la-lànze, il mercato del pesce, e il Teatro Margherita. Per contro, agli occhi di Angela Junior, via di stereotipi, Torino era la città più bella. Torino era la città per pochi, la città dell’èlite. Torino è avvolta nel mistero […] Torino, Treviso, Trieste sono più o meno la stessa città, un’unica arcana città chiamata Estremo Nord. e Se non Torino, Bologna, per la libertà. O al massimo Milano, la moda, l’apertura, la serietà. Roma fa ridere, ma noi due siamo troppo sensibili per farci una risata e basta, no?.
Le situazioni? C’è un mistero che lega questa famiglia, che lega le figlie, un segreto che non tutti conoscono, non tutti allo stesso modo: un segreto che da un certo momento in poi cattura il lettore e gli fa chiedere e immaginare chissà mai cosa sarà successo nel passato di queste ragazze, di questi genitori, che legami pericolosi ci potranno mai essere, ma capisco bene o sto solo immaginando? Il modo in cui Lattanzi racconta risucchia chi legge, come una spirale centrifuga, con una forza narrativa alla quale è impossibile sottrarsi: la potenza del dialetto, usato con parsimonia rispetto a tanti autori che hanno fatto del dialetto la cifra caratteristica del loro stile, le espressioni gergali e la sintassi convulsa che non ti lascia respiro, contribuiscono a coinvolgere senza scampo, a continuare a leggere finché non sai, finché non arrivi in fondo. La voce narrante cambia continuamente, all’inizio è quella di Michela, la sorella piccola, improvvisamente c’è lo scarto in terza persona, a volte invece è Agèi che racconta e le cose assumono la sua visione mitomane ed enfatica, iperbolica. Il tutto in modo schizofrenico, il tempo della storia va avanti e indietro, cambiano il punto di vista e la collocazione spazio-temporale delle vicende, ma l’abilità dell’autrice sta nel non farti perdere mai, nell’accompagnarti senza perdere di vista le coordinate.
Ho letto questo libro in nemmeno tre giorni, ho sentito la puzza, gli odori, ho respirato l’aria consumata della notte in casa di Angela Junior, ho sentito la pelle appiccicosa di scirocco di Michela, sono stata nelle lenzuola sporche di sesso, ho respirato il sole di Bari e l’aria salmastra del lungomare. Esperienza globale, sensorialmente estenuante. Brava Antonella Lattanzi.


martedì 29 ottobre 2013

Ultima lettura: "Parlo d'amor con me" di Paola Calvetti


Parlo d’amor con me

Autore   : Calvetti Paola
Dati: 2013, 126 p., brossura
Editore: Mondadori (collana Libellule)

E se non ho chi m’oda,
parlo d’amor con me!
(Le nozze di Figaro, Atto I)

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Finché ho avuto tra le mani questo libretto, il titolo di questo romanzo, che in realtà non so nemmeno se definire romanzo e vedremo perché, mi ha attirato e respinto allo stesso tempo. Si tratta di un verso –che non conoscevo, confesso- de Le Nozze di Figaro, l’opera buffa di Wofgang Amadeus Mozart in tre atti, musicata su libretto di Lorenzo Da Ponte nel 1786: non conoscendo l’aria dell’opera da cui questo verso è tratto, mi sono chiesta cosa potesse significare parlare d’amore con se stessi e soprattutto cosa significasse questo titolo in relazione alla storia che leggevo. Non so sinceramente se l’ho compreso, al di là del fatto che in una storia ambientata in una casa di riposo per artisti, come quella fatta costruire a Milano da Giuseppe Verdi, era quasi scontato che la scelta del titolo potesse ricadere su una frase tratta da un’opera lirica. Ma forse ci sono motivi altri che lo giustificano, che però mi sfuggono. Se insisto tanto sull’effetto che mi ha fatto il titolo di questo libro è perché in generale mi faccio attirare da quelle che Genette chiama ‘soglie’, cioè i dintorni dei testi, titolo compreso. E questo libro forse non lo avrei letto se non lo avesse scritto Paola Calvetti, che compro a scatola chiusa e leggo a prescindere, sulla fiducia. Mi sono fiduciosamente accostata quindi alla lettura, pur con qualche riserva dovuta ad un titolo che non mi piaceva (e alla fine ho capito che qualche volta rischiamo di perdere l’ occasione di una buona lettura, solo sulla base di prime impressioni, così come altre volte, viceversa, prendiamo qualche granchio).
Una volta chiusa l’ultima pagina mi sono chiesta come incasellare questo libro, quale collocazione di genere dargli, non riuscendo a considerarlo un vero e proprio romanzo, perché è la raccolta di tante storie, tante quanti sono i personaggi incontrati da Ada, cameriera che lavora a Casa Verdi e che coltiva il segreto sogno di divenire una cantante lirica.
Che la musica, l’opera lirica, il mondo del bel canto siano una passione di Paola Calvetti si sa: per anni ha diretto l’ufficio stampa del Teatro alla Scala, quello è un mondo che le è congeniale e che è tornato spesso nei suoi romanzi (L’amore segreto, ad esempio e ancora L’addio), forse mai come questa volta è rappresentato con tanto amore e desiderio di rendergli omaggio. In questo ambiente si inseriscono le personalità degli artisti che vivono nella casa di riposo voluta dal grande Maestro, amorevolmente raccontati da Ada, un personaggio femminile quasi maldestro, con un grande desiderio di svelare il suo talento di soprano che vivrà una sola occasione. Così, attraverso la voce di Ada, si snocciolano le storie personali, i vezzi e i capricci, le vecchiaie vissute con dignità e a volte frivolezza, con desideri ancora vivi e vanità scoperte. Immagino che l’autrice abbia trascorso lunghi pomeriggi in compagnia degli ospiti di Casa Verdi, tutti presenti nei ringraziamenti finali (altra soglia!), disegnandone in breve le biografie: la immagino prendere appunti o semplicemente ascoltare i ricordi, farsi portavoce delle emozioni perdute, sentire l’odore della polvere del palcoscenico insieme a quegli artisti ormai a riposo. Si potrebbe quindi pensare che il libro si è scritto da solo, che era tutto lì, raccolto nei racconti della violinista Agostina Aliprandi, del tenore siciliano Giuseppe Catena, della soprano giapponese Matsumoto Kitose (la Kimiko che aveva il sogno di cantare in italiano e studiava la lingua sul dizionario militare), del violista genovese Marcello Turio, del contralto Stefania Sina e di tutti gli altri. Insomma, poteva sembrare un compito facile, quello di inventare una cornice (Ada, i suoi sogni di gloria, l’andamento della gestione della casa) e di inserirci come cammei le storie di ciascuno dei protagonisti. Invece c’è il tocco di Paola Calvetti, la cui scrittura delicata, preziosa senza preziosismi, curata nel minimo dettaglio, accompagna con garbo il lettore attraverso queste vite un po’ svanite, ma ancora affascinanti. Una lettura che fa riflettere sul valore della memoria, di certa arte, di una vecchiaia che a volte ci sembra un’inutile attesa e che spesso è invece una vitale risorsa.

PS. Alla fine non ho deciso come classificare questo libro, se sotto l’etichetta di romanzo o di raccolta di racconti in un unico atto: lo faccio comunque per i tag…

domenica 20 ottobre 2013

Ultima lettura: "Marina Bellezza" di Silvia Avallone


Marina Bellezza

Autore   : Avallone Silvia.
Dati: 2013, 509 p., rilegato; ePub con DRM 3,1 MB
Editore: Rizzoli (collana Scala italiani)

“È il momento di guarire, si disse Andrea, di diventare adulti”


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#MarinaBellezza alla fine della prima parte toglie il fiato. Partito in sordina, diventa travolgente”: questo è ciò che pensavo e scrivevo su Twitter, dopo la lettura delle prime duecento pagine, quelle della sezione “Far West” (cui seguono “Parte seconda: Cowboy vs Cinderella” e “Parte terza: Eldorado”). Fino a quel momento ero andata avanti confidando nella bontà della storia e in personaggi che già mi sembravano ben disegnati, ma solo dopo quelle prime duecento pagine, il romanzo è decollato, trascinandomi come non mi accadeva da tempo.
Marina e Andrea sono giovani e fanno una scommessa con la vita; vanno però in direzioni opposte, lei verso la sperata carriera di cantante, supportata da concorsi e partecipazioni a talent show, lui alla ricerca delle radici e dell’essenziale per poter confidare in un futuro concreto, di duro lavoro sulla montagna. Lei, incapace di vivere senza l’apprezzamento altrui, lui che viceversa quel consenso lo rifugge, sono agli antipodi per carattere e aspirazioni, si attraggono e si respingono continuamente: il loro è un amore inesorabile, a tratti distruttivo eppure capace di energia positiva, a tratti ottimista.
Quando è così, quando puoi pensare che adesso le cose si mettono bene, che la felicità potrebbe essere a portata di mano, tifi per Andrea, che dei due nel rapporto sembra il più dipendente, capace di accettare per amore ciò che più detesta (i centri commerciali affollati dove lei si esibisce, lo showbiz al quale Marina invece aspira con tutte le sue forze, l’imperfezione della vita alla quale lei lo costringe, la precarietà che accompagna i loro incontri), anche se poi, nel momento in cui ciclicamente accade il diluvio tra loro, speri solo che Andrea guarisca da lei o che lei guarisca da se stessa. Allo stesso modo non riesci a tenere per lei, perché Marina è irritante ed egoista, è una che gioca a nascondino, è una di quelle persone che “non cambiano perché non possono cambiare. Le persone come Marina non appartengono a nessuno, perché non riescono ad appartenere nemmeno a loro stesse”. E a lei Andrea dice «Tu fai le cose così: perché ti va di farle. Non t’interessano le conseguenze, non t’interessano gli altri…». Intanto però ti fa tenerezza, nella sua ostinazione.
Insomma, in questa storia è facile parteggiare, è facile lasciarsi trasportare, patire e compatire. Un pregio non di poco, in un momento in cui leggere storie che veramente raccontino qualcosa è sempre più difficile. A questo si aggiunge una scrittura fluida e coinvolgente, una sintassi piana e incisiva: le parole si strutturano in costruzioni pulite, non c’è un momento in cui ti chiedi cosa vogliano dire, quale sia il significato nascosto tra le righe. Tutto è lì, facile, quindi puoi concentrarti su Andrea e Marina, sulle loro famiglie diversamente stortignaccole, ma disastrate allo stesso modo, sulle frustrazioni di Elsa, la ex compagna di liceo di Andrea, dottoranda di ricerca senza un futuro possibile. Puoi concentrarti sugli amici di Andrea, quelli che assisteranno alla sua rovina e alla rinascita, su Donatello, improbabile agente di spettacolo, sulle vacche grigie sulle quali si concentrano le speranze di un giovane che, in un momento così critico per l’economia, decide di puntare sul passato di suo nonno, sulle montagne.
La fine del romanzo ti lascia interdetto a chiederti quale sia la direzione giusta per questi personaggi, quale sia la scelta che Marina sembra fare, fino a quando durerà, se durerà. Marina Bellezza ha tiranneggiato per oltre cinquecento pagine e lo fa fino in fondo, quando ormai pensi che non può succedere null’altro. E invece…
“@Exlibris2012: Saluto a malincuore #MarinaBellezza di Silvia #Avallone, bravissima a disegnare un personaggio grandioso, una specie di bisbetica domata”

sabato 12 ottobre 2013

Come quando


Come quando ti tagli le unghie cortissime. Perché si è spezzata quella del pollice e allora devi per forza accorciarla e poi, non si capisce come, si spezza anche quella dell’indice e neanche fosse un’epidemia, ti sembra che tutte siano lunghe in modo irregolare, antiestetico. Provi a togliere lo smalto con il solvente, pensi che magari te le puoi limare, portarle tutte alla stessa lunghezza, non troppo né poco, una cosa giusta, sobria. E magari provare a mettere lo smalto color avorio, quello per la french, che poi sembra che hai su quello trasparente, fa molto fine. Poi, mentre sei lì a passare la lima di cartone, quella con la carta vetro, sottile da un lato e sottilissima dall’altro, decidi di ricominciare da zero, prendi il tronchesino e tagli le unghie dritte, come se le tue fossero mani di uomo. Perché pensi che così puoi cominciare dal nuovo, da zero appunto, come se non fossero mai state rosse ad adornare, in perfetti ovali, le punte delle tue dita.

Come quando decidi che vuoi cambiare tutto e cominci col fare ordine in quel cassetto dove per anni hai ficcato tutto quello che non trovava posto altrove, tutto quello che non aveva proprio per niente un posto: non avevi previsto che per le pile, i lacci per le scarpe, gli elastici, le ricevute, i santini che hai preso in chiesa, i pacchetti di chewingum cominciati, le matite spuntate, le biro consumate, che non vuoi buttare perché ti piacciono e poi non sai dove differenziarle perché sono fatte di plastica ma anche di metallo, ci dovesse essere un posto preciso. E così hai buttato tutto lì, in quel cassetto, che ora pretendi di svuotare per fare pulizia e per scoprire che il tempo non ti basta e così rimetti tutto dentro e chi s’è visto, s’è visto, sarà per un’altra volta.

Come quando scorri la rubrica dei contatti sul tuo cellulare e sai che molti di quei nomi ormai è inutile tenerli in memoria, ché è solo una memoria virtuale, mentre la tua, quella vera, non conserva altro che immagini sbiadite, discorsi lisi, risate consumate e soprattutto ormai inutili. E allora pensi che puoi cominciare da lì, che forse devi cancellare qualcuno di quei nomi, che forse tra quelli c’è chi lo ha già fatto con il tuo e cancellandoti il nome ti ha eliminato dalla sua vita e tu non lo sai. Quindi è una prova di forza, pensi che non sia necessario portarsi sempre dietro un fardello di passato, che i tuoi ricordi non servono più, non sono nemmeno tanto vividi ormai, a che ti servono?

Insomma, è come quando decidi che, arrivata a un certo punto, devi riprenderti la vita, devi cambiare registro e voltare pagina, tirare un’altra volta il dado e vedere cosa esce. Ma poi, come quando è Capodanno e vuoi buttare le cose vecchie e ti metti le mutande rosse ché porta bene e indossi qualcosa di nuovo, ti accorgi che, passato appena un po’ di tempo, quello che serve per abituarsi, il nuovo è già vecchio e di quello che hai cominciato, è già ora di sbarazzarsi.

NB. Questo racconto è apparso già nel blog di Saverio Simonelli Inoltre: grazie a Saverio per la squisita ospitalità.

martedì 8 ottobre 2013

Ultima lettura: "Cate, io" di Matteo Cellini


Cate, io

Autore: Cellini Matteo
Dati: 2013, 216 p., rilegato
Editore: Fazi (collana Le strade)

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Il compleanno dei diciotto anni è la tappa più attesa per un adolescente. Non è così per Caterina, altrimenti Cate, la protagonista del romanzo d’esordio di Matteo Cellini, vincitore del Campiello Opera Prima 2013.
Caterina è obesa in un famiglia di obesi, dove ha un posto e sa di esistere come Caterina, appunto. Fuori dalla sua casa invece è una non persona, così si definisce, ed ogni volta è Cate-ciccia, Cater-pillar, Cate-bomba. Caterina si attrezza ed esce ogni giorno a fare la guerra, vedendo in tutti dei nemici nati apposta per prenderla in giro: ecco perché non salta un giorno di scuola, per essere sicura che in sua assenza non si parli di lei. Ma arriva il momento in cui di lei si deve parlare per forza, perché arriva il suo diciottesimo compleanno e dovrà essere festeggiato come tutti quelli dei compagni di scuola che l’hanno preceduta: stesso locale, stesse pizzette, stessa musica e stessa scelta del vestito per la festa. Già, il vestito per la festa, la farsa, la finzione, il simbolo di ciò che deve fingere di essere e che non si sente di essere, un’adolescente come un’altra. Sarà rosso, così si vede meglio. Un incubo.
In effetti Caterina non è un’adolescente come un’altra e non tanto perché è obesa, o meglio, non solo perché è obesa, ma perché questa sua condizione l’ha fatta diventare un’acuta osservatrice della realtà che la circonda e di cui analizza spietatamente e sarcasticamente tic, vizi, eccessi, sempre però dal suo punto di vista, che è viziato da uno sguardo fin troppo disincantato, che a volte non vuole vedere ciò che è evidente, ad esempio l’amicizia e l’affetto di Anna, la sua compagna, quella che sale ogni mattina con lei le scale dell’edificio scolastico. E se Caterina è ogni volta Cate-ciccia ,Cater-pillar o Cate-bomba, anche lei ha soprannomi cattivi per gli altri: Anna è l’Annoievole, Antonella è Analfabeta, Giulio l’Amante (perché sempre innamorato e mai corrisposto). Insomma, anche Caterina è feroce e non solo con se stessa.
La vita di Caterina scorre tra lezioni e casa, attraverso il rapporto che ha con i genitori, i fratelli, la nonna con la quale condivide letture impegnative, la Prof. Mazzantini, Anna e infine Giacomo, che rappresenterà la sorpresa e il riscatto di questa ragazzina difficile ed esigente.
A Matteo Cellini va il merito di aver saputo mettersi negli ingombranti panni di Caterina, dando voce ai suoi pensieri e alle sue azioni, talvolta disperate: la descrizione dell’attacco bulimico che sorprende Cate (e sorprende soprattutto il lettore per la sua violenza) ha qualcosa di drammaticamente verosimile, che disturba e allo stesso tempo attrae, come se non ci si volesse fermare, per sapere fino a che punto una crisi autodistruttiva del genere può arrivare. Tuttavia non si può passare oltre alcune sinestesie, similitudini e metafore improbabili, per non dire di alcune costruzioni sintattiche ardite, delle quali Cellini sembra compiacersi: frasi come “il caffè macchia l’aria di un odore forte come un cane dalmata” o “mando in frantumi il piano regolatore della notte” lasciano interdetti a chiedersi cosa significhino.
“Cate, io” è un libro che si legge facendo un po’ di fatica, che stenta a decollare, che non riesce a coinvolgere per l’assenza di azione, fino a quando un avvenimento e due cominciano a ‘fare storia’ e allora ci si fa prendere e si arriva in fondo, con la consapevolezza raggiunta che questa storia un significato ce l’ha, anche se è difficile da trovare.