venerdì 30 novembre 2012

Sarà banale chiamarli 'ricordi di scuola'?



La mia prof di Lettere del Ginnasio aveva il nome di un fiore. Non i soliti Rosa o Margherita. Un nome, al contrario, insolito. Non so se le somigliasse, in genere somigliamo ai nomi che portiamo. Ma lei la chiamavamo con il cognome, che poi era il cognome dell’ex marito, cognome che le calzava a pennello, lei si poteva chiamare solo così. Infatti credo che ne fosse tanto consapevole da continuare a usare quel cognome, nonostante non le appartenesse più.
Era una donna dall’età indefinibile, credo che all’epoca (parliamo dell’inizio degli anni Ottanta) dovesse avere intorno ai quarantacinque anni o giù di lì. Bella. Bella di una bellezza difficile perché bisognava cercarla la sua bellezza in mezzo a quel suo essere un po’ trasandata, i capelli sempre spettinati, la trascuratezza nel vestire, mai truccata se non fosse stato per un po’ di bistro nero a cerchiarle gli occhi. E quando se lo metteva con più cura e arrivava a scuola con i capelli raccolti in uno chignon da cui non scappavano come al solito ciuffi ribelli, significava che era di cattivo umore. Ed erano guai seri perché allora faceva la pazza, anzi la stronza proprio.
Credo che avesse avuto un’esistenza difficile, segnata da scelte anche controcorrente, difficili per una donna. Come quella di lasciare un’esistenza borghese per crescere da sola le figlie in una città che non era la sua, lei era ligure dell’entroterra di La Spezia.
O la amavi o la odiavi. Oppure tutt’e due. Era capace di incantarti, non solo parlandoti di un ottativo medio passivo o della perifrastica attiva, ma raccontandoti la storia con una passione che ti sembrava di esserci, lì nella piana di Maratona o al passo delle Termopili. Ti incantava la voce, la sua risata quando rideva. Eppure era anche odiosa, a volte faceva delle interrogazioni bastarde, tanto per affossarti. E poi ci metteva l’uno contro l’altro: abbiamo trascorso due anni di ginnasio in perenne tensione tra di noi, eppure eravamo anche compatti…. Compatti nell’amore per lei e dilaniati anche dalla sua tirannia. Perché era un’amorevole amabile tiranna.
Ci portava al cinema… non a vedere le cosette. No, lei ci dava appuntamento –chi mi ama mi segua e la seguivamo tutti- davanti ai cinema d’essay a vedere il “Don Giovanni” di Losey o la vita di Moliere. Altro che ore extracurricolari, altro che i progetti che si fanno oggi a scuola, pagati poco e male, ma pagati. Lei lo faceva per il puro piacere di farlo, seguita da un codazzo di studenti adoranti che portava a vedere, a 15 anni, “Aspettando Godot” nei teatrini off che si trovavano in culo al mondo. E ci si andava stipati nell’autobus o a piedi.
Cosa mi ha insegnato? A parte il fatto di averci insegnato a tradurre il latino e il greco, le regole grammaticali e tutto quanto fosse strumento per interpretare, ci ha fatto fare le cose ‘da grandi’: la prima orazione di Cicerone, la Pro Milone, io l’ho studiata in V ginnasio. E ho letto Lisia…dal vero! Ma una cosa grande mi ha insegnato: a chiedere, a rompere le scatole, a non accontentarmi di una risposta qualunque.
E quanti cappuccini nel bar davanti a scuola quando lei aveva l’ora buca ed io magari non ero entrata: ero in crisi profonda ed ogni tanto mi prendevo una vacanza di un giorno o due dalla scuola e da lei, ma poi non resistevo e la cercavo fuori ed annacquavo di lacrime quel latte e caffè.
E quante discussioni politiche, lei leggeva il Manifesto e ci voleva tutti con sé… ma molte erano le voci di dissenso, quando ancora aveva un senso parlare di politica a scuola, quando le assemblee di istituto erano davvero delle assemblee e venivano i bidelli a cacciarci perché eravamo andati oltre l’orario normale di uscita. Non come adesso che non sanno proprio cosa significa riunirsi e parlare.

Io non me la dimenticherò mai. 


martedì 27 novembre 2012

Ultima lettura: "Il piantagrane" di Marco Presta


Il piantagrane
Autore: Presta Marco
Dati: 2012, 250 p., brossura
Editore: Einaudi (collana I coralli)



Il piantagrane è Giovanni, un uomo comune che nella vita fa il vivaista, vive da solo e ha una timidezza e una goffaggine che gli impediscono di dichiararsi a Nina, un’operatrice ecologica che ogni giorno passa dal suo vivaio a ritirare gli scarti di potatura e altri rifiuti da giardino.
Giovanni è uno qualunque, ma ha il potere straordinario di mutare il corso delle cose: in sua presenza tutto si muove in direzione contraria, secondo un orientamento che, contravvenendo alle logiche di interesse, di avidità, di sopruso sociale ed ingiustizie diversamente distribuite, va verso il buon senso e la giustezza. Questo rappresenta un grave pericolo per la società, non più abituata ad una morale sensata: Giovanni deve essere eliminato al più presto e per farlo si mettono in moto addirittura i servizi segreti. In suo aiuto arriverà Granchio, l’omino di filo di ferro dai denti disastrati, che lo proteggerà guidandolo in una fuga senza meta e con la raccomandazione di ‘camminare basso’.
Si tratta di una fiaba metropolitana, in cui si avvicendano scene degne del miglior Ammaniti, un po’ splatter, a momenti di vera poesia. I caratteri dei protagonisti e le loro descrizioni fisiche sono delineati in modo da farceli vedere, da farci camminare, correre, nasconderci, interrogarci al loro fianco. Lo stato d’animo oscillante di Giovanni, che alterna momenti di incredula incomprensione a lampi di indignazione fino a sprazzi di coraggio in una vicenda surreale che lo investe senza che abbia il tempo e il modo di rifletterci su, si oppone alla sicurezza di Granchio, che parla una lingua sua, gergale e criptica, sa muoversi con destrezza, ha occhi e orecchie ovunque, combatte contro nemici che si insinuano dove nessuno può vederli, tranne lui.

domenica 25 novembre 2012

Perchè da una parte bisogna pur cominciare.
Così comincio da qui, esplorando lo strumento, immaginando di cosa lo riempirò, provando a pensare che diventerà...